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n. 3/2005 - ©
copyright
SERGIO AGRIFOGLIO
(Straordinario di Istituzioni di diritto pubblico
nell’Università di Palermo)
Pluralismo
ordinamentale, localismi giuridici
e principio di sussidiarietà. Una chiave di lettura per l’Europa*.
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I) Italia, anni trenta. Fascismo: tutto per lo Stato, tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato. È quella l’ideologia all’epoca vincente: anche a non volere tenere presente Gentile, secondo il quale non è possibile concepire lo Stato come esterno all’individuo, né l’individuo come astratta particolarità fuori dall’immanente comunità etica dello Stato, in cui egli realizza la sua effettiva libertà [1], persino un convinto sostenitore della pluralità degli ordinamenti giuridici, Cesarini Sforza, scrive che “allo Stato appartiene una assoluta ed originaria sovranità, e si considera la sua volontà come capace di obbligare immediatamente i sudditi (alla stessa guisa che Dio obbliga immediatamente gli uomini”) [2].
In tale clima politico, giuridico ed ideologico, durante una partita di calcio, in un incidente di gioco, un giocatore spezza con un calcio la gamba all’avversario; un certo Janni, un giocatore di football che oggi viene ricordato soltanto per tale episodio.
Nel suo rapporto l’arbitro esclude che nell’episodio possa ravvisarsi alcun dolo, quanto meno nell’accezione per così dire sportiva; l’autorità di P.S., viceversa, denuncia i fatti all’autorità giudiziaria.
Ne segue un processo penale, nel corso del quale il giocatore danneggiato si costituisce parte civile, e che si conclude con la condanna dell’imputato per lesioni volontarie.
La Federazione Italiana Gioco Calcio ritira la tessera non già al giocatore colpevole di un – accertato - reato commesso durante lo svolgimento della partita, ma al giocatore che si era costituito parte civile, proprio nella considerazione che era stato il comportamento di quest’ultimo, che aveva disatteso le risultanze della giustizia sportiva (e/o dell’accertamento dell’arbitro), a porsi contro la normativa federale.
Nessuno all’epoca si scandalizzò, dato che in tale gesto si vide da parte dei giuristi (ma, è da ritenere, anche da parte della società civile) “non una invasione nel campo dello Stato” da parte della F.I.G.C., bensì “la difesa di un campo autonomo” di regole e di norme di un ordinamento comunque diverso dallo Stato [3].
E per converso nessuno si scandalizzò della incomunicabilità tra l’ordinamento sportivo [4] e l’ordinamento statale: “colui che in una controversia dello sport ricorre all’autorità dello Stato, agisce come membro della comunità statuale, e non come membro della comunità sportiva, si pone, quindi, automaticamente fuori di questa; e di tale ‘secessione’ è logico che subisca le conseguenze” [5].
D’altronde, avrebbe potuto osservare il giurista, ma anche il sociologo, non erano sconosciuti all’epoca i casi nei quali i cittadini italiani ondivagavano, per così dire, tra l’ordinamento statuale ed ordinamenti giuridici altri, in un complesso gioco di richiami più o meno sfumati, più in un inseguirsi di ombre nella spelonca platonica che in una lucente fuga di specchi.
Ad esempio, si pensi che un ufficiale sfidato a duello era costretto a scegliere tra la commissione di un reato (tale era il duellare per il codice penale) o il rifiuto di accettare la sfida, che gli avrebbe non soltanto fatto perdere la qualifica di gentiluomo (sarebbe stato, appunto, squalificato da un apposito giurì) ma lo avrebbe altresì fatto espellere dalle stesse forze armate dello Stato, che non avrebbero potuto più accettare tra i propri ranghi un ufficiale che fosse stato espulso dalla società dei gentiluomini (e che di conseguenza così, in fondo, recepivano il dictum di un ordinamento giuridico per altri versi viceversa ignorato e per altri ancora considerato quasi criminale – essendo l’omicidio in duello considerato, comunque, reato, anche se meno grave dell’omicidio – tout-court) [6].
Né questa sembri un’affermazione meramente ipotetica o comunque azzardata.
