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n. 2/2004 - ©
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VITTORIA BERLINGÒ
Sulle norme
per l’esercizio nella Regione siciliana
delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato
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1. Le coordinate per una lettura della nuova normativa di attuazione dello Statuto Siciliano.
Il decreto legislativo di attuazione dello Statuto Siciliano del 24 dicembre 2003, n. 373, recante “Norme per l’esercizio nella regione siciliana delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato”, è intervenuto in un momento cruciale per la vita del Consiglio di Giustizia amministrativa (da ora in poi C.G.A.).
L’esigenza di un chiarimento, in merito alle questioni relative alla istituzione e alla composizione di detto organo giurisdizionale, era divenuta così pressante ed indifferibile, da spingere lo stesso C.G.A. a rilevarla, tramite l’ordinanza del 13 maggio 2003, n. 185. Con essa, veniva segnalata la necessità di affrontare, una volta per tutte, tali questioni, le cui radici risalirebbero, a parere della dottrina più accreditata [1], all’art. 23 dello Statuto siciliano, secondo cui “Gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione” ed all’art. 1 del decreto legislativo del 1948 n. 654, che, nel darvi attuazione, istituiva il C.G.A., individuando in capo allo stesso la titolarità delle “funzioni consultive e giurisdizionali spettanti alle Sezioni regionali del Consiglio di Stato”.
Quest’ultima disposizione, infatti, avendo introdotto un organo, non espressamente previsto dallo Statuto, con una composizione non coincidente con quella dell’organo giurisdizionale centrale [2], aveva fatto sorgere subito un delicato problema interpretativo, sugli spazi di libertà riconducibili alla norma di attuazione rispetto alla norma statutaria [3].
I dubbi circa le ‘origini’ della ‘originale’ composizione di detto organo indussero alcuni a riferirli, appunto, ai margini di creatività, propri delle norme di attuazione, per leggervi le prime manifestazioni di un incipiente federalismo istituzionale [4]; altri, a spiegare le rilevate difformità sulla scorta di una presunta ‘resistenza burocratica’, da parte del Consiglio di Stato [5].
Quale che sia il più adeguato e meditato giudizio ‘storico’ da dare circa la portata attuativa del decreto legislativo n. 654 del 1948, se cioè esso abbia operato secundum o ultra legem, è indubbio che la problematica, posta in questi termini, non è più attuale, a seguito della abrogazione e sostituzione dello stesso, in forza del decreto in commento.
La nuova normativa, mantenendo in vita il C.G.A. e istituendo le sezioni consultive e giurisdizionali con identità propria di sezioni del Consiglio di Stato, ripropone, però, il problema della caratterizzazione del C.G.A. in senso ‘federalista’, ossia secondo una configurazione asimmetrica rispetto al modello centrale, con particolare riguardo, inoltre, alla questione della conformità a Costituzione delle norme relative alla composizione di tale organo.
2. La duplice tensione nelle disposizioni del decreto legislativo del 2003, n. 373
Il grado di insight della nuova normativa di attuazione emerge scorrendo le disposizioni di cui consta.
In vero, secondo quanto si è già accennato, la scelta compiuta dal legislatore con il decreto legislativo del 2003, non va nella direzione di una totale uniformità rispetto all’organo centrale di giustizia amministrativa, come potrebbe far intendere l’art. 1 con la suddivisione del Consiglio di Giustizia amministrativa in Sezioni, giurisdizionale e consultiva (nella sostanza già riconosciute, da dottrina [6] e giurisprudenza [7], durante la vigenza del decreto abrogato).
Infatti, il legislatore si orienta nel senso di rimodellare, con gli elementi innovativi introdotti dall’ultimo decreto, un organo, che continua tuttora a essere “caratterizzato da una propria fisionomia e struttura” [8].
In questo quadro, merita di essere segnalata la disciplina rafforzativa della posizione del presidente del C.G.A., che nello svolgimento delle molteplici incombenze della gestione organizzativa del Consiglio nel suo complesso, viene sorretto dalla presenza di due presidenti, preposti alle rispettive sezioni. L’”aggiunto”, preposto alla sezione consultiva, “sostituisce il presidente nello svolgimento dei compiti organizzativi e di gestione dell’ufficio a lui spettanti in caso di sua assenza, impedimento o delega” (art. 2). Il terzo presidente, preposto alla sezione giurisdizionale, rileva in parte il carico di lavoro ricadente in precedenza unicamente sul presidente del C.G.A. La titolarità ed organicità dei poteri complessivi di quest’ultimo si ricava, altresì, dal comma finale dello stesso articolo, in cui si dispone che “il Presidente del C.G.A., all’inizio di ciascun anno, assegna quattro Consiglieri di Stato alla sezione giurisdizionale e due alla sezione consultiva. Ove manchi in una sezione il numero di Consiglieri necessario per deliberare, il Presidente del Consiglio di Giustizia amministrativa provvede ai sensi dell’art. 12, secondo comma, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054”, cioè supplendo con i consiglieri appartenenti ad altre sezioni.
Viene mantenuto un ufficio unico di segreteria, nonostante la espressa istituzione delle sezioni, dotato di un apposito dirigente, come si ricava dall’art. 11. Il dirigente della segreteria, unitamente al presidente del C.G.A., provvederà all’adozione di misure organizzative interne, ritenute necessarie ai fini di una suddivisione del lavoro che consenta di trattare gli affari di una sezione separatamente da quelli dell’altra.
Ulteriore indice del mantenimento di un complesso giurisdizionale peculiare –per come è stato rilevato [9]- rispetto a quello centrale si evince, soprattutto, dalla riaffermazione della composizione mista del Consiglio di Giustizia amministrativa, in particolare nella parte di designazione regionale. In ispecie la distinzione tra ‘esperti’ e ‘giuristi’, menzionata nel decreto legislativo del 1948, è venuta meno, per fare riferimento all’unica categoria di ‘componenti’ del C.G.A. designati dal presidente della Regione siciliana (ai sensi dell’art. 6, comma 2, del decreto in commento), cinque per la sezione consultiva, quattro per quella giurisdizionale.
