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L'atto
di disdetta di un rapporto di concessione di pubblico servizio è un atto
paritetico e non provvedimentale in quanto la struttura, la funzione e gli
effetti della clausola di disdetta afferente ad una convenzione costitutiva di
una concessione di servizi (volta ad evitare la rinnovazione tacita del
rapporto) corrispondono, senza apprezzabili differenze morfologiche, alla
fisionomia tipica delle clausole dei comuni contratti di durata, non
presentando, quindi, l'atto di disdetta, alcun tratto tipico dei provvedimenti
amministrativi.
Infatti,
la comunicazione della volontà di non proseguire il rapporto non è affatto
caratterizzata dalla valutazione necessaria dell'interesse pubblico, ben potendo
essere determinata, in concreto, da altre ragioni, non rappresentando, quindi,
l'interesse pubblico il presupposto della disdetta, ma, semplicemente, uno dei
motivi, della determinazione assunta dal concedente. La disdetta è riferita
alla normale scadenza del rapporto, allo scopo di impedire la rinnovazione
tacita del servizio svolto dal precedente gestore, inserendosi nel fisiologico
sviluppo paritetico del rapporto, indipendentemente dalle ragioni addotte
dall'amministrazione (1)
(1) La disdetta della concessione di pubblico servizio: da atto provvedimentale ad atto negoziale. la perdurante attualità di un vetusto modello di gestione
di Massimiliano Alesio
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Nonostante che la concessione di pubblico servizio, quale modello di gestione dei servizi pubblici locali, sia destinata tendenzialmente a scomparire, la dottrina, la giurisprudenza e la cronaca degli ultimi giorni non smettono di occuparsi dell’istituto.
Infatti, com’è noto, il modulo organizzatorio della concessione non trova più spazio alcuno nella recente legislazione e previsione di legislazione degli ultimi anni. Il D. Lgs. 23/05/2000, n. 164, emanato in attuazione della Direttiva n. 98/30/CE (Recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell’articolo 41 della legge 17/05/1999, n. 144), disciplinante il settore gas, all’articolo 14 comma I [2] prevede, quale unico modello gestionale, l’affidamento con gara. Anche il discusso e tormentato disegno di legge sui servizi pubblici locali (AC 7.042, AS 4.014) non contempla più la concessione, ma, recependo la normativa comunitaria in materia, prevede pur esso l’affidamento con gara, quale unico modello generale di gestione [3].
A fronte di tale odierna, e sempre più
prossima, “estinzione”, la concessione di pubblico servizio rivela una sua,
non tanto attesa attualità e vivacità, almeno per quanto riguarda le diverse
vicende legate al suo “svolgersi”.
In un certo senso, l’anno 2000 ha visto
diverse ed importanti pronunce sull’istituto.
La sentenza T.A.R. Lombardia, sez.
Brescia, n. 8 del 14/01/2000 si è occupata incidentalmente dell’istituto
della disdetta, nell’ambito della concessione di pubblico servizio, e delle
problematiche del riscatto anticipato e del conferimento del servizio a società
miste [4].
Il Consiglio di Stato, sez. V, n.
3.775/2000, si è occupato della revoca, stabilendo che la
Pubblica Amministrazione può revocare anzitempo una propria concessione senza
dover indennizzare il concessionario, se una tale revoca anticipata era già
stata prevista dalle parti come un evento possibile
[5].
La sentenza (Consiglio di Stato, sez. VI,
n. 4.656 del 01/09/2000) si è occupata dei provvedimenti di concessione di beni
demaniali e di servizi, per la realizzazione e la gestione di un terminal per il
cemento nel Ponte Idroscalo del porto di Genova [6].
Il Consiglio di Stato, sez. IV, n. 5.235
del 03/10/2000, si è recentemente occupato della pronuncia di decadenza,
statuendo che la decadenza di un’impresa dalla concessione di
autolinee può essere dichiarata solo se ricorrano i presupposti richiesti dalla
legge; pertanto, è illegittimo, per sviamento della causa, il provvedimento col
quale l’Amministrazione dichiara tale decadenza sulla base di una richiesta
avanzata dalle organizzazioni sindacali.
Ulteriore conferma dell’attualità
della concessione viene data dalla recentissima gara pubblica per
l’assegnazione delle frequenze per i cellulari di nuova generazione (UMTS), la
quale si atteggia, sostanzialmente come una gara per il conferimento di una
concessione di pubblico servizio, avente ad oggetto proprio l’utilizzo delle
frequenze medesime [7].
Con la sentenza in commento, il Consiglio
di Stato opera, consapevolmente, un rilevante revirement [8],
rispetto al precedente e consolidato orientamento, in tema di natura giuridica
dell’atto di disdetta. Fino ad ora, come vedremo, la disdetta, nell’ambito
della concessione di pubblico servizio, veniva qualificata come atto
autoritativo.
Tale orientamento appariva solido e
trovava chiara enunciazione in diverse ed importanti sentenze.
Il Consiglio di Stato (sez. V, n. 996 del
16/09/1994) affermava chiaramente che l’atto
con il quale l’Amministrazione concedente si avvale della clausola di disdetta
pattiziamente determinata, impedendo conseguentemente la tacita rinnovazione
della concessione, ha natura provvedimentale, in quanto espressione della
titolarità di un pubblico potere.
