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Articoli e note

 

ROSARIA BOSCO

Prime riflessioni sulla nuova disciplina legislativa del procedimento disciplinare a carico del pubblico dipendente indagato o condannato in sede penale.

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La recente promulgazione della legge 29/03/2001 n. 97 recante la nuova disciplina normativa dei rapporti tra procedimento penale (e giudicato penale) e lavoro alle dipendenze delle P. A. offre, innanzitutto, l’occasione per una breve disamina storica dell’evoluzione legislativa della materia.

Un’univoca indicazione normativa è stata per lungo tempo fornita dalla disposizione dell’art. 85 comma 1° lett. A) del D.P.R. n. 3/57 (T.U. degli impiegati civili dello Stato) e dalle disposizioni affini dettate per il settore degli enti locali e per gli altri enti pubblici autarchici.

Tali disposizioni sancivano la destituzione “di diritto” del pubblico dipendente a seguito (e, cioè, come effetto accessorio ed automatico) di intervenuta condanna penale irrevocabile dello stesso pubblico dipendente per i delitti ivi elencati (e riconducibili per lo più alla categoria dei delitti contro la personalità dello Stato, dei delitti contro la P. A., dei delitti contro la fede pubblica).

Il principio di automaticità della destituzione del pubblico dipendente è rimasto vigente nell’ordinamento giuridico fino alla sentenza n. 971 del 14 ottobre 1988 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato articolo 85 comma 1° lett. A) del D.P.R. n. 3/57, per violazione degli artt. 3,4,35 e 97 della Costituzione (1).

La pronuncia costituzionale ha censurato la previsione normativa dell’automaticità della destituzione del pubblico dipendente, ritenendo che fossero in tal modo irragionevolmente precluse la gradualità della sanzione disciplinare da applicare in conseguenza della condanna penale irrevocabile e la possibilità per la P. A. di valutare di volta in volta i casi concreti (risultandone così vulnerato il principio costituzionale del buon andamento).

La legge 7 febbraio 1990 n. 19 ha inteso colmare il vuoto normativo creato dalla citata sentenza costituzionale, stabilendo all’art. 9: a) che “il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. E’ abrogata ogni contraria disposizione di legge”; b) che la destituzione può peraltro essere irrogata al pubblico dipendente in esito a rituale procedimento disciplinare; c) che la sospensione cautelare del pubblico dipendente dal servizio non può avere comunque durata superiore a cinque anni.

La prima previsione normativa di cui sopra ha pertanto recepito in toto le indicazioni della Corte Costituzionale preclusive dell’automaticità della destituzione, ed ha comportato il venir meno di tutte le residue disposizioni contrarie di legge .

La previsione normativa della destituibilità del pubblico dipendente, ancorché all’esito di un procedimento disciplinare, ha positivamente rimosso possibili dubbi sull’irrogabilità di tale estrema sanzione disciplinare in correlazione al giudicato penale di condanna dello stesso pubblico dipendente.

L’introduzione di un espresso limite temporale di durata massima della sospensione cautelare dal servizio ha attenuato il rigore delle previdenti disposizioni degli artt. 91 e 92 del T.U. n. 3/57, che non sancivano alcun limite temporale per la sospensione cautelare,facoltativa o obbligatoria.

Nell’ambito di una politica legislativa, tesa in quegli anni ad inasprire il regime sanzionatorio a carico dei pubblici funzionari o dipendenti imputati di gravi delitti (lesivi della trasparenza, o della legalità e dell’imparzialità dell’azione amministrativa), la successiva legge 18/1/92 n° 16 ha altresì previsto: a) l’immediata sospensione del pubblico dipendente nei casi di condanna anche non definitiva per il delitto di associazione mafiosa o di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, o per alcuni delitti contro la P. A. (lettere a e b del comma 4°- septies dell’art. 15 della legge n°55/90 così modificata); b) la sospensione del pubblico dipendente nel caso di condanna in primo grado confermata in appello, per qualsiasi delitto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio (lett. c dello stesso comma 4 – septies);

c) la decadenza di diritto del pubblico dipendente a seguito del giudicato penale di condanna per i delitti sopraindicati (comma 4° - octies).

La persistente vigilanza della Corte Costituzionale sulla legittimità della disciplina normativa in materia ha indotto il legislatore ad operare un’attenuazione del rigore del sistema.