In tale ricostruzione, un accenno merita, quindi, la nuova definizione della competenza territoriale del C.G.A., come “rilevabile anche d’ufficio” ai sensi dell’art. 10, comma1 [10].
Gli altri dati normativi consentono, invece, il superamento di quelle antinomie che, nella vigenza del precedente decreto, impedivano di parlare, in senso soprattutto formale, di sezioni [11].
Nel presente decreto, la modifica organizzativa che articola in due sezioni l’esercizio, rispettivamente, delle funzioni consultiva e giurisdizionale si traduce, innanzitutto e come accennato sopra, nella previsione di due presidenti, ciascuno preposto alla rispettiva sezione, senza possibilità per l’uno di interferire negli affari (correnti) dell’altro. Infatti, l’art. 5, nel disporre la supplenza dei consiglieri di Stato più anziani, in caso di assenza o impedimento dei rispettivi presidenti, va letto in base all’esigenza di tenere separato lo svolgimento delle due funzioni.
Dal combinato disposto degli articoli 2 e 3 emerge che una delle novità più importanti è costituita dalla separazione dei contigenti di magistrati assegnati alle stesse. Viene meno il meccanismo, previsto dall’art. 2 del decreto legislativo del 1948, come modificato dal decreto presidenziale del 1978, secondo cui dei quattro membri del C.G.A. in sede giurisdizionale, due sedevano anche in sede consultiva, comportando il rischio della conoscenza del medesimo affare da parte degli stessi magistrati.
Nella nuova normativa di attuazione due consiglieri di Stato affiancano un presidente, un prefetto della Repubblica e cinque componenti di nomina regionale nella composizione della sezione consultiva; quattro consiglieri di Stato concorrono, invece, insieme con il presidente del C.G.A., il presidente di sezione e quattro componenti ‘laici’, alla formazione della Sezione giurisdizionale.
Nei confronti di tutti i membri sono stati estesi, dal comma 3 dell’art. 7, i poteri di vigilanza del presidente del Consiglio di Stato e dei presidenti titolari delle sezioni, come disciplinati dall’art. 31, commi 2 e 3, della legge n. 186 del 1982. E’ questa una previsione importante ai fini dell’individuazione di quel ‘saldo collegamento’ del C.G.A. al Consiglio di Stato, la cui assenza impediva di parlare, secondo alcuni, di sezione [12].
Riunendo i dati qui esaminati, è possibile enucleare quasi una duplice tensione: da un lato, verso la salvaguardia delle specificità più propriamente autonomistiche, rinvenibili nel mantenimento del C.G.A. e della sua realtà identitaria; dall’altro, verso l’armonizzazione delle stesse nell’unità del sistema giudiziale nazionale, garantita dall’istituzione delle sezioni.
3. Sezione giurisdizionale e ipotesi di giustizia federale.
L’art. 4, comma 3, del nuovo decreto di attuazione, nel disporre che “in sede giurisdizionale il Consiglio di giustizia amministrativa esercita le funzioni di giudice di appello contro le pronunce del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”, consacra l’orientamento giurisprudenziale, che aveva riconosciuto in capo al C.G.A. la natura di giudice di appello per tutte le sentenze del TAR Sicilia [13]. Con due decisioni dell’Adunanza Plenaria, 4 luglio 1978, n. 21 e 23 marzo 1979, n. 12, tale organo veniva riscattato dal limbo in cui era stato relegato dall’art. 5 del decreto legislativo n.456 del 1948 che lo configurava ora giudice d’appello, ora giudice di unica istanza, ora giudice di primo grado, come tale sottoposto all’appello di fronte all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Tuttavia un problema di fondo è sollevato dalla possibilità offerta, con la nuova disciplina, di concepire la sezione giurisdizionale in Sicilia come sezione del Consiglio di Stato, alla cui procedura il decreto, peraltro, si rifà, ai sensi dell’art. 10, comma 3.
Appare legittimo chiedersi se una normativa, mantenuta, in parte, come derogatoria rispetto al sistema giudiziario generale dello Stato, negli aspetti sopra evidenziati, sia tale da configurare un vero e proprio segmento di sistema di Corti regionali [14].
Per vero, tale opzione si era già ipotizzata in sede di studio della riforma della Costituzione, quando la ‘questione istituzionale’, affrontata, forse per la prima volta, in senso propriamente federalistico, ha investito anche l’aspetto del potere giudiziario [15]. In ispecie, il sistema di giustizia amministrativa veniva ridisegnato secondo un nuovo assetto decentrato. In tale progetto, il C.G.A. rappresentava un’esperienza-pilota a cui collegarsi per prefigurare, in seno alla riforma, una ‘gemmazione’ di sezioni speciali del Consiglio di Stato quali giudici di secondo grado, operanti in ogni Regione, con riguardo alle sentenze emesse dai Tribunali amministrativi regionali, competenti a giudicare, esclusivamente, sui ricorsi proposti avverso provvedimenti di Regioni, Province, Comuni ed enti pubblici dipendenti [16].
Tali vicende impongono, più che mai oggi, un momento di riflessione circa la riconducibilità del decreto legislativo 2003 all’interno del federalizing process, avviato dalla riforma del Titolo V della Carta. Il problema della relazione tra giustizia amministrativa e stato regionale, come da taluno interpretato, può tradursi nel seguente interrogativo: “l’opzione costituzionale per una forma di stato di regionalismo forte o federale rende logicamente consequenziale o quantomeno opportuna la regionalizzazione, anche se parziale, del sistema di giustizia, ed in particolare di quella amministrativa?” [17]
Al riguardo è bene acquisire un dato maturato all’interno dell’esperienza comparatistica: non è provata alcuna mutua implicazione tra forma federale di stato e assetto federale della giustizia. Il federalismo giurisdizionale degli Stati Uniti non si è imposto, infatti, negli Stati federali e regionali europei, che, a loro volta, hanno sperimentato assetti giurisdizionali diversi [18]. E così, sotto l’etichetta della ‘regionalizzazione della giustizia’ è possibile ricomprendere forme di giustizia federale diverse: alcune in cui prevale il profilo oggettivo-procedimentale, con un coinvolgimento della Regione nella disciplina dell’esercizio della funzione; altre in cui prevale il profilo soggettivo-ordinamentale, ossia la derivazione di alcuni dei componenti dell’organo dalla matrice regionale; altre ancora che presentano elementi di entrambi i profili ora delineati.
