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ALESSANDRO
BENIGNI
(Magistrato
Militare in Torino)
L’istruttoria
nelle valutazioni delle prove scritte:
è veramente necessaria la lettura collegiale?
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Introduzione
La
sentenza in esame
si occupa del sempre più attuale problema dei vizi inerenti al provvedimento di
valutazione dei compiti scritti redatti dai candidati all'abilitazione
all’esercizio della professione legale [1].
La
ricorrente, in seguito ad un giudizio di non ammissione alle prove orali, ha
adito il Giudice Amministrativo, lamentando la presenza dei vizi di violazione
di legge e di eccesso di potere per difetto di motivazione. Essa, in via
istruttoria, ha, altresì, richiesto la verificazione dei tempi occorrenti per
procedere all’integrale lettura degli elaborati scritti esaminati dalla
Commissione giudicatrice nella seduta, nella quale era stato corretto il proprio
compito e le era stata attribuita la valutazione negativa. In accoglimento di
tale istanza, i giudici amministrativi, con ordinanza presidenziale istruttoria,
hanno disposto l’acquisizione di copia degli elaborati letti e valutati nella
seduta in oggetto ed hanno ordinato al Presidente dell’Ordine degli avvocati
di Milano di dar corso alla verifica, in contraddittorio, del tempo necessario
per la lettura dei medesimi.
Da
tale verifica è emerso come la sola lettura integrale di ciascun compito fosse
avvenuta in 6 minuti e 33 secondi (risultato ottenuto dalla divisione del tempo
totale impiegato per leggere tutti gli elaborati acquisiti per il numero degli
stessi), mentre dal verbale della seduta contestata emergeva che la lettura
“collegiale” di ciascun elaborato aveva occupato i Commissari per soli 2
minuti e 30 secondi, quindi per un periodo di tempo circa tre volte inferiore.
Sulla
base di tali presupposti il Tribunale Amministrativo ha riconosciuto la
fondatezza del ricorso, ritenendo sussistente il vizio di legittimità
dell’eccesso di potere “per difetto di
adeguata istruttoria, essendo manifesto che quest’ultima [era] stata
oggettivamente insufficiente rispetto alla valutazione assegnata dalla legge
alla Commissione”. Tale vizio assorbiva, peraltro, quello, originariamente
denunciato dalla ricorrente, di eccesso
di potere per difetto di motivazione, “essendo
altrettanto evidente che alcuna motivazione poteva essere rettamente resa in
difetto degli indispensabili elementi di giudizio”. Infine, i giudici
hanno dichiarato l'obbligo della Commissione esaminatrice di ripetere le
operazioni di valutazione, rinnovando ora per allora il già espresso giudizio.
Tale
decisione consente di esaminare la figura sintomatica dell’inadeguatezza
istruttoria e di verificare i poteri che la Commissione esaminatrice può
esercitare all’interno della fase procedurale di correzione dei compiti.
Le
principali figure sintomatiche di eccesso di potere
L’eccesso
di potere[2],
com’è noto, costituisce uno dei tre tipici vizi dell’atto amministrativo
insieme all’incompetenza e alla violazione di legge (art. 3, legge 6 dicembre
1971, n. 1034) e viene espressamente indicato nella L. 31 marzo 1889, n. 5892,
istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, senza che peraltro il
legislatore ne fornisse una definizione. Del resto, un addentellato normativo
per l’identificazione del senso della celebre locuzione era dato dalla L. 31
marzo 1877, n. 371, che per l’occasione adottava l’accezione letterale ed
alquanto ristretta di “straripamento di potere”, ricomprendendo in essa
tutti gli episodi in cui la Pubblica Amministrazione avesse esercitato
l’azione amministrativa al di fuori delle proprie prerogative.