L’orientamento veniva ribadito, dalla
medesima sezione, con la sentenza n. 1.103 del 03/10/1997, con la quale, sulla
base di nuovi profili, quale quello della massimizzazione dell’interesse
pubblico, veniva confermata la natura provvedimentale: Poiché
la Pubblica Amministrazione concedente è tenuta ad utilizzare i beni pubblici
perseguendo la massimizzazione dell’interesse pubblico, essa compie una scelta
di tipo autoritativo non solo quando dà un proprio bene in concessione, ma
anche quando valuta che il bene stesso non possa essere più usato dal
concessionario e, per l’effetto, faccia venir meno il rapporto concessorio.
Pertanto, similmente alla revoca o alla pronuncia di decadenza, ha natura di
provvedimento autoritativo, anche la disdetta della concessione che, sulla base
dell’accordo accessivo a quest’ultima, la P.A. comunica al concessionario
per impedire la rinnovazione automatica del rapporto, quando essa si basi
sull’ormai prossima scadenza di esso e sull’inopportunità di rinnovarlo.
Ad ulteriore conferma della tesi “autoritativo-provvedimentale”,
giungeva, sempre da parte della medesima sezione, dopo pochi mesi, la sentenza
n. 1.580 del 18/12/1997, anche se più propriamente in tema di concessione di
beni pubblici : Similmente
alla revoca o alla pronuncia di decadenza, ha natura di atto amministrativo
autoritativo anche la disdetta che, sulla base dell’accordo accessivo alla
concessione di un bene pubblico, l’Amministrazione comunica al concessionario
per impedire la rinnovazione automatica del rapporto, quando essa si basi
sull’ormai prossima scadenza del rapporto e sull’inopportunità della
rinnovazione.
La tesi dell’atto autoritativo si
fonda, quindi, su diversi profili. Il primo, rappresentato dalla visione della
disdetta come espressione della titolarità di un pubblico potere, invero, non
si palesa decisivo, in quanto, come anche fa rilevare la sentenza in commento,
non sempre il pubblico potere, per il suo concreto dispiegarsi, necessita dello
strumento dell’atto amministrativo, in quanto l’Amministrazione
può eseguire i compiti istituzionali affidatili dall’ordinamento, tanto
mediante l’uso di strumenti autoritativi, quanto attraverso l’applicazione
di istituti di diritto comune. Il secondo profilo di fondamento della tesi
“autoritativa” si presenta, invece, più convincente.
Si sostiene che la Pubblica
Amministrazione, quando dispone circa l’utilizzo e la gestione di beni e
servizi pubblici, deve ispirare il suo agire alla logica della massimizzazione
dell’interesse pubblico, la quale, a ben vedere, non può non imporre una
completa e congra valutazione dell’assetto di interessi, pubblici e privati,
connessi alla fattispecie. Orbene, tale pregnante valutazione, a sua volta, non
implica altro che un pieno, attento e motivato esercizio della discrezionalità
amministrativa e tecnica, il quale trova naturale e legittima sede di
esplicazione nelle forme del procedimento e del provvedimento amministrativo, i
quali, con le loro tipiche formalità e garanzie, assicurano un corretto uso
della discrezionalità medesima. Allora, è facile osservare che l’esercizio
di tali delicate funzioni trova il suo naturale “binario” nell’alveo delle
classiche forme dell’agire amministrativo, le quali sono state rafforzate, in
termini di garanzie e trasparenza, dalle previsioni normative contenute nella
fondamentale legge 241/1990 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi. Di tale
discorso, ce ne occuperemo anche dopo; per ora, è sufficiente evidenziare che
la tesi “autoritativa” sembrava aver individuato un importante profilo di
fondamento nella opportuna riconduzione di determinati atti nell’alveo dei
classici moduli di azione amministrativa.
La sezione V del Consiglio di Stato,
nella sentenza in commento, si dichiara consapevole di aver precedentemente
sostenuto la natura provvedimentale degli atti di disdetta. Partendo da tale
ammissione, la sezione critica, sotto ben quattro profili, come visto, il
precedente orientamento. Il primo di questi profili attiene alla distinzione
della disdetta dagli istituti della revoca e della decadenza, cui hanno fatto
riferimento le precedenti massime. Invero, occorre evidenziare che
l’orientamento precedente parlava di “similitudine” della disdetta nei
riguardi delle altre due figure, limitatamente all’aspetto della medesima
natura provvedimentale. La sentenza in commento, giustamente, fa rilevare la
diversa funzione e struttura degli istituti, per cui converrà affrontarli, sia
pur brevemente.
La pronuncia di decadenza del
concessionario, di beni o di servizi pubblici, presenta due precisi presupposti
: - il concessionario deve aver commesso una grave violazione degli obblighi
contrattuali, consacrati nella convenzione accessiva; - la violazione di tali
obblighi deve essere imputabile al concessionario, sulla base di un chiaro nesso
causale. La declaratoria di decadenza, secondo la più attenta dottrina
civilistica [9],
non ha carattere sanzionatorio, ma è uno strumento di distribuzione tra le
parti dei rischi e dei costi contrattuali. Se la Pubblica Amministrazione
concedente ha subito danni a causa dell’inadempimento, ha diritto al relativo
risarcimento. Tuttavia, l’Amministrazione deve pagare al concessionario le
prestazioni regolarmente eseguite. Dal punto di vista procedurale, la decadenza
deve essere preceduta dalla contestazione degli addebiti. La giurisprudenza ha
più volte confermato che la declaratoria di decadenza, in presenza dei
presupposti, non è un atto vincolato, ma un atto di discrezionalità tecnica,
con conseguente e stringente onere motivazionale, sussistente sia nel caso di
pronuncia che di non pronuncia. Infatti, come giustamente sostenuto [10],
gli utenti del servizio pubblico, se danneggiati, possono agire sia nei riguardi
della P.A. rimasta inerte, con un ricorso diretto a far dichiarare la
sussistenza di un obbligo, in capo alla medesima P.A., di adottare una
decisione, sia nei riguardi dell’Amministrazione che abbia formalmente
deliberato di non disporre la decadenza, attraverso l’impugnazione di tale
decisione.