Per converso, nell’esperienza italiana, il ruolo assunto dal principio della statualità della funzione giurisdizionale non è imputabile esclusivamente al disposto costituzionale, ma può essere ricondotto anche ad una scelta di indirizzo politico. Il dato normativo, secondo autorevole dottrina, permetterebbe spazi di manovra per un eventuale coinvolgimento della Regione nel sistema della giustizia, sia pur entro i limiti e le ‘riserve’, tracciate dalla Carta. In particolare, la ‘riserva di legge (statale)’, di cui all’art. 108, sarebbe stata, semplicemente, introdotta come sintomo dell’esigenza di ‘adeguamento’ della previsione normativa ai reali interessi in gioco, rimanendo ferma la necessità di accertare che la materia giurisdizionale non risulti estranea agli interessi territorialmente localizzati [19].
La rilevanza accordata a tali elementi permette, forse, di tracciare più agevolmente un bilancio sulle peculiarità di cui si arricchisce l’assetto giurisdizionale italiano con il decreto legislativo n. 373. Si deve, infatti, dare atto che l’articolazione del potere giudiziario in Italia, dopo la riforma di cui alla legge costituzionale n. 3 del 2001, è rimasto all’interno di un modello di tipo unitario [20], nonostante il potere legislativo, per un verso, e quello esecutivo-amministrativo, per l’altro, risultino ripartiti all’interno di un’organizzazione di governo multi-livello [21].
Si è pure visto, scorrendo le novità più importanti del decreto legislativo 2003, che la nuova configurazione del C.G.A. non ha comportato l’affermazione di un sistema giudiziario alternativo e chiuso, riuscendo, anzi, a recuperare forme di ‘raccordo’ con il sistema giudiziario appartenente al livello dello Stato centrale, prima ostacolate da numerose ‘anomalie e disarmonie’.
D’altra parte, il riferimento alla dimensione territoriale per la determinazione della composizione del C.G.A., se prima poteva intendersi come un’aspirazione ad un decentramento di una giurisdizione tutta e solo statale, oggi deve considerarsi carico di nuova valenza.
Le spinte innescate dalla riforma del Titolo V portano a fare un distinguo tra le giurisdizioni.
L’accentramento statuale nei rapporti processuali civili e penali non può che rimanere fermo, data l’impossibilità di ammettere una tutela delle libertà civili, differenziata regionalmente.
Al contrario, non può pervenirsi in modo scontato alla stessa conclusione, con riferimento alla giurisdizione amministrativa. E’questa, oggi, a risultare investita delle materie rientranti, prevalentemente, nella competenza regionale. In periferia, la maggior parte delle controversie amministrative attiene all’applicazione di norme proprie delle Regioni. Si ripropone un contesto di ‘vicinanza’ agli interessi dei cittadini, che aveva già portato il giudice amministrativo ad esperienze di composizioni miste dei collegi e che, nel momento attuale, non consente di pronunziarsi per una sua (totale) estraneità al soddisfacimento di interessi territorialmente localizzati.
Si potrebbe obiettare che in tale ricostruzione non venga tenuta in debito conto la possibilità di una reductio ad unum della giurisdizione amministrativa e della giurisdizione ordinaria, eventualità capace di mettere in crisi il ‘distinguo’ su cui si è, poco sopra, fondato il venir meno della preclusione costituzionale ad una (ri)organizzazione in senso ‘federalista’ del contenzioso amministrativo.
Effettivamente, le novità apportate dal decreto legislativo n. 80 del 1998 in tema di giurisdizione esclusiva, nonché dalla legge n. 205 del 2000 con riguardo al processo amministrativo, risentono di un processo di trasformazione, ancora in itinere, della stessa amministrazione, che si trova a condividere con ‘altri centri di azione’ l’esercizio di funzioni di pubblica rilevanza in un panorama socio-economico, peraltro, anch’esso soggetto a rapidi mutamenti [22]. L’affermarsi di un modello di società , sempre più economica, e tale da registrare una ‘fuga nel diritto privato’ della disciplina dell’organizzazione amministrativa, potrebbe indurre a ritenere compromessa la ‘specialità’ del giudice amministrativo, chiamato, in settori sempre più vasti, attribuiti alla sua competenza esclusiva – si pensi all’estensione di materie come i servizi pubblici, l’edilizia, l’urbanistica – e con strumenti propri del processo civile, ad una ‘cognizione piena’ [23].
Peraltro, l’attualità del ruolo peculiare e specifico del giudice amministrativo trova nuovo vigore proprio in queste materie di confine, in cui si conferma quale giudice della funzione pubblica nella sua unitarietà, irrilevante essendo che tale funzione sia esercitata nelle forme e con gli strumenti del diritto pubblico ovvero nelle forme e con gli strumenti del diritto privato. Il suo sindacato rimane, infatti, improntato ai canoni valutativi che utilizza quando giudica su rapporti pubblicistici [24]. Ciò basta, quindi, ad escludere un’assimilazione della giurisdizione amministrativa a quella ordinaria. A ciò, si aggiunga che proprio la legalità e la ‘qualità dell’azione’ – intesa come esauriente e completa acquisizione di tutti gli interessi – cui fa riferimento il giudice amministrativo per la sua cognitio causae, assumono, nell’ambito delle materie di giurisdizione esclusiva, sfumature diverse col variare della disciplina accordata dal livello locale, che ne detiene la potestà normativa, secondo quanto disposto dall’art. 117, comma 3 della Costituzione [25].