Infatti, con sentenza n. 197 del 27 aprile 1993 (2), la Corte Costituzionale, riprendendo le considerazioni già formulate nella fondamentale sentenza n° 971/88, aveva dichiarato l’incostituzionalità del comma 4° octies dell’art. 15 della legge n°55/90 (quale introdotto dalla legge n. 16/92, nella parte in cui prevedeva, pur se sotto la forma di decadenza, la destituzione di diritto del pubblico dipendente a seguito di condanna penale irrevocabile.

La detta attenuazione del previgente rigore normativo è stata realizzata sia dall’art. 59 del dlgs. del 3 febbraio 1993 n. 29 in tema di privatizzazione del pubblico impiego (il cui art. 59 ha rimesso ai contratti collettivi la definizione della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni (3), sia dalla legge 13/12/1999 n. 475 che, nel modificare l’art. 15 della citata legge n. 55/90, ha previsto la necessità della condanna definitiva per l’ operatività della sospensione immediata del pubblico dipendente nei casi di cui alle lettere a e b del comma 4° septies dello stesso art. 15, ed ha ridotto i casi di sospensione per condanna definitiva in relazione ai reati comportanti abuso d’ufficio.

La legge 27 marzo 2001 n. 97 è, pertanto, intervenuta in un quadro normativo bisognoso di un assetto più stabile e definitivo della materia.

Del nuovo testo normativo va innanzitutto evidenziato l’ampio riferimento, contenuto nelle sue disposizioni, ai dipendenti di “amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica”; formulazione, questa che, per la sua ampiezza, ricomprende non soltanto il tradizionale settore pubblico (Stato ed enti autarchici in senso stretto), ma anche gli enti pubblici economici, le pubbliche amministrazioni speciali (authorities ed agenzie), nonché gli enti privati (di natura corporativa o meno) caratterizzati organizzativamente e strutturalmente da una preminente presenza pubblica (come, ad es., gli enti lirici e le società speciali di gestione dei servizi locali).

L’ampliamento, in tal modo operato dell’ambito di applicabilità della disciplina in esame, sembra da un lato ispirato dall’esigenza di impedire la fruizione, da parte di dipendenti di enti o imprese formalmente private (ma in realtà esercenti funzioni pubbliche o pubblici servizi), di un regime disciplinare più favorevole (perché correlato alle dinamiche della contrattazione collettiva) (4) rispetto a quello valevole per i dipendenti pubblici in senso stretto, e dall’altro lato finisce con il costituire una sorta di riconoscimento dell’esistenza di un settore pubblico allargato, caratterizzato dalla prevalente natura pubblicistica delle norme ad esso relative.

Una significativa novità della riforma è costituita dall’introduzione (art. 3 legge n. 97/2001) di un’ipotesi di trasferimento del pubblico dipendente (inteso nel senso lato di cui sopra a seguito di rinvio a giudizio) per i delitti contro la P. A. contemplati dallo stesso articolo.
Si tratta di una misura discrezionalmente adottabile dall’amministrazione di appartenenza sulla base di un prudente apprezzamento dell’opportunità o meno della permanenza del dipendente nell’ufficio (in relazione al discredito che la stessa amministrazione può eventualmente subire per effetto di tale permanenza) (5).

Il secondo comma dello stesso art. 3 prevede altresì il potere dell’amministrazione datrice di lavoro di collocare il dipendente in posizione di aspettativa o di disponibilità (e con il diritto dello stesso al trattamento economico in godimento) nei casi in cui in relazione alla qualifica rivestita dal dipendente o per obiettivi motivi organizzativi non sia possibile attuare il trasferimento d’ufficio.

Fermo restando quest’ultimo potere del datore di lavoro, il trasferimento d’ufficio del dipendente a seguito di rinvio a giudizio deve assicurare allo stesso dipendente, ai sensi dell’art. 2103 c.c., l’equivalenza professionale tra le mansioni precedentemente esercitate e quelle assegnate per effetto del trasferimento. Il comma 3° dell’art. 3 sancisce l’inefficacia della misura adesso in esame nel caso di intervenuta sentenza di proscioglimento o assoluzione, anche non definitiva, o di decorso del termine di cinque anni dalla sua adozione (sempre che non sia intervenuta sentenza di condanna definitiva).