La revoca costituisce un provvedimento di secondo grado, con il quale la Pubblica Amministrazione concedente ritira, con effetto non retroattivo, l’atto di conferimento della concessione, per sopravvenute ragioni che rendono il rapporto concessorio non più conforme al pubblico interesse. La revoca, al pari della decadenza, caducando l’atto di conferimento, fa venir meno il contratto, che si intende risolto.
La revoca si distingue dalla decadenza, in quanto implica l’obbligo della P.A. di corrispondere un indennizzo al concessionario; viceversa, la decadenza comporta l’obbligo, in capo al concessionario, di risarcire all’Amministrazione, i danni eventualmente subiti, in conseguenza dell’inadempimento. È evidente che la revoca non presuppone una grave violazione degli obblighi contrattuali. Per ciò che concerne l’indennizzo, occorre tener conto che esso non deve corrispondere a tutto il mancato guadagno del concessionario, ma si basa su vari elementi, quali : - la complessità della struttura organizzativa del concessionario; - la possibilità, anche temporale, di poter destinare tale struttura ad altre attività; - il preavviso della P.A.
La sentenza in commento, dunque, perviene
ad un ripensamento della natura della disdetta e, sulla base di quattro distinti
profili, critica il precedente orientamento. Ora, al di là del problema di
pervenire ad una valutazione complessiva circa la fondatezza del revirement,
appare opportuno e, fors’anche preliminare, mettere in evidenza, proponendoli
pure come spunti di riflessione futura, alcune perplessità, cui danno origine
talune asserzioni contenute nella sentenza medesima.
La sentenza in esame, come pure quelle precedenti, pone in risalto il fatto che la disdetta è diretta ad impedire la rinnovazione tacita della concessione. L’affermazione non è sbagliata, ovviamente, ma, non è invero esaustiva, in quanto prende in considerazione solo l’istituto della rinnovazione tacita, ma non quello del rinnovo, concesso a seguito di apposita richiesta. Infatti, l’art. 44 della L. 724/1994 [11] stabilisce, in primo luogo, che è vietata la rinnovazione tacita dei contratti, con ciò facendo venir meno l’importanza della disdetta quale istituto impeditivo della rinnovazione tacita. Successivamente, sempre con lo stesso articolo, viene disciplinato l’istituto del rinnovo espresso, il quale può essere concesso dalla Pubblica Amministrazione solo dopo aver attentamente valutato e dimostrato la sussistenza di ragioni di pubblico interesse. Il rinnovo deve essere richiesto entro tre mesi dalla scadenza della concessione. L’articolo 44, dunque, delinea la sussistenza di un interesse legittimo in favore del concessionario ad ottenere il rinnovo della concessione [12], nei cui riguardi la P.A., ricevuta una espressa istanza in tal senso, deve necessariamente e motivatamente esprimersi, ponendo in essere un procedimento amministrativo, che ha avuto origine con la richiesta del concessionario medesimo. Orbene, tale richiesta obbliga l’Amministrazione a valutare l’assetto degli interessi in gioco, e ad esprimersi motivatamente al riguardo. Se tutto ciò è pacifico, sembra, allora, evidente che la configurazione della disdetta come atto negoziale presenta delle debolezze.
Infatti, come è possibile giustificare la configurabilità della disdetta in tali termini, dal momento che il rinnovo tacito è vietato, e dal momento che un’eventuale richiesta di rinnovo (espresso) del concedente, dando origine ad uno specifico procedimento, impone alla P.A. di esprimersi con un provvedimento motivato ? In altri termini, com’è possibile sostenere, senza timore di cadere in alcuna contraddizione, che la disdetta della P.A., ora non più necessaria ai fine dell’impedimento del rinnovo tacito, è un atto negoziale, mentre se il privato-concessionario presenta una semplice istanza di rinnovo, ha origine un procedimento amministrativo, il quale condurrà ad una “decisione provvedimentale” ?
È importante rendersi conto che la disdetta non può essere facilmente “scollegata”, da un’eventuale e probabile richiesta di rinnovo, la quale imporrà una valutazione discrezionale dell’assetto di interessi in gioco. Tale valutazione, invero, sussiste non solo in presenza di un’istanza, ma sembra sussistere pure in caso di assenza della medesima. Non volendo anticipare temi, che saranno affrontati in seguito, è opportuno anticipare che la P.A., con la disdetta, sembra effettuare sempre una valutazione degli interessi in gioco, similmente al caso in cui pervenga una apposita istanza, per cui appare dubbia la diversa disciplina e natura che viene attribuita.
Quel che preme evidenziare è che, come
afferma la sentenza in commento, se si sostiene la tesi negoziale, la disdetta
non dà luogo ad alcun procedimento di valutazione, ad alcun atto
amministrativo, per cui, sotto tale aspetto, il privato-concessionario risulta
titolare di una minore tutela, mentre l’azione amministrativa medesima si
appalesa in modo certo meno trasparente. Non si vuol essere fautori di una
“procedimentalizzazione” dell’attività amministrativa a tutti i costi;
ma, certo, non può non tenersi conto che, con la legge 241/1990, attraverso la
formalizzazione di procedure garantistiche, l’azione amministrativa ha
cominciato ad apparire più trasparente, per cui la sottrazione di atti, quali
la disdetta, a tale disciplina, non può essere condotta a cuor leggero e non
dar adito a riflessioni dubbiose.