L’eterogeneità degli interessi in gioco, per un verso agganciati ad una prospettiva centralista, ma allo stesso tempo espressione della condotta amministrativa degli organi della Regione, richiede, quindi, un bilanciamento, un momento di sintesi, che solo un ‘collegamento’ tra funzione giurisdizionale (statale) e autonomia regionale può offrire.
In questo senso, il nesso tra magistratura amministrativa, sia pure di secondo grado, e il livello di governo regionale, riaffermato con il decreto legislativo del 2003, presuppone la scelta di campo per una forma di regionalizzazione della giustizia ben precisa, quella soggettiva-ordinamentale. L’integrazione dei collegi con magistrati ‘laici’ di designazione regionale permette l’introduzione di un ‘elemento border line’, da un lato capace di mantenere inalterata l’unitarietà del sistema giudiziario, intesa come garanzia di tutela rispetto a intollerabili diversificazioni tra i cittadini; dall’altro, capace di rendersi interprete privilegiato delle istanze di giustizia in virtù della propria ‘vicinanza’ agli stessi [26].
4. Una ricostruzione ‘ampia’ del concetto di indipendenza.
Per vero, tale ricostruzione presuppone risolto un altro problema, anch’esso sollevato dall’ordinanza sopra menzionata, ossia quello dell’indipendenza del giudice laico in linea con l’apparato di garanzie individuato dalla stessa Costituzione con riguardo alla giurisdizione ordinaria [27].
E’ opportuno premettere quanto maturato, su tale argomento, in seno alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Il valore e le conseguenze del “diritto ad un processo equo”, garantito dall’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo e del cittadino, oggi più che mai, rappresentano un elemento di aggregazione tematica del ‘nodo’ del giudice, soprattutto di quello laico[28]. In ispecie, si fa riferimento a quel filone di sentenze della Corte di Strasburgo, da taluni apostrofato come espressione della ‘tirannia delle apparenze’, con il richiamo ad un antico adagio inglese secondo cui ‘la giustizia non solo deve essere fatta, ma occorre anche che appaia che sia fatta” (cfr. sentenze Delcourt, 17.01.1970; De Cobber, 26.10.1986) [29].
Dai leading cases più recenti, si ricava come la legittimazione del giudice, in una comunità democratica, si fonda sulla conquista della confidence dei cittadini: la struttura dell’organo giurisdizionale e del procedimento, per come essa appare alle parti in causa ed ai cittadini, deve essere tale da renderli fiduciosi che nel processo le istanze di giustizia, garantite dall’indipendenza ed imparzialità, saranno pienamente soddisfatte [30].
Tuttavia, se da un parte si registrano tali istanze, fondate sul carattere democratico della società e dello Stato, dall’altra, proprio l’esigenza di una mediazione di comunicazione tra sistema ed ambiente ha portato all’affermazione della teoria democratica dell’interpretazione giuridica, in cui la società, se pur indirettamente, può, con i suoi orientamenti politici e valutativi, con le sue aspettative di giustizia partecipare al processo di concretizzazione del diritto, senza per questo travolgere la necessaria indipendenza del giudice.
Se è vero (ci si può riferire, al riguardo, alle dottrine di Bultmann, Heidegger e Gadamer, e con più specifico riguardo all’esperienza giuridica, ad Esser e Alexy) che non si può avere una comprensione del diritto senza una sua precomprensione, risulta in qualche modo illusoria la pretesa di poter fare astrazione dalla educazione individuale e familiare, dal temperamento, dall’ideologia personale e professionale dell’interprete. In quanto risultato di un lungo Lernprozess unterschliedlicher Art, la precomprensione si lega ad un nesso dell’interprete con il tramandato, che si presenta comune all’intera società.
Sulla scorta di tali considerazioni, si sarebbe portati a ritenere che proprio il giudice laico per la sua provenienza e per il suo bagaglio professionale, incarni meglio la figura che, secondo Esser, in termini oggettivi, possiede i ‘filtri’ attraverso cui passano i materiali che vanno a formare la sua precomprensione. Si tratta, però, di quel giudice che, secondo la prospettiva della Corte Europea, sembra configurare l’anello debole del sistema di giustizia.
Si ripresenta, quindi, un problema di più ampio respiro, quello della stessa legittimazione del giudice, non più bouche de la loi, per affrontare il quale si potrebbe far tesoro [31] di quanto scriveva Salvatore Satta, nel breve ma densissimo saggio significativamente intitolato Il mistero del processo. Secondo l’illustre processualista, il giudizio va ricondotto ad ‘un momento eterno’, la cui essenza risiede nel fatto che è reso da un terzo, da chi non è parte [32].
La definizione del ‘momento eterno’, in questi termini, può riallacciarsi a quello che, nell’ambito della riflessione contemporanea sugli ordinamenti democratici, è stato definito il ‘paradigma ideale della giustizia’, come esigenza “perenne di superamento delle particolarità individuali e di gruppo, specificatamente avvertita negli ordinamenti pluralistici, dove la considerazione dei problemi sub specie alteritatis non è solo un principio astratto, ascrivibile ad un retaggio filosofico o ideologico, ma si impone come condizione pratica di garanzia della comunità organizzata” [33].
In tale prospettiva l’“eterno” che gli uomini avvertono nel processo e nella giurisdizione va ricercato nelle forme e nelle regole ‘oggettive’, identificanti il contenuto della terzietà e dell’indipendenza [34].