Sempre negli anni trenta, pochi anni prima della sentenza dianzi citata, un ufficiale porta di notte, insieme ad alcuni conoscenti, la moglie a passeggiare in un luogo isolato. Uno di costoro, in un momento in cui la moglie si era allontanata dal resto della comitiva, tenta di usarle violenza. Attratto dalle grida della moglie, sopraggiunge il marito, che ripetutamente schiaffeggia e malmena l’aggressore, che si salva con la fuga.
Il giorno seguente l’ufficiale, dopo essersi consultato con alcuni colleghi, ritiene che non fosse il caso di sfidare a duello l’aggressore della moglie, e si limita a denunciarlo all’autorità giudiziaria: il codice cavalleresco, infatti, impone di sfidare a duello, in caso di offesa, un altro gentiluomo, ma al contempo proibisce categoricamente di duellare con chi gentiluomo non può essere considerato (come non ricordare l’ignobile signore di Rohan, che fece bastonare Voltaire, e il non meno ignobile sovrano che spedì Voltaire alla Battaglia poiché non osava sfidare a duello, lui, non nobile, il nobile di Rohan?).
I superiori dell’ufficiale, però, sono di diverso avviso, e lo deferiscono al consiglio di disciplina; quest’ultimo, in applicazione degli artt. 73 e 71 e) della legge 11 marzo 1926, n. 397 sullo stato degli ufficiali, lo dichiara non meritevole di conservare il grado perché aveva tenuto un contegno contrario alle regole cavalleresche: in tutta conseguenzialità, l’ufficiale viene rimosso dal grado e dall’impiego con decreto reale.
Il Consiglio di Stato ritiene tale rimozione del tutto legittima con la motivazione che, nella specie, le regole cavalleresche – definite “regole di comportamento sociale tra determinate classi della Nazione” – erano state bene applicate, senza entrare assolutamente sul merito di esse, sulla loro intrinseca razionalità, sulla loro stessa compatibilità con l’ordinamento statale: soltanto nel caso in cui il provvedimento di espulsione si fosse fondato su fatti “incontrastabilmente tali da non rientrare nella violazione di regole cavalleresche” esso sarebbe stato ritenuto illegittimo “sotto l’aspetto particolare della illogicità” [7].
Manco a dirlo, neppure un cenno da parte del massimo organo di giustizia amministrativa sulla giuridicità – alla luce della legge dello Stato - di una norma cavalleresca che pretendeva un comportamento che costituiva un illecito penale per l’ordinamento italiano: l’ordinamento cavalleresco veniva trattato dal Consiglio di Stato alla stregua di un ordinamento straniero, quasi ché la L. 397/1926 avesse operato ad esso un rinvio di tipo formale.
O si consideri ancora il caso di un gentiluomo che non avesse pagato né i debiti contratti al tavolo da gioco, né quelli del salumaio: sarebbe stato colpito da squalifica dal mondo cavalleresco soltanto per non avere pagato i primi (i soli tra i due debiti ad essere considerati debiti d’onore), mentre l’ordinamento statale avrebbe dato azione contro di lui soltanto al salumiere, e non già al vincitore al tavolo da gioco (dato che il debito di giuoco altro effetto non comportava – né comporta - agli effetti civilistici che la impossibilità di ripetere l’indebito).
O si pensi ancora che appena pochi anni prima della firma del concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa, in Italia le coppie celebravano usualmente, ed usualmente in giorni diversi, due matrimoni, l’uno davanti all’ufficiale dello stato civile[8], l’altro davanti al sacerdote, l’uno avente rilievo (soltanto) di fronte all’ordinamento giuridico statuale, l’altro di fronte al diritto canonico.
E, per converso, si pensi agli strani rapporti che nascevano così tra i due ordinamenti: ufficiali espulsi dall’esercito italiano per avere contratto il solo matrimonio concordatario,[9] e per converso sanzioni di stato adottate dall’ordinamento canonico per chi si fosse sposato col solo rito civile (d’altronde ancora oggi presso le c.d. università cattoliche non può essere chiamato all’insegnamento, o da esso può essere escluso, il docente che contragga un matrimonio civile).
II) Unione europea. Anni novanta.