Peraltro,
la giurisprudenza del Consiglio di Stato non accolse tale impostazione, che
avrebbe consentito un sindacato marginale sull’attività amministrativa [3],
ma sin dalle prime decisioni utilizzò lo strumento dell’eccesso di potere per
avviare il sindacato sull’attività discrezionale della P.A. [4]
Il
passaggio dall’idea di un eccesso di potere come “straripamento” a quella
di sviamento di potere (ovvero esercizio scorretto della discrezionalità) è
segnato dal riconoscimento, da parte degli operatori del diritto, che
l’attribuzione di ogni singolo potere alla Pubblica Amministrazione è
funzionale al perseguimento di interessi pubblici particolari riconnessi a
codesti poteri e non al fine di soddisfare un interesse pubblico genericamente
individuato. Tale assunto condusse la giurisprudenza a considerare l’eccesso
di potere quale vizio volto a punire la P.A. che avesse esercitato un potere per
un fine diverso da quello tipico ovvero che per conseguire un determinato fine
avesse utilizzato un potere diverso da quello tipizzato per quello scopo.
Il
vizio di eccesso di potere, attraverso l’elaborazione della dottrina, è stato
in un primo momento inquadrato quale vizio di un elemento costitutivo
dell’atto amministrativo, che poteva essere la causa, la volontà, i motivi,
seguendo l’impostazione negoziale del provvedimento amministrativo
[5]
. Tale impostazione risulta ormai superata dalla giurisprudenza ed oggi si tende
a considerare l’eccesso di potere quale vizio della funzione esercitata dalla
P.A. In tal modo la verifica della sussistenza del medesimo vizio non è
calibrata (o non lo è solo) sull’atto ma sulle modalità di esercizio della
potestà amministrativa.
Si
deve aggiungere che la difficoltà, in concreto, di identificare l’interesse
perseguito dalla P.A. nell’esercizio dell’azione amministrativa, ha indotto
la giurisprudenza ad individuare una serie di figure sintomatiche di eccesso di
potere, che configurano vizi di ragionevolezza, logicità e coerenza della
funzione [6].
Esse comportano l’illegittimità dell’atto amministrativo, a prescindere dal
fatto che sia dimostrato, in concreto, lo sviamento del potere esercitato dalla
P.A.
Quali
figure sintomatiche sono state individuate, tra le altre, la contraddittorietà
intraprocedimentale e provvedimentale (quando le premesse del procedimento o i
diversi provvedimenti non siano coerenti con la conclusione dello stesso o tra
di loro). L’illogicità manifesta (provvedimento illogico adottato dalla P.A.;
in tema di concorsi, la giurisprudenza sovente annulla la determinazione dei
criteri di valutazione sulla base di tale vizio)[7],
il travisamento di fatti (presenza di un fatto discordante con la realtà), la
disparità di trattamento (emissione di provvedimenti diversi in relazione a
situazioni identiche), la violazione di circolari (provvedimenti difformi dalle
circolari, senza la presenza di una motivazione in grado di giustificare tale
difformità) e, infine, la carenza di adeguata istruttoria[8]
(accertamento completo dei presupposti del provvedimento)[9].
La
eventuale inadeguatezza dell’attività istruttoria
Facendo
leva sul vizio di eccesso di potere per inadeguata istruttoria, il T.A.R.
Lombardia, con la sentenza in commento, ha annullato il provvedimento
amministrativo di non ammissione alle prove orali di una praticante all’esame
di avvocato: due minuti e mezzo non sarebbero sufficienti per un ponderato
accertamento tecnico-valutativo sugli elaborati della candidata.
Su
tale decisione sembra che non possa essere mossa alcuna censura. Nel verbale di
correzione degli elaborati era infatti indicato che la lettura degli stessi si
era svolta collegialmente e, pertanto,
bisogna ritenere, fino a querela di falso, che tale modalità sia stata
osservata dalla commissione esaminatrice. Il Tribunale, pertanto, sulla scorta
della verificazione, ha correttamente osservato che i tempi registrati dalla
stessa commissione (circa due minuti e mezzo) non erano sufficienti per
consentire l’espletamento di una lettura collegiale.