Emerge, dunque, da queste riflessioni che la fonte più profonda della legittimazione dei giudici sta nel legame fra il processo giurisdizionale e la legittimazione dell’ordine politico e istituzionale di una società [35]. Infatti l’acquisita consapevolezza dell’ineliminabile discrezionalità di qualunque atto interpretativo, la complessità dei rapporti giuridici nel quadro dello Stato post-moderno, la perdita della generalità ed astrattezza della legge, l’irruzione dei valori costituzionali post-liberali, impediscono qualunque ritorno indietro ad un’immagine rassicurante e ad una pratica debole della giurisdizione. In altre parole, poiché il testo legislativo è per sua natura lacunoso e necessita sempre di interpretazione ed integrazione [36], il giudice può essere visto come quel decisore sociale che, essendo vicino ai cittadini - ai particuliers – e servendosi degli strumenti dell’ars interpretandi, implementa nel quotidiano la norma generale ed astratta [37] e nell’implementarla dà ad essa un contenuto concreto che contribuisce al continuo e graduale sviluppo del diritto vivente [38].
Per invero, la necessità di continuare ad esprimere l’eterno del processo, di assicurare quel rispetto delle forme che solo può dare alla giurisdizione la legittimazione ( non democratica) di cui necessita, vietano la trasformazione del giudice in soggetto propriamente politico ed evidenziano la necessità che anche i giudici laici o quelli di estrazione governativa posseggano determinati requisiti di competenza e risultino sottoposti a regole tali da garantirne l’indipendenza e l’imparzialità.
5. Le garanzie per una ‘confidence’ dei cittadini nei confronti dei componenti laici del Consiglio di Giustizia Amministrativa.
In base al paradigma tracciato, sulla scorta degli orientamenti sopra segnalati, la disciplina del 1948, come peraltro modificata dal decreto presidenziale del 1978, n. 204, mostrava tutte le sue debolezze, con riferimento alla predisposizione di misure organizzatorie capaci di garantire la posizione ‘terza’ del giudice di designazione regionale.
I laconici enunciati dell’art. 2, comma 3, del vecchio decreto di attuazione, che disponeva l’interdizione dell’esercizio della professione innanzi alle giurisdizione amministrative, e dell’art. 3, comma 2, dello stesso decreto, che fissava la durata in carica in sei anni, senza possibilità di riconferma, ma ammettendo la prorogatio fino all’insediamento del successore, non erano in grado di fornire un assetto di garanzie sufficienti ad impedire prassi incompatibili con i principi di indipendenza ed imparzialità [39].
Per vero, il decreto legislativo n. 373 del 2003 interviene per fornire qualcosa di più della ‘somma’ di garanzie di cui circondare il componente laico: è il complessivo status di questo giudice ad affermarsi per la prima volta [40].
Tutta una serie di correttivi sono stati introdotti, innanzitutto, nella fase ‘genetica’ di ingresso all’interno del Consiglio, nella consapevolezza che ‘i modi nei quali la nomina avviene’ non esauriscono, in quel momento, i loro effetti [41].
I componenti ‘non togati’ vengono individuati all’interno di due categorie di soggetti considerati ‘idonei’, perché “in possesso dei requisiti di cui all’articolo 106, terzo comma, della Costituzione per la nomina a Consigliere di Cassazione (e cioè per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni di esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori) ovvero di cui all’articolo 19, primo comma, numero 2), della legge 27 aprile 1982, n. 186” (piena idoneità all’esercizio delle funzioni di consigliere di Stato sulla base dell’attività e degli studi giuridico-amministrativi compiuti e delle doti attitudinali e di carattere), come ora richiesti dagli art. 3 e 4 del decreto legislativo 2003.
Quanto alla procedura di nomina, l’audizione del Consiglio di presidenza di giustizia amministrativa, introdotto dall’art. 6, comma 3 del nuovo decreto, per l’emanazione del decreto di nomina del Presidente della Repubblica - su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, cui partecipa il Presidente della Regione siciliana- consente un bilanciamento rispetto all’esclusivo peso, finora riconosciuto, alla componente politica.
L’impossibilità di assoggettare la durata dei sei anni ad alcuna conferma - nella cui aspettativa il componente in carica avrebbe potuto subire condizionamenti [42] - o a prorogatio, come disposto all’articolo ora menzionato, ai commi 4 e 5, rappresenta un ulteriore elemento di garanzia dell’indipendenza.
In ispecie la prorogatio, nell’impianto della disciplina precedente, si presentava come lo strumento necessario per far fronte al ritardo nella adozione di un provvedimento volto alla sostituzione del componente scaduto, compromettendo però il profilo dell’indipendenza. Oggi, entrambe le esigenze, quella da ultimo segnalata e l’altra della continuità nello svolgimento dell’azione giurisdizionale, vengono soddisfatte, da un lato, attraverso la cessazione automatica dalla carica alla scadenza del sessennio, dall’altro lato, (almeno in parte) con la nuova previsione di cui all’art. 4, comma 2, che richiede per il collegio giudicante un numero inferiore a quello dei componenti della sezione. Al riguardo, la presenza di un presidente, di due consiglieri di Stato e di due componenti laici deve leggersi in combinato disposto con l’individuazione del presidente preposto alla Sezione giurisdizionale, distinto dal Presidente del Consiglio nel suo complesso, nonché con la separazione dei contingenti dei magistrati assegnati alle due sezioni.
Accogliendo l’orientamento secondo cui nessuna ‘graduazione’ di garanzie, rispetto ai diversi componenti di un stesso organo, può essere ammessa, l’art. 7 del decreto in commento estende, ai componenti ‘non togati’, la disciplina concernente lo stato giuridico ed il regime disciplinare dei magistrati del Consiglio di Stato, nonché la corresponsione “all’inizio del sessennio, (del) trattamento economico corrispondente al trattamento iniziale spettante ai magistrati del Consiglio di Stato, ove più favorevole del trattamento economico originario” [43].
Si delineano, in tal modo, le premesse per fornire un giusta risposta anche sul piano della imparzialità ‘istituzionale’. La dimidiazione del trattamento economico previsto dall’ art. 1 del d. lgs. 1952/ n. 8, poi ratificato dall’art. 1 della legge regionale siciliana 1953/ n. 9., non può assurgere più a causa giustificatrice della disciplina, sopra menzionata, dell’interdizione del giudice laico dall’esercizio della professione limitata al foro amministrativo.