La sentenza in commento, al punto 6. aa) statuisce che la disdetta non necessita di motivazione, per cui un’eventuale motivazione rileva non tanto nei rapporti con il concessionario, ma, piuttosto, ai fini del controllo, anche di carattere politico e gestionale, sull’operato dell’Amministrazione e sull’uso delle risorse finanziarie. Ora, sembra difficile sostenere una limitazione della motivazione ai soli fini interni, cioè quelli afferenti l’organizzazione interna della P.A., con particolare riferimento agli organi istituzionali di specie, cioè Consiglio e Giunta comunale. L’articolo 3 della già citata legge 241/1990, nel prevedere l’obbligo di generale motivazione degli atti amministrativi, non sembra autorizzare in alcun modo una possibile distinzione e limitazione, in riferimento alla proiezione esterna dell’atto (i destinatari diretti) ed a quella interna. Infatti, al di là dell’ovvia difficoltà di distinguere la proiezione esterna della motivazione da quella interna, in quanto, ad esempio, i consiglieri comunali, pur non atteggiandosi a destinatari diretti, sono pur sempre, per il loro particolare status, interessati e destinatari dell’atto, quel che risulta chiaramente è che nessuna norma, tanto meno l’articolo 3 citato, autorizza una lettura di tal genere. Cosa vuol dire limitare, far rilevare la motivazione solo ai fini del controllo interno ?
Si vuol dire, forse, che la motivazione,
fondamentale strumento di trasparenza e di democraticità dell’azione
amministrativa, si esplica solo in un senso, non essendo riferibile al
privato-diretto destinatario, il quale, in tal modo, vedrebbe leso gravemente ed
irreparabilmente il suo diritto a conoscere le ragioni dell’agire
amministrativo, immediatamente e con pregiudizio incidenti sulla sua sfera
giuridica ? Francamente, una simile lettura della motivazione sembra non
condivisibile !
La sentenza, in un altro punto (7),
afferma che la disdetta non implica un giudizio sull’espletamento del
servizio, per cui si presenta simile alle clausole
dei comuni contratti di durata. Anche tale affermazione non appare
totalmente immune da censure. Infatti, con la disdetta, la Pubblica
Amministrazione pone fine ad un modello di gestione dei servizi pubblici, la
concessione, nel senso che espressamente afferma, stante la già evidenziata
inutilità ai fini del rinnovo tacito, di non voler rinnovare la concessione
medesima, indipendentemente da una richiesta esplicita di rinnovo. In tal modo,
è indubitabile che viene compiuta una decisione circa il futuro modulo
gestionale, statuendo implicitamente, come avviene nei fatti nella stragrande
maggioranza dei casi, di voler “passare” ad un’altra formula
organizzatoria di gestione. Dunque, con la disdetta, la Pubblica Amministrazione
compie l’atto iniziale e prodromico per addivenire ad un nuovo modulo
gestionale. E evidente che una scelta così importante, pur nei suoi atti
preliminari, implica non solo una motivazione non limitata in alcun modo, ma
anche una congrua valutazione sull’espletamento del servizio e, quindi, sulle
ragioni che stanno alla base della scelta medesima. La giurisprudenza, già da
tempo, è unanime su tale punto, affermando che la scelta della forma di gestione di un servizio pubblico deve derivare
da una adeguata ponderazione di tutti gli interessi coinvolti da tale scelta;
segnatamente deve evidenziare la convenienza economica per le finanze
dell’ente e deve tener conto della qualità del servizio erogato e del diverso
grado di efficienza nello svolgimento attraverso l’uno o l’altro strumento
mediante un calcolo dettagliato dei costi e dei benefici di ciascuno di essi (Consiglio
di Sato, sez. VI, n. 374 del 12/03/1990).
Sulla scia dell’affermazione ora
criticata, la sentenza in commento, sorprendentemente, sostiene che la
comunicazione della volontà di non proseguire il rapporto non è affatto
caratterizzata dalla valutazione necessaria dell’interesse pubblico, ben
potendo essere determinata, in concreto, da altre ragioni. Anche tale
assunto non è immune da censure. Infatti, sembra ben evidente che la decisione
e la comunicazione della volontà di porre fine al rapporto concessorio deve
necessariamente correlarsi ad una valutazione degli interessi, in primis
pubblici, in gioco. Com’è possibile negare tale correlazione, con
sorprendente sottovalutazione dell’imprescindibile importanza dell’interesse
pubblico ? Sembra, quasi, che l’interesse pubblico non conosca più la
necessità di essere valutato, oltre che curato. Una tale lettura sembra, con
enorme sorpresa, essere consentita dalla medesima sentenza, la quale, nel
successivo punto, statuisce che l’interesse
pubblico enunciato dall’Amministrazione non rappresenta il presupposto della
disdetta, ma costituisce, semplicemente, uno dei motivi, di per sé non
rilevante nell’ambito del rapporto tra Amministrazione e gestore, della
determinazione assunta dal concedente. Al di là della discutibile
dequalificazione dell’interesse pubblico da presupposto ad uno qualsiasi dei
motivi, è evidente che il medesimo andrebbe sempre valutato, esternando verso
tutti i risultati di tale attività, cosa che, invece, viene negata
dall’incomprensibile limitazione della motivazione, prima vista.
Al di là delle non tenui perplessità
ora esaminate, non può non sfuggire, ad una attenta analisi, che la
qualificazione della disdetta quale atto negoziale comporta un trasferimento di
competenze dal Consiglio comunale al Dirigente/Responsabile del servizio.