In
particolare si osservi che, riguardo a tali tempi, il Consiglio di Stato ritiene
che sette minuti per la correzione di ciascun elaborato siano adeguati ed
esclude, in tal caso, il vizio di eccesso di potere [10].
Non esclude tale vizio la revisione protrattasi per solo un minuto o un minuto e
mezzo [11].
Peraltro, occorre considerare che nelle massime del Consiglio di Stato si ripete
che la brevità del tempo impiegato, da sola, non è indice di eccesso di
potere, dovendo, normalmente, essere accompagnata da un ulteriore elemento che
dimostri il dedotto vizio[12].
La
giurisprudenza dei Tribunali Amministrativi Regionali si muove sullo stesso
piano di quella del Consiglio di Stato, negando che l’insufficiente od
incompiuta valutazione dei compiti, e quindi il vizio di eccesso di potere,
possa dedursi dalla sola brevità del tempo impiegato nella correzione degli
elaborati, a meno che l’esiguità del tempo stesso sia tale da rendere
materialmente impossibile l’espletamento delle operazioni prescritte[13]
(sulla base di criteri di comune esperienza [14]).
Del pari irrilevante è la rapidità della correzione, qualora risulti che i
compiti siano stati presi in esame e valutati [15]
e non risultino manchevolezze nelle operazioni relative alle
stesse valutazioni, che dimostrino la negativa influenza, sul
giudizio espresso nei confronti dei candidati, di un affrettato ed insufficiente
esame da parte dell’organo esaminatore [16].
Integrano però il vizio di eccesso di potere i casi limite in cui siano stati
impiegati un minuto o un minuto e mezzo a candidato [17]
o anche, secondo talune decisioni, meno di tre minuti[18]
o ancora il tempo medio di correzione sia talmente ridotto da risultare
incongruo sempre alla stregua dei principi di comune esperienza [19]
ovvero sia ictu oculi tale da rendere
naturalmente impossibile l’adeguato assolvimento dei prescritti adempimenti [20].
Tali
sentenze, dunque, dichiarano l’irrilevanza della brevità delle operazioni,
facendo poi salvi alcuni casi limite. Altro orientamento, invece, afferma la
rilevanza dell’inadeguatezza del tempo occorso per la correzione dei compiti.
In particolare, tali decisioni esprimono l’insufficienza dei tre minuti
dedicati dalla commissione esaminatrice a ciascun elaborato, statuendo
l’illegittimità del giudizio di non ammissione [21].
Quindi,
qualora sia verbalizzato che la lettura è avvenuta collegialmente, il Giudice
Amministrativo non può far altro che verificare la rispondenza delle risultanze
fattuali a tali dichiarazioni. Tuttavia, occorre fare un passo indietro e
verificare, alla luce dei principi e delle norme, se sia necessaria una
ponderata e meticolosa istruttoria, completa sotto ogni profilo, ovvero se
sia possibile leggere individualmente i compiti ed in una fase successiva
procedere alla discussione e valutazione [22].
L’istruttoria
nel procedimento di correzione degli elaborati dell’esame avvocati: lettura
collegiale o anche lettura individuale?
Sul
tema l’art. 23 del R.D. 37/1934 [23],
detta una procedura alquanto elastica prevedendo che la commissione giudicatrice
degli esami di avvocato debba compiere la revisione dei lavori scritti “nel più
breve tempo possibile”. Si tratta, dunque, di una norma che lascia, di per sÚ,
ampio spazio all’organo valutatore per determinare le modalità di correzione
degli elaborati. Si tenga, inoltre, conto che, sempre a termini di tale norma,
il lavoro di correzione non può protrarsi oltre i sei mesi dalla conclusione
delle prove. Un’eventuale proroga di detto termine non può essere disposta
che una sola volta, per non più di novanta giorni e deve essere giustificata da
motivi eccezionali e debitamente accertati. Tali serranti condizioni, oltre
alla previsione espressa di una regola di celerità nella conclusione della
correzione, inducono a ritenere che l’interesse prevalente in tale tipo di
procedimento amministrativo sia la rapidità dell’azione della P.A., che
assume rilevanza predominante al fine di consentire ai candidati di conoscere
entro ragionevoli limiti di tempo l’esito delle proprie prove e quindi potersi
programmare per la prova orale oppure approfondire gli istituti di diritto
civile e diritto penale presso uno dei tanti corsi che svolgono la meritoria
attività di supporto alla preparazione [24].