Jean – Marc Bosman, un calciatore professionista belga, che gioca per il Royal Club Liegi, scaduto il contratto di ingaggio, vuole trasferirsi presso una società calcistica francese, l’US Dunkerque, che militava nel campionato di serie B.
Senonché tale trasferimento viene bloccato dalla squadra del Liegi, che pretende una somma di denaro in ossequio alla previsione normativa dell’UEFA, recepita – del tutto ovviamente, verrebbe da aggiungere – da tutte le federazioni ad essa facenti capo, per la quale un calciatore professionista alla scadenza del contratto che lo vincola a una società può essere ingaggiato da un’altra società soltanto se questa abbia versato alla società di provenienza un’indennità di trasferimento, di formazione o di promozione.
In relazione a tale divieto il Bosman aziona una lite per potere appunto transitare da una squadra di serie A del campionato belga ad una squadra di serie B del campionato francese (campionato il cui livello qualitativo è notoriamente scarsissimo, e nel quale non risulta vengano normalmente ingaggiati campioni, tanto meno stranieri); ed a che c’è, verrebbe da dire, inizia anche una separata azione preventiva contro l’Union national des footballeurs professionals, il sindacato francese dei calciatori, nonché, naturalmente, sempre contro l’UEFA, sulla base dell’art. 18 del Code judiciare belga, il quale consente le azioni esperite “allo scopo di prevenire la lesione di un diritto gravemente minacciato”, al fine di far dichiarare che le norme che ponevano un limite ed all’ingaggio ed all’impiego in partita di giocatori stranieri fossero dichiarate incompatibili con l’art. 48 del trattato C.E. nella parte in cui esso assicura la libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità.
La Corte di giustizia europea, con sentenza del 15 dicembre 1995 (Causa C-415/93, ormai nota come sentenza Bosman[10]), afferma che “l’art. 48 del trattato Ce osta all’applicazione di norme emanate da federazioni sportive in forza delle quali un calciatore professionista, cittadino di uno Stato membro, alla scadenza del contratto che lo vincola ad una società può essere ingaggiato da società di altro Stato membro solo se questa ha versato alla società di provenienza un’indennità di trasferimento, formazione e promozione. L’art. 48 del trattato Ce osta all’applicazione di norme emanate da federazioni sportive in forza delle quali, nelle partite che organizzano, le società calcistiche possono schierare solo un numero limitato di calciatori professionisti cittadini di altri Stati membri”.
Tanto il mondo dei giuristi quanto quella che suole chiamarsi la società civile rimasero questa volta tutt’altro che indifferenti al dictum del Giudice europeo [11], tant’è che, si disse, la sentenza di Bruxelles, quanto meno sotto l’aspetto che aveva, almeno in astratto, consentito alle squadre di club di schierare in campo undici elementi, tutti stranieri, ma che stranieri non dovevano più essere considerati in quanto cittadini dell’Unione europea, “fino all’entrata in vigore dell’euro come moneta circolante, è stata l’elemento di maggior impatto simbolico nella costruzione di un’idea di Europa comunitaria[12]” .
III) Reazioni, quindi, estremamente diverse nei due casi esaminati.
Probabilmente un economista o un sociologo potrebbero spiegare la diversa reazione della società civile di fronte ai due casi giudiziari originati dal gioco del calcio con la circostanza che nel primo caso, quello dal quale si sono prese le mosse, la questione interessava soltanto uno sconosciuto giocatore, e che probabilmente era stato lo stesso infortunio che gli era occorso (la frattura di una gamba, appunto), dati i tempi di recupero allora necessari e la durata della vita agonistica di uno sportivo dell’epoca, a rendere quasi irrilevante la sanzione dell’ordinamento sportivo: la fine della carriera di quel giocatore era stata già decretata dai fatti, prima ancora che dal diritto.