Infatti, l’articolo 42 comma II lettera e) del D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico
Ordinamento Enti Locali) prevede l’espressa competenza del Consiglio in tema
di concessioni di pubblico servizio [13].
Se la tesi “negoziale” venisse interamente accolta, comporterebbe la
necessaria competenza, in tema di disdetta della concessione, in favore del
Dirigente/Responsabile del servizio, in virtù dell’art. 107 D.Lgs. 267/2000 [14].
Infatti tale articolo, in ossequio al principio di separazione fra poteri di
indirizzo e controllo politico-amministrativo, di competenza degli organi di
governo, e poteri di gestione, di competenza dei dirigenti, stabilisce che gli
atti di gestione e quelli che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno
rientrano nell’esclusiva sfera di attribuzione dei dirigenti, oppure, se non
presenti questi, dei Responsabili di servizio. Il tutto darebbe luogo ad
un’enorme paradosso, in quanto si assisterebbe al profilarsi di una situazione
in cui per la concessione, o per il suo eventuale rinnovo, risulta competente il
Consiglio, mentre per la disdetta, (che altro non è che, attualmente, che un
diniego verso una non presentata, e quindi eventuale ma probabile richiesta di
rinnovo), competente risulterebbe il dirigente. Si avrebbe, in tal modo, una
scissione di competenze in riferimento ad un’unica e complessa fattispecie (la
concessione in essere, seppur in scadenza, ed il suo eventuale rinnovo) che
appare non giustificata e comportante, fra l’altro, un’attribuzione ai
dirigenti di un potere di enorme rilevanza, da esercitare senza il rispetto di
alcuna procedura, oltrechè senza alcun obbligo di congrua motivazione (!).
Sempre in tema di motivazione va, infine,
rilevato che il mancato rispetto dell’obbligo di motivazione, palesato dalla
sentenza in commento, comporta, come già prima evidenziato, una grave perdita
di trasparenza e di democraticità dell’azione amministrativa. Al di là del
rilievo, ora esaminato e relativo all’attribuzione in favore del dirigente di
un sì rilevante potere, quale quello di disdettare una concessione di pubblico
servizio, del valore economico talvolta pari a decine di miliardi, va rilevato
che lo spirito di “massima trasparenza dell’azione amministrativa”, insito
prima nel disegno di legge Nigro, e poi nella legge 241/1990, sembra conoscere,
purtroppo, un sostanziale arretramento.
In realtà, alla base del revirement,
operato dalla V° sezione del Consiglio di Stato, sembra esserci
l’affermazione di una diversa concezione del vetusto modello della concessione
di pubblico servizio. Infatti, la vecchia tesi della concessione come
fattispecie complessa, costituita da un provvedimento unilaterale della Pubblica
Amministrazione (deliberazione di affidamento del servizio) a cui accede una
convenzione privatistica, disciplinante in particolare i rapporti patrimoniali,
sembra cedere il passo ad una nuova concezione. Questa afferma, in pratica, che
la concessione di pubblico servizio costituisce un rapporto giuridico unitario,
di natura contrattuale, disciplinato dal codice civile e dai principi
pubblicistici. Sembra, dunque, che la nuova configurazione conferita alla
disdetta costituisca un ulteriore sviluppo della nuova concezione, la quale,
seppur destinataria di un sempre maggior interesse da parte degli studiosi,
incontra un importante limite, rappresentato dal fatto che, attualmente e
strutturalmente, la concessione di pubblico servizio si presenta quasi sempre
costituita da una deliberazione amministrativa di affidamento del servizio, a
cui segue una convenzione accessiva, disciplinante i rapporti patrimoniali fra
le parti, così come, sostiene, invero, la più risalente concezione.
La tematica della concessione di pubblico
servizio, nei suoi molteplici istituti correlati, quali la disdetta, presenta,
dunque, una perdurante attualità, nonostante che a livello legislativo, si
preveda la sua scomparsa. Con tale commento, si intende esprimere la speranza
che il rinnovato interesse verso tale vetusta figura organizzativa, confermata
dalla pronuncia in esame, al di là delle scelte del legislatore, sia fonte di
ulteriori studi, non dimenticando, infatti, che la concessione di pubblico
servizio ha contribuito, in maniera non irrilevante, alla soddisfazione di
fondamentali bisogni della collettività nell’ultimo mezzo secolo [15].
(avv.
Massimiliano Alesio, 2.10.2000)
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(DIRITTO – omissis)
4. Il Collegio è consapevole che,
in altre occasioni, la Sezione ha affermato la natura provvedimentale ed
autoritativa degli atti di disdetta di convenzioni accessorie o sostitutive di
concessioni di beni o di servizi, adottati dall'amministrazione sulla base di
espresse previsioni contenute nell'accordo. Secondo tale orientamento, l'atto
con il quale l'amministrazione concedente si avvale della clausola di disdetta
pattiziamente determinata, impedendo conseguentemente la tacita rinnovazione
della concessione, ha natura provvedimentale, in quanto espressione della
titolarità di un pubblico potere (Consiglio Stato, sez. V, 16 settembre 1994,
n. 996). Alla base di tale indirizzo, che accomuna la disdetta alle diverse
ipotesi della revoca per sopravvenute esigenze di interesse pubblico e della
decadenza sanzionatoria della concessione, conseguente all'inadempimento del
gestore, si propone fra l'altro, l'argomento secondo cui l'atto esprime sempre
una scelta discrezionale del soggetto concedente, strettamente correlata alla
valutazione dell'interesse pubblico alla prosecuzione del rapporto:
"similmente alla revoca o alla pronuncia di decadenza, ha natura di atto
amministrativo autoritativo anche la "disdetta" che, sulla base
dell'accordo accessivo alla concessione di un bene pubblico, l'amministrazione
comunica al concessionario per impedire la rinnovazione automatica dei rapporto,
quando essa si basi sull'ormai prossima scadenza del rapporto e sulla
inopportunità della rinnovazione" (Consiglio Stato sez. V, 18 dicembre
1997, n. 1580). 5 . In particolare, la tesi si basa, essenzialmente,
sulle seguenti motivazioni: a) la disdetta è assimilabile all'esercizio del
potere di revoca del rapporto per sopravvenute ragioni di interesse pubblico; b)
la disdetta mira alla migliore gestione di un pubblico servizio con atti idonei
ad incidere unilateralmente sul rapporto concessorio; c) non è conforme a
pubblico interesse la possibilità di contestare la legittimità degli atti che
pongono fine al rapporto entro l'ordinario termine decennale di prescrizione e
non entro il termine di decadenza; d) la soluzione è coerente con
l'orientamento del Consiglio di Stato sulla natura autoritativa degli atti
dell'amministrazione connessi alla stipula del contratto, come la mancata
approvazione.