E’ possibile, così, rintracciare un regime di ‘incompatibilità’ adeguato al nuovo status conseguito dal giudice laico: l’interdizione ‘relativa’ deve intendersi sostituita dal decreto in vigore con l’inibizione temporanea, ma assoluta, dall’esercizio della professione.
6. Considerazioni conclusive.
La codificazione di misure organizzative, tali da assicurare la confidence dei cittadini in un potere indipendente ed imparziale del giudice laico, consente di riprende le fila del discorso, lasciato in sospeso, sulla possibilità di individuare tratti di regionalizzazione nel sistema giurisdizionale italiano.
Al riguardo, proprio la stretta relazione tra unicità di giurisdizione e indipendenza del giudice, ha condotto la Corte Costituzionale, in molte occasioni, ad una soluzione ‘radicale’, eliminando l’organo privo di adeguate garanzie di indipendenza, anziché la singola norma lesiva del medesimo principio [44].
Tale rischio, corso, appunto, con l’ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità, sopra richiamata, era ben chiaro al legislatore del 2003, il cui intervento non può non essere considerato carico di una valenza positiva.
All’interno di un sistema di giustizia, riconfermato nella sua unitarietà, il mantenimento del Consiglio di Giustizia amministrativa, sia pur articolato in sezioni proprie del Consiglio di Stato, nella cui composizione si registra una presenza ‘laica’ svela l’intenzione legislativa di offrire alla Regione siciliana il suo ‘giudice naturale’ [45].
Il concetto di giudice naturale appare il più adatto, in questa sede, se inteso nell’accezione ampia fornita dalla Corte Costituzionale [46]. Il magistrato di designazione regionale, con il suo nuovo status, si presenta, come si è voluto dimostrare nel corso dei questo lavoro, il giudice ‘adatto- appropriato’ secondo la natura della controversia, in quanto ‘collegato a’ o espressione di un dato livello di governo [47].
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[1] Cfr. M. NIGRO, Giustizia amministrativa, 1994, Mulino, Bologna, p. 265, nella parte in cui sostiene che “ il Consiglio di giustizia amministrativa costituisce un istituto discordante con la struttura generale della giustizia amministrativa (e probabilmente in contrasto con gli artt. 3, 103, 125 Cost.) e andrebbe eliminato prima possibile o sottoposto a revisione”. Per un esame più recente, cfr. anche S. RAIMONDI, Il modello siciliano della giustizia amministrativa nell’esperienza del foro, in Dir. proc. amm., 2/2001, p. 330 ss.
[2] Cfr. A.M. SANDULLI, Sulla natura del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, in Giust. Civ., 1955, I, p. 1584 ss.; nonché: G.A. MONTELEONE, Un ulteriore ‘ritocco’ al sistema di giustizia amministrativa in Sicilia, in Giur. It., vol. CXXVIII, 1976, Parte I, Sez. I, p. 1233 ss.
[3] Per una nozione di norma d’attuazione, come norma capace di porre i presupposti per l’esplicarsi dell’azione di altre norme, cfr. G. AMATO, Disposizioni di attuazione, Enc. Dir., XIII, Milano, 1964, p. 210 e ss.; G.M. LOMBARDI, Disposizioni d’attuazione, in Nss. D.I., V, 1960, p. 1129 e ss.; M.S.GIANNINI, Delega di norme d’attuazione, in Giur. Cost., 1959, p. 340 ss. Una ricostruzione delle vicende che portarono alla formazione dello Statuto siciliano è rinvenibile in F. TERESI, Regione Sicilia, Enc. Dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 383 ss.
[4] Cfr. G. ROEHRSSEN, Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, in Dig. Disc. Pubbl., III, Torino, 1989, p. 421, dove afferma: “Se queste conclusioni sono esatte, è da dire che il d. l. n. 654 non ha esorbitato dal disposto dell’art. 23 dello Statuto, anzi lo ha applicato in conformità al suo spirito poiché non si è limitato a trasferire in Sicilia una o più sezioni del Consiglio di Stato sic et sempliciter ma le ha adattate ai particolari caratteri della Regione ed ai compiti da svolgere in seno a questa”.
[5] Cfr. l’ordinanza in commento, nella parte in cui si legge: “ Se poi ci si chiede come mai, nel 1948 in sede di norme di attuazione sia stata così radicalmente stravolta la lettera e lo spirito tanto dello statuto siciliano, quanto della conforme proposta della prima commissione paritetica, può farsi riferimento a coloro che, in dottrina, attribuiscono storicamente il tenore del decreto legislativo 654/1948 ad un accordo personale intercorso tra Ferdinando Rocco e l’on.le Luigi Sturzo, del quale, pertanto, sembra non sia rimasta traccia”; nonché: S. RAIMONDI, Il modello siciliano della giustizia amministrativa, cit., p. 335. Si vedano pure S. DE FINA, Consiglio di giustizia amministrativa, Enc. dir., IX, Milano, 1961, p. 228 e S. AGRIFOGLIO, Una questione di modernariato: il Consiglio di giustizia amministrativa della regione siciliana (con uno sguardo alla sezione siciliana della Corte dei Conti), in Riv. Dir. Proc. Amm., 1991, p. 157.
[6] Cfr. S. DE FINA, Consiglio di giustizia amministrativa, cit., p. 230, che parla di organo a base sezionale; ROEHRSSEN, Consiglio di giustizia amministrativa, cit., p. 421.
[7] Cfr. Cass., S.U., 19 ottobre 1983, n. 6127; v. in precedenza, 11 ottobre 1955, n. 2994; 5 gennaio 1956, n. 1907; 17 febbraio 1973, n. 492; 7 novembre 1973, n. 2896; 9 settembre 1972, n. 2717, est. Brancaccio; 4 gennaio 1980, n. 8; Cons. St., A.G., 28 giugno 1956, n. 261; Cons. St., A.G., 9 dicembre 1971, n. 152, sez. I, n. 2824/ 1070; Cons. St., A. P., 28 febbraio 1972, n. 3, nonchè C. Cost., 12 marzo 1975, n. 61.