Per contro, a prescindere dalla circostanza se fosse vero o falso che dietro il caso Bosman si muovevano rilevanti interessi economici[13] (era all’epoca voce diffusa che dietro quel poco noto giocatore belga, un po’ di serie A, un po’ di serie B, e dietro al lungo e vorticoso contenzioso da lui instaurato, ci fosse l’affaire dell’acquisto, da parte del Milan, interessato a non pagare alcunché alle società sportive di appartenenza, di tre giocatori di ben altro calibro, Davids, Reiziger e Klujvert) nel secondo caso il dictum del giudice europeo, nel momento stesso in cui veniva ad alterare le regole del mercato dei calciatori, veniva a sconvolgere contemporaneamente le regole stesse del gioco del calcio giocato (l’argent fait la guerre, verrebbe da ricordare): significativa in tale prospettiva era la circostanza che l’UEFA dinanzi alla Corte avesse “fatto valere in particolare che le autorità comunitarie hanno sempre rispettato l’autonomia dell’attività sportiva, che è difficilissimo distinguere gli aspetti economici del calcio da quelli sportivi e che una pronuncia della corte sulla situazione degli sportivi professionisti potrebbe rimettere in discussione l’intera organizzazione del gioco del calcio”.
Inoltre, con l’abolizione di quello che avrebbe potuto definirsi il numero chiuso degli stranieri, quanto meno degli stranieri per così dire comunitari, le più potenti e famose squadre di calcio europee si sprovincializzavano sempre di più, venendo a perdere spesso il continuum con le città che le ospitavano, e, contemporaneamente, si internazionalizzavano sempre più i loro fan[14].
IV) Si prendano adesso in esame altri tre casi giudiziari, anch’essi afferenti al gioco del calcio: in tutti e tre tali casi venivano in esame davanti alla Corte di Cassazione contratti di cessioni di calciatori stipulati tra società sportive calcistiche in violazione di norme federali (ad esempio, perché il contratto non era stato depositato presso la competente federazione sportiva) ma non di norme statali (che il predetto deposito non prescrivevano).
Nell’arco di un quarto di secolo il giudice della nomofiliachia se ne è venuto con tre sentenze che sembrano anch’esse delineare lo stesso percorso seguito dai due casi sinora esaminati; nel senso, cioè, che anche in tali tre sentenze si assiste ad un iniziale momento in cui l’ordinamento per così dire maggiore si astiene completamente dall’interferire con l’ordinamento minore (minore perché settoriale o microsettoriale rispetto agli interessi umani, dato che per converso esso è esteso in quasi tutto il globo, sicché il rapporto tra l’ordinamento sportivo, ed in particolare quello relativo al gioco del calcio, e l’ordinamento statale non può porsi in termini di quantità di estensione territoriale) ed ad un successivo inglobamento dell’ordinamento minore in quello maggiore, che nel momento stesso in cui ne riconosce formalmente il valore normativo viene in realtà a fagocitarlo, quanto meno perché si riserva, ogni giudizio in ordine alla sua (corretta o meno) applicazione.
Ma si vedano in particolare i tre casi in questione.
Nel 1978 con una prima sentenza la S.C. ha affermato che “poiché ai termini dell’art. 5 della legge 16 febbraio 1942 n. 426, la potestà normativa attribuita all’ordinamento giuridico sportivo, con efficacia nell’ambito dell’ordinamento giuridico statale, è limitata alla potestà regolamentare nel settore sportivo (secondo quanto si desume dall’art. 5 della legge 16 febbraio 1942 n. 426), la normativa contenuta nei regolamenti delle federazioni sportive – organi del Coni – la quale disciplini rapporti intersoggettivi privati e, in particolare, rapporti negoziali, non ha efficacia anche nell’ambito dell’ordinamento giuridico statale; conseguentemente, nel caso in cui una norma di un regolamento federale sportivo vieti determinate contrattazioni fra società sportive e tesserati, il contratto di diritto privato concluso in violazione del divieto non può essere dichiarato nullo nell’ordinamento giuridico statale, siccome contrario a norma imperativa, poiché la norma imperativa che pone il divieto è efficace solo nell’interno dell’ordinamento giuridico sportivo, nell’ambito del quale potranno essere emanati i previsti provvedimenti sanzionatori da esso previsti” (Cassazione, sezione III civile, sentenza 11 febbraio 1978, n. 625)[15].