Pertanto, alla luce di tali considerazioni emerge un concreto interesse della
medesima P.A. a non aggravare il procedimento, ovvero ad utilizzare le forme e i
modi più efficaci ed efficienti per raggiungere in tempi quanto più rapidi il
completamento della correzione. E ciò potrebbe paradossalmente comportare che
la lettura collegiale non solo sia inopportuna, ma possa anche essere
considerata illegittima, qualora comporti la necessità della proroga [25].
Il
tenore letterale della disposizione citata lascia spazio a due possibili
interpretazioni: la prima, più garantista riserva tutte le operazioni di
lettura, correzione, discussione, valutazione e assegnazione del punteggio al
collegio; la seconda, più efficientista, riserva all’intero collegio le
ultime fasi della revisione dei compiti (discussione, valutazione e assegnazione
del punteggio), mentre la lettura degli stessi dovrebbe essere compiuta da parte
dei singoli commissari individualmente. Questa seconda alternativa consentirebbe
certamente tempi complessivi di correzione più ristretti.
Del
resto, la ratio che emerge dalla norma
in oggetto pone in primo piano un’esigenza di rapidità della conclusione del
procedimento di revisione dei compiti: questo, infatti, deve essere completato
nel minor tempo possibile e, comunque, non in più di sei mesi. Un’eventuale
proroga può essere concessa, ma in casi del tutto eccezionali. Dunque, è
predominante un interesse alla celerità della conclusione delle operazioni. A
fronte, poi, di una disposizione duttile, per quanto riguarda la procedura da
seguire, sembra di poter dire che nulla vieta di adottare una procedura che
preveda una prima lettura individuale dei compiti da parte di ciascun
commissario, per conto proprio, e solo in un secondo momento far partecipare
l’intero collegio alla discussione e deliberazione del punteggio.
Si
osservi, peraltro, che la collegialità è funzionale alla miglior ponderazione
sulla deliberazione da adottarsi, dovuta all’apporto di specifiche
professionalità: quella dogmatico-culturale del docente universitario, quella
pratico-applicativa dell’avvocato ed, infine, la sintesi di ambedue
impersonata dal magistrato, il quale garantirebbe altresì l’imparzialità
della valutazione propria di un organo dello Stato. L’apporto positivo di tali
professionalità non risulta certo compromesso dall’esclusione della lettura
collegiale a vantaggio di una prima fase squisitamente individuale del
procedimento di correzione, considerato che comunque la fase deliberativa
permarrebbe di competenza collegiale.
Dal
punto di vista del diritto positivo, inoltre, non pare che la lettura collegiale
sia connessa in termini di necessità funzionale alla deliberazione collegiale.
Costituisce, del resto, prassi ricorrente degli organi collegiali delle Società
(si pensi ai consigli d’amministrazione) la relazione introduttiva di un
componente che ha dovuto studiare preventivamente la questione e poi la illustra
all’organo collegiale, il quale prenderà le conseguenti determinazioni.
Tale
impostazione sembra trovare indiretto riscontro, nella giurisprudenza
amministrativa che si è occupata del problema. Infatti, le stesse sentenze dei
giudici di primo grado, che pure accolgono i ricorsi dei candidati giudicati non
idonei, non fanno mai riferimento alla necessità di una lettura collegiale, ma
altresì a tempi e modalità di espletamento della procedura [26].