[8] Cfr. C.Cost. 22 gennaio 1976, n. 25.
[9] Cfr. RAIMONDI, Il modello siciliano della giustizia amministrativa, cit. , p. 343.
[10] Ciò porta a concludere per la inderogabilità o funzionalità della competenza, cfr. S. RAIMONDI, Il modello siciliano della giustizia amministrativa, cit. , p. 343- 345, secondo cui “la inderogabilità della competenza del sistema costituito dal TAR Sicilia e del CGA farebbe venir meno l’anomalia della quale si è detto riguardo agli atti statali in quanto assicurerebbe che i giudizi attribuiti a tale sistema sarebbero esclusivamente quelli riguardanti atti delle autorità statali centrali aventi efficacia soltanto nell’ambito del territorio della Regione siciliana. Una tale previsione sarebbe pienamente conforme allo spirito della norma statutaria quale risulta dai lavori preparatori. I costituenti siciliani volevano che tutte le controversie avessero “ in Sicilia il loro intiero e totale svolgimento”. Si v., pure, A. BARETTONI ARLERI, La giurisdizione amministrativa in Sicilia nel momento attuale, in Riv. dir. proc., 1976, n. 1. p. 186 ss.
[11] Cfr. A.M. SANDULLI, Sulla natura del Consiglio di Giustizia amministrativa, cit., p. 1587, cui si ricollega il lavoro di E. CANNADA- BARTOLI, In tema di giurisdizioni speciali e di Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in Foro amm. , 1957, fasc. 1, pt.2, p. 264- 266.
[12] Cfr. A.M. SANDULLI, Sulla natura del Consiglio di Giustizia amministrativa, cit., p. 1589.
[13] Cfr. S. RAIMONDI, Il modello siciliano della giustizia amministrativa, cit. , p. 343.
[14] Cfr. F.G. PIZZETTI, Il giudice nell’ordinamento complesso, Giuffrè, Milano, 2003, p. 152.
[15] Cfr. PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI- Dipartimento per le riforme istituzionali, Relazione finale del comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali (nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 luglio 1994, ai sensi dell’articolo 29 della legge 23 agosto 1988, n. 400), Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1995, p. 22 e 38.
[16] Cfr. N. SAITTA, Note esplicative al progetto di revisione della Costituzione redatto dal Comitato per le riforme istituzionali, pro manuscripto, Messina, 1995, p.63 ss.
[17] Cfr. G. PITRUZZELLA, Stato federale e giustizia amministrativa, relazione al Convegno di studi su La giustizia amministrativa tra nuovo modello regionale e modello federale (Palermo, 30 e 31 ottobre 2000), nel sito www.giustizia-amministrativa.it.
[18] Cfr. G. PITRUZZELLA, Stato federale e giustizia amministrativa, cit., p.5 ss.; F. SORRENTINO, Giustizia amministrativa e nuovo modello federale, relazione al Convegno di studi su La giustizia amministrativa tra nuovo modello regionale e modello federale ( Palermo, 30 e 31 ottobre 2000), nel sito www.giustizia-amministrativa.it., p. 3 ss.
[19] Cfr. G. SILVESTRI, Funzione giurisdizionale e autonomia regionale, in Riv. it. sc.giur., vol. XV, serie III, Giuffrè, Milano, 1971, p.165 ss.
[20] Cfr. F.G. PIZZETTI, Il giudice nell’ordinamento complesso, cit., p.201, nella parte in cui afferma che “ nel corso dell’approvazione in prima lettura da parte della Camera dei Deputati del disegno di legge di riforma, si sono ‘espunte’ quelle norme, licenziate dalla Commissione Affari Costituzionali, che pure configuravano un’ipotesi non marginale di articolazione in senso regionale della giustizia di pace”.
[21] Cfr. V. CERULLI IRELLI, Costituzione e amministrazione, Giappichelli, Torino, 2002, passim.
[22] Cfr. A. TIGANO, Premesse per uno studio su: pluralismo amministrativo e legittimazione a resistere, in Scritti per Enzo Silvestri, Giuffrè, Milano, 1992, p. 523 ss.
[23] Per tutti cfr. A. POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, I, Padova, 2000 e II, Padova, 2001; adde V. PARISIO, Giudice amministrativo, giurisdizione esclusiva e pubblici servizi: spunti di riflessione su alcune questioni problematiche, in AA. VV., Le nuove frontiere della giurisdizione esclusiva: una riflessione a più voci, Giuffrè, Milano, 2002, p. 79 ss.
[24]Da ultimo cfr. V. PARISIO, Pubblici servizi e funzione di garanzia del giudice amministrativo, Giuffrè, Milano, 2003, p. 5 ss., dove si ricostruisce il ruolo del giudice amministrativo, che “viene a farsi interprete e testimone privilegiato di quel fenomeno del privato che si piega al pubblico e non viceversa, laddove vi siano attività di particolare rilievo economico, il cui svolgimento rientri in una delle prerogative dell’ente pubblico di riferimento, sia esso Stato o ente locale, in quanto connesse allo sviluppo e alla crescita della collettività, poste in essere da soggetti privati, al fine di ottenere una maggiore efficienza nello svolgimento dell’attività stessa” ed ivi ampie citazioni bibliografiche.
[25] Cfr. A. ROMANO TASSONE, Situazioni giuridiche soggettive e decisioni delle autorità indipendenti, in Dir. Amm., n. 3/2002, p. 459 ss.; IDEM, Il controllo del cittadino sulla nuova amministrazione, in Dir. amm., n. 2/2002, p. 269 ss.
[26] Cfr. S. GIACCHETTI, Federalismo e futuro interiore della giustizia amministrativa, relazione al Convegno di studi su La giustizia amministrativa tra nuovo modello regionale e modello federale (Palermo, 30 e 31 ottobre 2000), nel sito www.giustizia-amministrativa.it.