Con le due successive sentenze la stessa S.C. ha per così dire, come si accennava, invertito radicalmente la rotta, avendo valutato la validità dei contratti di cessione dei calciatori nell’ordinamento italiano alla stregua delle disposizioni federali; parametrando, in altri termini, i criteri di validità di tali contratti sulle regole di un complesso normativo diverso da quello statuale, e dallo Stato mai recepito formalmente.
Così, i particolare, con sentenza n. 4845 del 28 luglio 1981 la I sez. civile della Cassazione [16] ha affermato che “con riguardo al contratto di cessione di un calciatore, che sia stipulato fra società sportive, l’inosservanza di prescrizioni tassative dettate dal regolamento della Federazione italiana gioco calcio, se non costituisce ragione di nullità per violazione di legge, a norma dell’art. 1418 del c.c., tenuto conto che la potestà regolamentare conferita all’ordinamento sportivo, ai sensi dell’art. 5 della legge 16 febbraio 1942 n. 426, si riferisce all’ambito amministrativo interno e non a quello dei rapporti intersoggettivi privati, determina l’invalidità e l’inoperatività del contratto medesimo, in relazione al disposto dell’art. 1322 del c.c., atteso che esso, ancorché astrattamente lecito per l’ordinamento statuale come negozio atipico (nella specie, prima dell’entrata in vigore del lavoro subordinato), resta in concreto inidoneo a realizzare un interesse meritevole di tutela, non potendo attuare, per la violazione delle suddette regole, alcuna funzione nel campo dell’attività sportiva, riconosciuta dall’ordinamento dello Stato” (Cassazione, sezione I civile, sentenza 28 luglio 1981 n. 4845), mentre con la sentenza 4 novembre 2003 – 23 febbraio 2004 n. 3545 la III^ Sezione civ. ha ribadito che “le violazioni di norme dell’ordinamento sportivo non possono non riflettersi sulla validità di un contratto concluso tra soggetti assoggettati alle regole del detto ordinamento anche per l’ordinamento dello Stato, poiché se esse non ne determinano direttamente la nullità per violazione di norme imperative, incidono necessariamente sulla funzionalità del contratto medesimo, vale a dire sulla sua idoneità a realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Non può, infatti, ritenersi idoneo, sotto il profilo della meritevolezza della tutela dell’interesse perseguito dai contraenti, un contratto posto in essere in frode alle regole dell’ordinamento sportivo, e senza l’osservanza delle prescrizioni formali all’uopo richieste, e, come tale inidoneo ad attuare la sua funzione proprio in quell’ordinamento sportivo nel quale detta funzione deve esplicarsi”).
V) L’estremo tecnicismo giuridico delle questioni trattate e la scarsa, anzi nulla, refluenza sul campionato italiano (o sui campionati italiani) di calcio delle tre sentenze in parola hanno fatto sì che di esse, a differenza di quanto avvenuto per il caso Bosman, di esse poco o nulla si sia parlato nella stampa sportiva: il loro eco, per così dire, non è andato oltre gli addetti ai lavori del mercato calcistico.
Ben diversa, però, è stata l’attenzione che a tali sentenze hanno posto i giuristi, e non soltanto per i sempre più delicati, e sempre appassionanti, problemi relativi alla dommatica del negozio giuridico (sempre che a tale categoria voglia continuare a credersi), o comunque alla dommatica dei contratti, ma, per quanto qui rileva, perché, come si è accennato, esse richiamano, ora per assonanza, ora per dissonanza, ora la vicenda del giocatore espulso negli anni trenta dalla Federazione italiana gioco calcio, ora quella del c.d. caso Bosman: anche in tali sentenze della Cassazione, infatti, come si è detto, si arriva ad una progressiva fagocitazione nell’ordinamento statale di quello sportivo.
In particolare, mentre del tutto analogo sembra l’atteggiamento assunto dall’ordinamento giuridico statale con la sentenza della Cassazione del 1978 rispetto a quello assunto negli ormai lontani anni trenta (in entrambi i casi lo Stato ignora del tutto quanto avviene all’interno dell’ordinamento giuridico sportivo, avendolo lasciato libero, allora, di espellere un giocatore reo soltanto di aver voluto fare valere i suoi - peraltro giusti - diritti innanzi ai Tribunali italiani, e quasi mezzo secolo dopo riconoscendogli esplicitamente il potere di emanare i provvedimenti sanzionatori da esso previsti [17] qualora le società sportive ne abbiano ignorato la normativa in tema di contratti, irrilevante essendo che i contratti da queste conclusi fossero stati perfettamente leciti e validi per l’ordinamento italiano) per contro nelle due successive sentenze si porge un ossequio soltanto formale all’autonomia dell’ordinamento sportivo.