In tali casi, come in quello in esame, il giudice amministrativo si limita a
prendere atto delle verbalizzazioni eseguite ed a verificare se le operazioni
attestate possano essere state effettivamente eseguite dalla commissione.
Si
consideri, infine, il dato storico: la prassi invalsa della lettura collegiale
e, quindi, della massima garanzia per la ponderazione della decisione, era
fattibile in un contesto storico e culturale, quale quello risalente all’epoca
dell’emanazione della legge sull’ordinamento della professione di avvocato e
procuratore (il 1934), dato lo scarso numero dei candidati iscritti all’esame.
In mancanza, pertanto, di una riforma legislativa volta alla modifica
dell’accesso all’avvocatura o, quantomeno, dell’art. 23 cit.,
l’interesse prevalente evincibile dalle norme è quello di rapidità, cui non
può essere opposta deroga se non per motivate esigenze eccezionali, debitamente
accertate. Con ciò non si vuole uno scadimento delle garanzie del candidato, il
quale sarà assicurato sia dalla discussione e deliberazione collegialmente
effettuata che da una congrua motivazione del giudizio della commissione,
imposta dell’art. 3, L. 241/1990
[27],
la quale consenta di ricostruire l’iter
logico-giuridico del processo decisionale.
Inoltre,
l’imposizione di una procedura appesantita della lettura collegiale potrebbe
indurre la tentazione di cedere, sempre più forte man mano che si
avvicini il termine di scadenza, a dare un’accelerazione sempre più intensa
al lavoro collegale, al punto di eliminare quelle garanzie che sarebbero,
invece, state rispettate ove si fosse proceduto sin dall’inizio ad una lettura
individuale dei compiti con successiva delibera collegiale.
Infine,
non pare che una tale interpretazione si ponga in radicale contrasto con il
principio di completezza dell’istruttoria [28].
Segue:
la c.d. discrezionalità procedimentale
Come
è noto, l’istruttoria è la fase procedimentale diretta all’acquisizione
dei dati e delle conoscenze necessarie per poter adottare il provvedimento e
costituisce lo strumento attraverso cui l’amministrazione adempie
all’obbligo generale di adeguati accertamenti dei presupposti giustificativi
del provvedimento. Non esiste una disciplina generale dell’istruttoria [29],
ma ciascun procedimento ne ha una disciplina, regolata in modo più o meno
minuzioso.
Fermo
restando l’obbligo di compiere le attività istruttorie previste dalla legge,
governa l’istruttoria il principio di libertà nell’acquisizione degli
elementi di fatto. Così impone l’art. 6, lett b),
legge 241/90 che conferisce al responsabile del procedimento il potere di
“accertare d’ufficio i fatti” e di disporre il compimento degli atti
“all’uopo necessari”. Nondimeno quella parte dell’istruttoria non retta
da norme (non obbligatoria) incontra il limite del principio di non aggravamento
[30],
il quale non si pone in contrasto con il principio inquisitoria sopra detto, ma
lo sottopone al limite dettato dall’economicità dell’azione amministrativa.
Per
il caso di specie, la fase istruttoria è espressamente disciplinata dall’art.
23 del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, il quale eleva a principio preminente la
rapidità del procedimento. Tale disposizione sembrerebbe giustificare
un’eventuale scelta discrezionale della Commissione di procedere alla lettura
individuale degli elaborati.
Tale
conclusione trova indiretta conferma nel principio di buon andamento della
pubblica amministrazione.
╚
noto che, ai sensi dell’art. 97 Cost., deve essere assicurata, oltre che
l’imparzialità, il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Tale
principio è stato attuato dall’art. 1 della legge 241/90, secondo cui
l’azione amministrativa deve perseguire i fini determinati dalla legge ed è
retta, tra l’altro, dal criterio dell’efficacia,
la quale deve essere perseguita con la massima celerità.