[27] Cfr. P. FERRUA, Indipendenza del giudice e unicità della giurisdizione ( ovvero la fine della giurisdizione penale del comandante di porto), in Giur. Cost., 1970, p. 1514 ss.
[28] Cfr. E. PICOZZA, Il “giusto processo” amministrativo, in Consiglio di Stato, 2000, p. 1062 e L. SANDULLI, Terzietà e indipendenza, in www.giustizia-amministrativa.it.
[29] Cfr. S. PANUNZIO, Il ruolo della giustizia amministrativa in un Stato democratico. Osservazioni sul caso italiano, Politica del diritto, 1-XXX, 2000.
[30] Cfr. A. SANDULLI, Indipendenza e imparzialità del giudice-consulente, in Gior. dir. amm., IPSOA, 12-2003, p.1270 ss., che si sofferma sulla sentenza, 6 maggio 2003, n. 39343/98 Kleyn e altri c. Paesi Bassi, con la quale la Corte Europea dei diritti dell’uomo, dopo le statuizioni contenute nel celebre arret Procola, ha nuovamente affrontato il problema dell’indipendenza e dell’imparzialità del Consiglio di Stato, nell’ipotesi in cui era chiamato a pronunciarsi, in sede giurisdizionale, su una questione in ordine alla quale aveva in precedenza, espresso un parere.
[31] Cfr. M. LUCIANI, Giurisdizione e legittimazione nello Stato Costituzionale di diritto ( ovvero: di un aspetto spesso dimenticato del rapporto fra giurisdizione e democrazia) in Politica del diritto, vol. XXIX, n. 3, 1998, p. 376.
[32] Cfr. S. SATTA, Il mistero del processo, in Riv. dir. proc., 1949, I, p. 281.
[33] Cfr. G. SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 3.
[34] Cfr. A. SCERBO, Tecnica e politica del diritto nella teoria del processo, Rubettino, 2000 nel saggio Salvatore Satta e il ritorno dei processualisti alla filosofia, p. 157 per la polemica, sull’argomento, tra Satta e Carnelutti
[35] Cfr. M. LUCIANI, Giurisdizione e legittimazione, cit., p. 376; nonché: L. MOCCIA, Brevi note sull’indipendenza dei giudici, oggi, in Riv. trim. d. e pr. civ., 2000, 2, p. 539 ss.
[36] Cfr., fra gli altri, V. ITALIA, L’interpretazione sistematica delle regole giuridiche, Milano, Giuffrè, 1997; nonché: E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano Giuffrè, 1955.
[37] G. SILVESTRI, Giustizia e giudici, cit., p.9.
[38] Cfr. W.WILSON , Costitutional Governament in the United States, New York, Columbia University press, 1908, p. 143; R.A. HEINER, Imperfect decisions and the law: on the evolution of legal Precedents and Rules, in 15 Journal of legal Studies, 1986, p. 227, come puntualmente richiamati da PIZZETTI, Il giudice nell’ordinamento complesso, cit.
[39] Cfr. S. MAZZARELLA, Sull’irregolare composizione del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in Giur. It., 1980, fasc. 8-9, pt. 1A, p. 1323- 1328; A. CERRI, Indipendenza, imparzialità, nomina politica: problemi e dubbi irrisolti, in Giur. It., 1976, fasc. 2, pt.1, p. 175- 176; E. CANNADA BARTOLI, Tre giudici per la trinacria, in Foro amm., 1974, fasc. 1, pt. 2, p. 27-28.
[40] Cfr. R. CHIEPPA, A proposito di indipendenza della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato, Giur. Cost., 1967. p.13 ss. e A.M. SANDULLI, Giudici amministrativi, concorsi, indipendenza, in Giur. It., vol. CXXV, 1973, parte III, Sez. I, p. 129 ss, a proposito delle caratteristiche, dagli stessi Autori auspicate, per lo status dei consiglieri di Stato.
[41] Cfr. R. CHIEPPA, A proposito di indipendenza, cit., p. 14; nonché E. CHELI, La difficile “indipendenza” del Consiglio di Stato, in Giur. Cost., 1973, p.1060.
[42] Cfr. G. A. MONTELEONE, Un ulteriore ‘ritocco’ al sistema di giustizia amministrativa in Sicilia, in Giur. It, vol. CXXVIII, 1976, Parte I, Sez. I, p. 1233 ss.
[43] Cfr, E. CHELI, La difficile “indipendenza”, cit., p.1051 ss.; nonché S. RAIMONDI, Il modello siciliano della giustizia amministrativa, cit., p. 341 ss.
[44] Cfr. P. FERRUA, Indipendenza del giudice e unicità della giurisdizione, cit., p. 1517.
[45] Cfr. F.G. PIZZETTI, Il giudice nell’ordinamento complesso, cit., p. 88 ss.; nonché G. ZAGREBELSKI, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992, p. 206 nella parte in cui sostiene che “Il doppio carattere dell’attività giurisdizionale, tra i casi e le regole, dovrebbe indurre a domandarsi se non appaia in generale un’incongruenza la gestione statale di un diritto che non è più solo volontà dello Stato e se non si debbano mettere in cantiere profonde trasformazioni organizzative conseguenti. Trasformazioni che si rendono necessarie per ridurre la distanza che separa la straordinaria profondità e creatività della funzione giudiziaria odierna e l’organizzazione a essa preposta, originariamente pensata per un corpo di pubblici dipendenti il cui carattere maggiormente apprezzato era l’apatia sociale e l’abitudine di nascondere le proprie decisioni dietro un buracratico ‘ita lex’”.
[46] Corte Cost., sent 1977 n. 125 in Giur. Cost. 1977, p. 1087 e Corte Cost., sent 1988 n. 773 in Giur. Cost. 1988, p. 3718.
[47] Cfr. F.G. PIZZETTI, Il giudice nell’ordinamento complesso, cit., p.90.