L’art. 4 legge n°97/2001 disciplina ex novo (con implicito effetto abrogativo di tutte le disposizioni previgenti) la sospensione cautelare del pubblico dipendente in relazione al procedimento penale e dispone che tale sospensione operi (doverosamente, e cioè senza alcun margine di discrezionalità da parte dell’amministrazione) nel caso di condanna anche non definitiva per alcuno dei reati già indicati dal menzionato art. 3, comma 1, ed ancorché sia concessa la sospensione condizionale della pena.

Tale sospensione automatica del dipendente dal servizio non è di per sé incompatibile con la previsione, da parte della contrattazione collettiva, di altre distinte ipotesi di sospensione cautelare del pubblico dipendente nell’ambito di procedimenti disciplinari per fatti non penalmente rilevanti (ad es. per gravi negligenze di servizio non integranti illeciti dolosi).

Il secondo comma dell’art. 4 sancisce l’inefficacia della sospensione nel caso di intervenuta sentenza di assoluzione o di proscioglimento, anche non definitiva, e nel caso di avvenuto decorso di un termine pari a quello di prescrizione del reato contestato al pubblico dipendente.

Gli effetti del giudicato penale di condanna sul rapporto di impiego o di lavoro pubblico (nel senso sopra illustrato) sono disciplinati dall’art. 5 della legge n. 97/2001, che introduce nel codice penale, - mediante la modifica dell’art. 19 e l’inserimento dell’art. 32 quinquies - una nuova pena accessoria, consistente nell’estinzione dello stesso rapporto di lavoro o di impiego a seguito della condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti contro la P. A. ivi contemplati.

Il quarto comma dello stesso art. 5 prevede altresì la possibilità dell’estinzione del rapporto, a seguito di rituale procedimento disciplinare, e, pertanto, non quale effetto accessorio ed automatico del giudicato penale nel caso di intervenuta sentenza irrevocabile di condanna del dipendente, ancorché a pena condizionalmente sospesa, per i medesimi delitti di cui sopra.

In quest’ultimo caso, il procedimento disciplinare deve avere inizio entro gg. 90 dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione competente per lo stesso procedimento e deve concludersi entro 180 giorni dal suo inizio o procedimento, salvi i diversi termini previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro.

Alla stregua delle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale con la sentenza n°187/1999, i termini di cui sopra hanno natura perentoria (con la conseguenza della definitiva estinzione della potestà disciplinare della P. A. in caso di loro inosservanza).

L’efficacia della sentenza penale nel procedimento disciplinare è adesso regolata dall’art. 1 della legge n. 97/2001, che, nel modificare l’art. 653 c.p.c., ha, da un lato ,disposto che la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio di responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso e, dall’altro lato, ha stabilito che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione (anche non pronunciata in dibattimento) ha uguale efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale o che l’imputato non lo ha commesso.

Dal quadro normativo fin qui descritto emerge un’evidente restrizione del margine di valutazione, da parte della P. A., delle risultanze del processo penale(irrevocabilmente conclusosi con la condanna o con l’assoluzione del pubblico dipendente), perché sono state estese le formule di proscioglimento vincolanti nel successivo procedimento disciplinare, ed è stata altresì sancita l’efficacia pro judicato anche delle sentenze di condanna o di assoluzione non pronunciate a seguito di dibattimento, ed altresì delle sentenze di patteggiamento (com’è dato desumere dal combinato disposto dei nuovi artt. 445, comma 1°, II° periodo, e 653, comma 1° bis, del c.p.p., quali novellati dagli artt. 2 e 1 della legge in esame).

L’interrogativo più rilevante suscitato dall’approvazione della nuova disciplina legislativa in esame è costituito dalla sorte dell’avvenuta reintroduzione di una forma di estinzione automatica del rapporto di lavoro pubblico, quale mera conseguenza accessoria della condanna penale irrevocabile del pubblico dipendente per alcuni delitti contro la P. A..

E’ questo un interrogativo solo apparentemente eludibile dalla circostanza che l’estinzione del rapporto di impiego è adesso prevista come autonoma pena accessoria, e ciò perché, comunque, anche la nuova previsione normativa finisce con il sottoporre il pubblico dipendente alla sanzione della destituzione di diritto, senza consentirgli di far valere, nell’adeguata sede del procedimento disciplinare, l’eventuale eccessività della stessa destituzione rispetto alle particolarità del caso concreto.