Alla
luce di tali principi la P.A. agisce in base ai criteri della discrezionalità
anche in relazione alla considerazione dei fatti e degli interessi nel
procedimento (ed in particolare nell’istruttoria), purchè sia raggiunto il
fine pubblico. Il che comporta il potere di scelta discrezionale, in capo alla
stessa P.A., in ordine alla procedura più opportuna da utilizzare per
conseguire tale scopo.
Tale
discrezionalità, che possiamo definire come “discrezionalità procedimentale”
consente alla P.A. di gestire il procedimento, compresa l’istruttoria, a
seconda delle esigenze da valorizzare, secondo quanto stabilito dalla legge,
nell’ambito della funzione amministrativa esercitata [31].
La
dottrina [32]
ha già riconosciuto, infatti, che le valutazioni necessarie per giungere alla
decisione contenuta nel provvedimento possono essere acquisite discrezionalmente
secondo le modalità ritenute più opportune dalla Amministrazione interessata.
Sbocco
naturale di tale discrezionalità “non provvedimentale”, o con un termine
che mi sembra più pregnante, “procedimentale”, è l’attribuzione alla
stessa amministrazione interessata della delimitazione della doverosità della
sua condotta nell’istruttoria. Ciò al fine di garantire una lettura della
doverosità procedimentale orientata alla ricerca di un equilibrato dosaggio di
efficienza e garanzia [33].
Se
le considerazioni che ho sin qui esposto sono vere, se ne deve
desumere che l’Amministrazione, nell’ambito dei limiti espressamente
previsti dalla legge deve essere libera di determinare l’intensità degli
accertamenti da espletare per giungere alla scelta finale.
Nella
fattispecie in esame, in particolare, la norma procedurale (art. 23, cit.)
consente espressamente all’autorità amministrativa di decidere
discrezionalmente l’ampiezza e completezza dell’istruttoria, al fine di
perseguire l’interesse pubblico, ad essa normativamente imposto, della
maggiore celerità possibile del procedimento.
Ciò
comporta, come è stato autorevolmente sostenuto, una “restituzione
all’amministrazione di una piena libertà di determinazione della ampiezza e
della intensità degli “accertamenti” dovuti (“Anpassung der
Ermittlungsintesitõt”)”[34],
le quali giustificano l’adozione di una procedura più snella, celere ed
efficace e ugualmente garantita nella misura in cui sia adottata una motivazione
corretta ed adeguata[35]
.
Conclusioni
Mi
rendo conto che quella proposta nel presente scritto appare senza dubbio una
proposta innovativa, ma nel contesto legislativo attuale, in assenza della
necessaria riforma della legge professionale, che dovrebbe ricomprendere al suo
interno una modifica del regime di accesso alla professione, sembra essere
l’unica in grado di rispettare il disposto legislativo senza implicare i
fenomeni, riscontrati ogni anno, di “aggiustamento all’italiana”, che
trovano la puntuale e necessaria censura da parte del giudice di legittimità.
A
conferma di ciò si rileva che i quotidiani hanno dato ampio risalto ad una
sentenza analoga alla presente, riscontrando altresì che lo stesso TAR
Lombardia avrebbe successivamente inviato gli atti alla Corte Costituzionale per
valutare eventuali disparità con le regole di altri esami pubblici [36].
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“[1]
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[5]
[6]
Cons.
Stato, Sez. V, 23 giugno 1984, n. 491, in Cons.
Stato, 1984, I, 814, ha ritenuto illogica l’attribuzione di un
punteggio, come titolo di merito, alla residenza nel Comune in un concorso
per psicologo comunale. Cons. Stato, Sez. V, 28 dicembre 1989, n. 884, in Cons.
Stato, 1989, I, 557, non ha ritenuto, invece, illogico il criterio che
accordi la preferenza ai candidati più anziani
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[9]
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