6 . Nessuno di questi argomenti
appare decisivo. aa) La revoca per ragioni di pubblico interesse, che pure la
Cassazione tende ad attrarre nell'ambito del diritto privato, inquadrandola
nella figura tipica del recesso anticipato nei contratti di durata, presenta
caratteristiche peculiari, legate al potere eccezionalmente riconosciuto
all'amministrazione di intervenire dall'esterno nel rapporto concessorio, anche
in mancanza di un'apposita clausola convenzionale. Invece, la disdetta è
riferita, alla normale scadenza del rapporto, allo scopo di impedire la
rinnovazione tacita del servizio svolto dal precedente gestore, inserendosi nel
fisiologico sviluppo parititetico del rapporto, indipendentemente dalle ragioni
addotte dall'amministrazione. Infatti, mentre la revoca, in quanto espressione
di un potere discrezionale, deve essere congruamente motivata ed ancorata a
rigorosi presupposti oggettivi, la disdetta è espressione di un diritto
meramente potestativo, che non richiede alcuna giustificazione (salvo il
rispetto dei generali criteri di correttezza e di buona fede), costituendo
espressione di una libera scelta negoziale. La circostanza che, spesso, come
potrebbe essere avvenuto nel caso di specie, la disdetta possa essere
accompagnata dall'indicazione sintetica (se non generica), dei peculiari motivi
considerati dall'amministrazione per determinare lo scioglimento del rapporto,
non ne modifica la natura giuridica. In tali eventualità, la motivazione rileva
non tanto nei rapporti con il concessionario (il quale, sin dalla stipulazione
della convenzione è in grado di conoscere la data di scadenza fisiologica del
rapporto), ma, piuttosto, ai fini del controllo, anche di carattere politico e
gestionale, sull'operato dell'amministrazione e sull'uso delle risorse
finanziarie. bb) La finalità dell'atto, e l'intensità del nesso teleologico
con il migliore espletamento del servizio non è elemento determinante per
stabilire la natura. Al riguardo, è sufficiente osservare che è ormai
consolidato il principio in forza del quale normalmente l'amministrazione può
eseguire i compiti istituzionali affidatili dall'ordinamento, tanto mediante
l'uso di strumenti autoritativi, quanto attraverso l'applicazione di istituti di
diritto comune. Ne deriva che, assai frequentemente, la finalità pubblicistica
è presente in atti di diritto comune, che restano comunque disciplinati dalla
normativa civilistica. Sotto altro profilo, è evidente che l'attività delle
amministrazioni, anche se formalmente connotata da aspetti civilistici, deve
sempre rispettare il generale criterio di adeguata tutela dell'interesse
pubblico, senza per questo trasformarsi in attività di carattere autoritativo.
Sul piano sistematico, è significativo che l'articolo 19 della. legge n.
109/1994, in sintonia con la disciplina di derivazione comunitaria, qualifica
espressamente la concessione di lavori pubblici, come contratto ad oggetto
composito (realizzazione di lavori, dietro corrispettivo del diritto alla
gestione dell'opera). In tal modo, si chiarisce che la funzione concessoria,
nella sua fase esecutiva, è assoggettata alla normativa del diritto comune dei
contratti, quale che sia la rilevanza dell'interesse pubblico. Del resto,
l'espressa previsione legislativa di una giurisdizione esclusiva in materia di
concessioni di beni e servizi pubblici (articolo 5 della legge n. 1034/1971) e,
più in generale, nei rapporti tra amministrazione e gestore, nasce proprio
dall'implicito riconoscimento della circostanza che nell'esecuzione del rapporto
possono assumere rilievo le posizioni di diritto soggettivo delle parti,
correlate ad atti di natura privatistica. Se si considera che (nella originaria
formula dell'articolo 5) le pretese meramente patrimoniali erano riservate alla
cognizione del giudice ordinario, risulta evidente che la giurisdizione
esclusiva amministrativa può trovare spazio solo in relazione a controversie
originate da atti paritetici dell'amministrazione comunque incidenti sul
rapporto. Inoltre, nemmeno la natura unilaterale dell'atto può ritenersi indice
univoco del suo asserito carattere autoritativo e pubblicistico, posto che anche
il recesso relativo ad un ordinario rapporto contrattuale presenta la struttura
unilaterale tipica delle manifestazioni di volontà espresse nell'esercizio di
diritti potestativi. cc) Il riferimento al pubblico interesse sotteso alla
maggiore brevità del termine decadenziale per contestare il recesso
dell'amministrazione non assume un peso apprezzabile. Non vi è dubbio che la
regola della decadenza, favorendo la rapida inoppugnabilità delle
determinazioni amministrative, protegge meglio l'interesse pubblico generale
alla certezza dei rapporti giuridici e quello specifico dell'amministrazione
concedente del servizio, impedendo contestazioni proposte a distanza di anni,
nel termine ordinario di prescrizione. Ma tale argomento non può sovvertire il
principio secondo cui, nell'ambito della giurisdizione esclusiva amministrativa,
i diritti soggettivi sono tutelabili secondo le forme apprestate