Ed infatti, parametrando, per dirla in breve, i contratti di cessione dei giocatori alle norme emanate dalla FIGC, e non già a quelle dello Stato italiano, in realtà il giudice è diventato giudice proprio dell’ordinamento sportivo, e proprio nel momento stesso in cui egli stesso lo aveva dichiarato diverso da quello dello Stato.
VI) Ancora più recentemente, il caso del Catania Calcio e del Napoli Calcio hanno riproposto il problema dei rapporti tra regole sportive e regole statuali, tra giudici sportivi e giudici statuali: in breve, tra ordinamento giuridico sportivo e ordinamento giuridico statuale.
Nel primo caso, al fine di risolvere comunque un conflitto che appariva ormai insanabile, la FIGC ha preferito fare cessare la materia del contendere innanzi ai giudici statali, modificando il numero delle squadre ammesse al campionato di serie B (e quindi sostanzialmente soggiacendo al dictum del giudice diverso, ma formalmente riaffermando comunque la propria autonomia); nel secondo caso è proprio il caso di dire che la partita si sta, al momento, ancora giocando.
VII) Ma riprendiamo le mosse dal discorso iniziale, quello della libertà dell’ordinamento giuridico sportivo rispetto all’ordinamento statale e rispetto all’ordinamento dell’Unione europea.
È possibile che l’Italia fascista sia stata un paradiso di libertà, mentre quella contemporanea, nonché la stessa Unione europea, sarebbero caratterizzate, al contrario, da uno spirito liberticida, da una insofferente intolleranza a che persino l’innocuo mondo del gioco del calcio possa dettarsi norme proprie, diverse da quelle generali; è mai possibile che l’Italia contemporanea e l’Unione europea non sopportino l’operare nel loro seno di alcun altro ordinamento giuridico, che siano avverse al pluralismo ordinamentale?
L’affermazione sembrerebbe, ed è, paradossale: i casi giudiziari con i quali si è aperto il discorso, insomma, provano troppo.
È quindi necessario mettere un po’ d’ordine su alcuni concetti che sono stati spesso confusi tra di loro, per la loro per così dire contiguità: pluralismo ordinamentale e localismo ordinamentale.
Discorso a sé, poi, meriterebbe quello dell’autonomia privata, del suo collegarsi o meno con la teoria ordinamentale: se essa, in breve, in tanto possa estrinsecarsi in quanto riconosciuta dal diritto statale, o se essa a questo preesista, sì da potere essere configurato comunque quale uno spazio lasciato (quasi dovuto lasciare) ai (suoi) soggetti giuridici.
Ma tale discorso, ovviamente, sfugge ai limiti del presente lavoro: qui, si ripete, si tratta appena di accennare al necessario distinguo tra pluralismo e localismo ordinamentale; distinzione più che mai necessaria anche la fine di chiarire alcuni concetti propri dell’oggi: il principio di supremazia del diritto comunitario rispetto ai diritti degli Stati membri; il principio di sussidiarietà; la pluralità di livelli della protezione dei diritti (la c.d. tutela multilivello dei diritti).
VIII) Tanto la nozione di pluralismo giuridico che quella di localismo giuridico sono pur sempre nozioni relative, poiché entrambe non possono esistere senza un termine di paragone: un ordinamento giuridico altro, nel primo caso; un ordinamento giuridico più ampio, nel secondo caso.
La differenza, da un punto di vista teorico, non è da poco: basterà qui accennare che mentre tra ordinamenti giuridici diversi non esiste, ed anzi non può esistere, alcun rapporto per così dire gerarchico, ben diverso è il rapporto tra ordinamento giuridico generale e ordinamenti locali: i secondi debbono infatti sempre soggiacere al primo, rispetto al quale, quindi, hanno dimensioni e contenuti variabili.