Appare pertanto probabile che prima o poi la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi sulla conformità della nuova pena accessoria in tema di estinzione “penale” del rapporto di lavoro pubblico alle medesime norme parametro (artt. 3, 4, 35, 97 della Costituzione) già ritenute violate dalle originarie disposizioni contenute nell’art. 85 lett. a del D.P.R. n. 3/57 e in analoghi testi legislativi.

Sul piano più strettamente giuslavoristico, si può comunque osservare fin d’ora che la reintroduzione legislativa, e come tale inderogabile, di una forma di estinzione automatica del rapporto di lavoro pubblico ha comportato un sensibile ridimensionamento dell’autonomia normativa collettiva nella materia. Ed infatti risulta in tal modo precluso qualsiasi intervento integrativo sul punto da parte della contrattazione collettiva, in palese contraddizione con l’indirizzo dettato dall’art. 59 del d.lgs. n. 29/1993 (che prevede che la tipologia delle infrazioni delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi) e volto ad equiparare l’impiego pubblico al lavoro privato (6). Torna forse così la ricorrente sfiducia del legislatore (e dell’opinione pubblica) nella capacità della contrattazione collettiva del settore pubblico di tutelare adeguatamente l’interesse del datore di lavoro (pubblico) alla correttezza ed alla puntualità della prestazione lavorativa del dipendente?!

Argomenti correlati:

TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. I - Ordinanza 2 luglio 2001 n. 212 (solleva q.l.c. dell'art. 4 della L. n. 97/2001, il quale prevede che la sospensione è obbligatoria per alcuni reati e la durata massima della sospensione stessa va commisurata ad un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato), in questa rivista, pag. http://www.lexitalia.it/tar1/tarcampna1_2001-212o.htm  con nota di F. FONTANELLA.

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NOTE

1) Il testo integrale della sentenza è pubblicato in CONS. DI Stato 1988, II , 1779, La declaratoria di incostituzionalità in tal modo operata ha colpito anche analoghe disposizioni di legge in materia come ad esempio l’art. 236 del D. L. P. Reg. sic. n. 6/55 e n.2 47 R. D. n. 383/34.

2) Per il testo integrale della sentenza v. Consiglio di Stato 1993, II, 692.

3) Per un’ampia disamina delle ragioni della riforma e dei principi ispiratori delle deleghe legislative (leggi n. 421/92, n.59/97) e dei relativi decreti legislativi in tema di P.I. v. D'ANTONA, Contratto collettivo sindacati e processo del lavoro dopo la “seconda“ privatizzazione del P.I. in Foro italiano 1999 , I, 621-634; CARINCI, ZOPPOLI, Progettando il testo unico sul pubblico impiego, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, anno 2000 , pag. 5 ss; Sabino CASSESE, La riforma della pubblica amministrazione, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, anno 2000, pag. 107.

4) Ed infatti, l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/70) conferisce alla contrattazione collettiva un rilevante spazio di intervento in sede di disciplina degli aspetti sostanziali e procedimentali delle sanzioni disciplinari applicabili nel rapporto di lavoro subordinato.

5) La legittimità o meno della scelta al riguardo discrezionalmente operata dall’amministrazione potrà essere sindacata in sede giudiziaria, non tanto sulla base dei tradizionali canoni di valutazione e di individuazione delle c.d. fattispecie sintomatiche di eccesso di potere, bensì sul piano dei doveri strumentali di correzione (correttezza e buona fede ) che hanno acquisito ormai preminente rilevanza a seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico.

In ogni caso l’ipotesi di trasferimento introdotto dalla norma in esame si pone in termini di specialità rispetto al generale potere datoriale – ex art. 2103 c.c.- di trasferire il dipendente per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

6) Equiparazione , questa che ha raggiunto una significativa espressione nel passaggio (attuato dall’art. 29 del decreto legislativo n. 80/98) dalla riserva di giurisdizione del giudice amministrativo (v. l’originario testo dell’art. 68 del d. lgs. n. 29/93) per le controversie in tema di responsabilità, anche disciplinare, del pubblico dipendente alla generale giurisdizione del giudice ordinario del lavoro anche su tali controversie (con la conseguente valorizzazione sia del contratto collettivo , sia dei profili di correttezza e di buona fede nello svolgimento del rapporto di lavoro, rispetto ai tradizionali presidi normativi dell’attività amministrativa e dei suoi tipici vizi di legittimità).


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