dall'ordinamento, indipendentemente dal rilievo dell'interesse pubblico
contrapposto. In tale prospettiva, occorre considerare che, talvolta, la stessa
legge prevede brevi termini decadenziali per l'esercizio di determinate azioni
(si pensi alla materia delle delibere delle persone giuridiche e degli enti non
riconosciuti, delle delibere consiliari, del licenziamento, dei contratti di
vendita e di appalto). Ma, in mancanza di espresse norme concernenti la
decadenza, vige il principio generale della tutelabilità dei diritti soggettivi
nel termine di prescrizione. D'altro canto, nell'ambito dell'autonomia negoziale
ed allo scopo di attenuare l'incertezza delle situazioni giuridiche, le parti
possono sempre stabilire contrattualmente appositi patti di. decadenza, nei
limiti stabiliti dagli articoli 2964 e seguenti del codice civile. Senza dire,
poi, che, in caso di contestazioni o di incertezze, la stessa amministrazione
potrebbe farsi parte attiva per ottenere una pronuncia dichiarativa che accerti
l'effettiva consistenza dei diritti e degli obblighi delle parti. dd)
L'assimilazione della decadenza all'atto di approvazione del contratto non
appare convincente, perché solo quest'ultimo si inserisce certamente nella fase
amministrativa di evidenza pubblica, preordinata alla formazione del contratto
(secondo lo schema proprio degli elementi integrativi dell'efficacia dell'atto
negoziale), mentre la disdetta, collocata nella fase esecutiva del rapporto
convenzionale, è posta al di fuori della serie procedimentale, riguardando,
semmai, la fase esecutiva dell'accordo.
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[1]
La sentenza T.A.R. Lombardia Milano, sez. III, n. 2.925 del 15/12/1998 non
si occupava direttamente della natura giuridica dell’atto di disdetta : L’acquiescenza
opera in rapporto ad atti invalidi della Pubblica Amministrazione rispetto
ai quali i destinatari degli stessi, potenzialmente interessati alla loro
caducazione, rivelano, attraverso manifestazioni espresse o tacite, di
accettare comunque le conseguenze che ne derivano, facendo così
venir meno ogni possibilità di
far valere i vizi degli atti medesimi, fermo restando che, ove il rapporto
presenti natura paritetica, il mancato esercizio da parte del privato dei
diritti spettantigli non comporta acquiescenza, ma può esclusivamente
rilevare ai fini della prescrizione.
[2] Articolo 14 comma I : L'attività di distribuzione di gas naturale e' attività di servizio pubblico. Il servizio e' affidato esclusivamente mediante gara per periodi non superiori a dodici anni. Gli enti locali che affidano il servizio, anche in forma associata, svolgono attività di indirizzo, di vigilanza, di programmazione e di controllo sulle attività di distribuzione, ed i loro rapporti con il gestore del servizio sono regolati da appositi contratti di servizio, sulla base di un contratto tipo predisposto dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas ed approvato dal Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto.
[3] Art. 1. (Sostituzione del Capo VII della legge 8 giugno 1990, n. 142)
Il Capo VII della legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:
"CAPO VII SERVIZI PUBBLICI LOCALI
Art.
22Servizi pubblici locali e loro modalità di esercizio)
1. I servizi pubblici locali, individuati dagli enti locali tra le attività non riservate allo Stato, alle regioni o ad altre amministrazioni pubbliche, hanno ad oggetto la produzione di beni e lo svolgimento di attività rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali. Ai fini del presente articolo e dell’articolo 23, per enti locali si intendono comuni, province, unioni di comuni e comunità montane.
2. Gli enti locali, nell’esercizio delle funzioni di loro competenza, provvedono ad organizzare i servizi pubblici, o segmenti di essi, con le modalità di cui al presente articolo, ove il relativo svolgimento in regime di concorrenza non assicuri la regolarità, la continuità, la accessibilità, la economicità e la qualità dell’erogazione in condizioni di uguaglianza. Il gestore di un servizio pubblico locale o di un’infrastruttura strumentale a detto servizio è tenuto ad ammettervi utenti ed imprese che ne hanno titolo, sulla base di condizioni oggettive, trasparenti e non discriminatorie.
3. I servizi pubblici locali di erogazione di energia, con esclusione di quella elettrica, di erogazione del gas, di gestione del ciclo dell’acqua, di gestione dei rifiuti e di trasporto collettivo di linea, eccettuati quelli a fune operanti in montagna, sono affidati dagli enti locali, anche in forma associata, ad uno o più gestori, pubblici o privati, scelti esclusivamente in base a gara a norma dell’articolo 23. Alla scadenza del periodo di affidamento, la scelta del nuovo gestore avviene mediante gara. Con regolamento adottato dal Governo a norma dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, eventuali altre tipologie di servizi pubblici locali potranno essere sottoposte alla disciplina del presente comma secondo i princìpi di cui ai commi 1 e 2.