Certamente, sia il comparire nella storia del diritto dello Stato, e la tendenza assolutamente monopolistica del fenomeno giuridico da parte di questo, sia l’insofferenza illuministica per i particolarismi giudici che rispecchiavano spesso ormai insopportabili ineguaglianze sociali, e che comunque si ponevano contro la regola – sentita come esigenza – di una norma razionale, e quindi unica per tutti, ha per molto tempo messo in ombra le differenze tra pluralismo e localismo ordinamentale.
Lo Stato, sia inteso come Principe moderno, che intuisce il valore fondativo che il diritto può avere per la dimensione politica, direbbe oggi Grossi[18], sia inteso quale creazione della nation che dava inizio all’età contemporanea, si poneva con la stessa ferma determinazione contro entrambi i fenomeni, e perché riconduceva tutto il fenomeno giuridico allo Stato, e perché univoco ed uniforme doveva essere il diritto che da esso proveniva.
Il fenomeno della codificazione, si sa, costituisce il culmine di tale disegno e chiaramente lo delinea.
A tacer poi, là dove esiste, del dogma della completezza dell’ordinamento giuridico: un vero e proprio horror vacui, che finisce per negare in radice ogni attività creativa all’interprete, che diventa al massimo un fine esegeta, un mero nuncius, per così dire, del codice stesso, che attraverso lui continua a parlare.
Anche i codici, comunque, non riuscirono a cancellare totalmente i due, si ripete diversi, fenomeni: a mo’ di esempio, nei codici commerciali si ritrovarono gli echi del ius mercatorum, dell’ordinamento giuridico proprio della classe mercantile, mentre attraverso il (timido) richiamo alle consuetudini (gli usi) si conservarono tracce dei localismi giuridici, dei diritti locali [19].
A tacer, poi, del “risalente atteggiamento di tolleranza manifestato dalla legislazione civile verso la configurazione di proprietà immobiliari aventi contenuto differenziato con riferimento al luogo ove è posto l’immobile” ed alla tradizione internazionale privatistica la quale attribuisce in materia di proprietà e di diritti reali immobiliari rilevanza decisiva alla lex rei sitae: “la disciplina differenziata, ratione loci, della proprietà immobiliare appartiene al diritto privato italiano, e non ad esso soltanto, da epoche assai lontane” [20].
Il naturale monadismo degli ordinamenti giuridici, anche se non impedisce parziali aperture o richiami (si pensi al c.d. rimbalzo del diritto internazionale privato [21]), impone che ogni ordinamento giuridico esista di per sé, in sé e per sé, sì che ben possono esistere ordinamenti che non soltanto reciprocamente si ignorano, ma che anzi apertamente si misconoscono (rectius, si misconoscono in quanto tali): già Santi Romano ricordava che “l’ordinamento dello Stato, essendo autonomo, può non riconoscere quelli [gli ordinamenti giuridici] che gli sono indifferenti, e avversare gli altri che gli sono contrari: i primi non saranno per esso giuridici ed i secondi saranno anche antigiuridici, ma ambedue queste qualifiche varranno non per gli ordinamenti medesimi considerati in sé e per sé, ma per la loro efficacia rispetto allo Stato: fuori della propria sfera, il giudizio di quest’ultimo non ha né può avere alcun valore non solo pratico, ma nemmeno logico” [22].
Sennonché mentre tra ordinamenti giuridici diversi non esiste, non può esistere, si ripete, alcun rapporto di tipo per così dire gerarchico, ben diversa è la relazione tra ordinamento giuridico generale e ordinamenti giuridici locali.
Il pluralismo ordinamentale presuppone, in altri termini, che uno stesso soggetto, o meglio, che gli stessi soggetti vengano per così dire incisi contemporaneamente da più ordinamenti giuridici [23], e che siano pertanto regolati, in relazione ad uno stesso comportamento, in ordine ad una stessa fattispecie, da norme, da regole di condotta diverse le une dalle altre, a volte tra di loro addirittura incompatibili, ma che comunque, tranne espliciti richiami (il rimbalzo, per l’appunto) che sanno di eccezione alla regola, si ignorano.