[4]
T.A.R. Lombardia, sez. Brescia, n. 8 del 14/01/2000 : Il Comune che, alla scadenza della concessione trentennale del servizio
di distribuzione gas, manifesta la volontà di disdire la concessione alla
sua scadenza naturale, non è tenuto ad osservare le modalità prescritte
dalla convenzione per il caso di riscatto anticipato. La somma da
corrispondere in base alla convenzione per le opere realizzate dalla
concessionaria nell’ultimo decennio, benchè calcolata secondo le modalità
del riscatto, non costituisce indennità per il riscatto anticipato, nè
sussiste il diritto di ritenzione degli impianti fino al pagamento delle
somme dovute dal Comune, previsto dalla convenzione per l’ipotesi di
riscatto anticipato.
La gestione di servizi pubblici locali con affidamento diretto a società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, ai sensi dell’art. 22, 3° comma, lett. e, della legge 142 del 1990, è consentita solo in presenza di società mista che opera nell'interesse e nei confini degli Enti partecipanti. Quando una società, di cui il Comune è socio, può operare anche fuori dell'ambito territoriale dei singoli Comuni partecipanti, e risulta, per la tipologia dei servizi che può gestire, assimilabile ad un qualsiasi soggetto economico privato, che liberamente ed in regime di concorrenzialità può confrontarsi con altre imprese del settore, l'affidamento del servizio non può che avvenire mediante lo strumento della concessione (art. 22, 3° comma lett. b, l. 142/90) e a seguito di procedura concorsuale.
Ai fini della tutela risarcitoria, chiesta ai sensi dell’art. 35 del D.lgs. 80 del 1998, non è sufficiente che la situazione del titolare dell'interesse legittimo si configuri come la perdita di una chance, intesa come possibilità di conseguire un risultato favorevole, trattandosi di un mero interesse di fatto. Nel caso in cui un Comune illegittimamente affidi un pubblico servizio, dopo la scadenza di una precedente concessione, ad una società mista, ai sensi della lett. e) dell'art. 22, 3° comma L. 142/90, anziché ai sensi della lett. b) dello stesso articolo, omettendo l'avvio della procedura concorsuale per la scelta del nuovo concessionario, la Società precedentemente concessionaria del servizio risulta titolare di un mero interesse di fatto, riconducibile alla possibilità, laddove fosse stata tenuta regolarmente la pubblica gara per l'affidamento del servizio, di partecipare alla stessa ed eventualmente ottenere di nuovo, in caso di vittoria, l'affidamento del servizio in concessione. Non spetta quindi tutela risarcitoria alla società ex concessionaria, titolare soltanto di un interesse al regolare avvio di una gara pubblica fra operatori del settore, che selezioni il nuovo affidatario del servizio.
[5] Sulla revoca, quale importante istituto della concessione e sulle differenze con la disdetta e con la pronuncia di decadenza, ce ne occuperemo successivamente.
[6] Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4.656 del 01/09/2000 : La scelta del socio privato avvenuta in assenza della gara ad evidenza pubblica può essere contestata solo da chi ha interesse a partecipare alla società mista, o da chi ha interesse all'assegnazione della concessione ed è stato estro messo a seguito di un affidamento avvenuto in via diretta alla società mista.
Nel caso in cui, invece, alla costituzione della società mista segua un procedimento comparativo di tutte le domande, compresa quella della società mista, non residua alcun interesse per chi, come la ricorrente, è solo intenzionata ad ottenere 1’assegnazione della concessione (avvenuta comunque a seguito di comparazione delle domande), e non la partecipazione nella società.
[7] Su tale problematica, si segnala l’interessante nota di commento di G. Virga, Asta pubblica, licitazione privata e la selva di antenne che ci attende, apparsa su www.lexitalia.it
[8] Revirement, termine di origine francese, letteralmente significa il rivirare di bordo, cioè, metaforicamente, il cambiamento completo di un opinione. Il termine viene usato in diritto proprio per indicare un totale mutamento di una precedente posizione.
[9] F. Galgano, Diritto civile e commerciale, vol. II (le obbligazioni ed i contratti), tomo I, Padova 1990, p. 63 e ss.
[10] AA.VV.,La concessione di pubblico servizio, a cura di G. Pericu, A. Romano e V.S. Vigorita, Milano 1995, p. 172-173.
[11] Articolo 44 L. 724/1994, modificativo dell’art. 6 L. 537/1993 : E’ vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura dei beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli. Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano la sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente la volontà di procedere alla rinnovazione.
[12] In verità, la giurisprudenza, al di là dell’articolo 44 citato, configura ancora il cosiddetto “diritto d’insistenza”, in favore del titolare della concessione di pubblico servizio. Una recentissima sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 1224 del 01.10.1999, si occupa espressamente della figura in questione ed afferma che alla concessione amministrativa, di regola, accede il cosiddetto "diritto di insistenza", che costituisce quell'interesse qualificato e tutelato del concessionario ad essere preferito ad altri aspiranti alla concessione, ma non anche una pretesa incondizionata ad ottenere quest'ultima, bensì solo un limite alla discrezionalità della P.A. concedente che, nello scegliere il nuovo concessionario, deve tener conto della posizione di colui che è stato titolare del precedente rapporto e che, quindi, potrebbe risentire un danno dalla cessazione della relativa attività, di tal che il rinnovo della concessione può anche non esser rilasciato a quest'ultimo, qualora non vi siano più elementi idonei a mantenere il rapporto.
[13] La norma riconferma, senza modifiche, la precedente, prevista nell’abrogato articolo 32 comma II lettera f) della L. 142/1990.
[14] La norma riconferma, senza modifiche, la precedente, prevista nell’abrogato articolo 51 della L. 142/1990.
[15] Su tali problematiche: AA.VV., La concessione di pubblico servizio, op. cit.