È il caso, si diceva, dell’ordinamento giuridico cavallesco, a volte addirittura confliggente con il diritto penale dello Stato, ma non per questo meno cogente, o del diritto canonico, in momenti di assoluta separazione tra Stato e Chiesa: ogni soggetto giuridico potrà osservarli entrambi o meno, ad libitum (si potrà essere sposati col solo rito civile, o col solo rito religioso, o con entrambi i riti), ovvero sarà costretto a scegliere tra uno di essi, subendone le conseguenze nell’altro (il gentiluomo potrà affrontare il duello ed essere condannato dallo Stato, ovvero rifiutare di battersi, e subire in tal caso la “squalifica”; il cattolico potrà sposarsi soltanto civilmente, ma sarà allora considerato in peccato mortale e pubblico concubino dalla Chiesa).
Il localismo giuridico, viceversa, è caso ben diverso dal pluralismo ordinamentale, poiché ad ogni soggetto corrisponde, di volta in volta, nelle varie fattispecie, un solo ordinamento giuridico, ed è alla stregua di tale ordinamento (solo) che egli deve rapportare e parametrare le sue condotte: la sensazione di un (caotico) pluralismo ordinamentale, quale, ad esempio, lo percepiva Voltaire[24] la si ha soltanto perché il localismo giuridico vive in uno stesso ordinamento politico, nel quale, quindi, per una stessa fattispecie valgono regole di condotta diverse.
È una situazione ben differente dalla prima, quindi, perché tra ordinamento generale e ordinamenti locali non vi è, né vi può essere conflitto alcuno, ben delineati essendo gli spazi di questi ultimi: l’ordinamento generale riguarderà, ad esempio, il diritto di proprietà mentre gli ordinamenti locali riguarderanno il diritto di famiglia, o l’ordinamento generale i diritti reali e gli ordinamenti settoriali il diritto successorio.
Si tratta, in altri termini, di spazi che l’ordinamento giuridico generale lascia, per così dire arretrando, ad ordinamenti giuridici diversi, ad esso normalmente preesistenti.
Se tra pluralismo ordinamentale e localismi ordinamentali è sorta spesso confusione, se cioè le due situazioni sono state spesso confuse, è perché nel passato era regola che il pluralismo ordinamentale convivesse con diritti locali, spesso settoriali: un vero e proprio tripudio e del pluralismo ordinamentale e del localismo giuridico si ebbe nel medioevo, e nella stessa età moderna, dove diritto romano, diritto consuetudinario, diritto feudale, usanze commerciali e diritto canonico era norma che coesistessero, così come coesistevano diversi diritti di famiglia e diversi diritti ereditari [25] nell’ambito di un solo Stato.
Il problema del localismo giuridico è, insomma, più politico che giuridico; tant’è che spesso coincide con il problema del centralismo statale; ci sono momenti nella (della) storia nei quali tale centralismo, lo stesso formarsi di uno Stato accentrato, è auspicato quale segno di progresso e di modernità, mentre, per converso, forme federalistiche o regionalistiche sono difese e portate avanti da forze reazionarie – o comunque di misoneiste – provinciali e culturalmente retrive; altri momenti in cui, quasi come in una partita calcistica dopo il primo tempo di gioco (sempre per rimanere in tema), le idee ed i movimenti politici cambiano campo; e sarà allora che il centralismo statuale ed la sua correlata avversione verso i localismi giuridici apparirà retrivo e passatista, mentre forme di governo che privilegiano, nei vari modi conosciuti, rectius, tipizzati dai giuspubblicisti, le autonomie locali ed i diritti locali rappresenteranno necessari strumenti di modernizzazione, di moralizzazione della vita politica, di libertà tout court.
Sicché, per converso, il giudizio sull’opportunità o meno di localismi giuridici è soltanto un giudizio di valore: se Voltaire soffriva del fatto che “il diritto consuetudinario di Parigi è stato codificato in ventiquattro diversi commentari, ed è a sua volta in contraddizione con centoquaranta consuetudini di altre province, che hanno tutte forza di legge e si contraddicono fra loro”[26], quasi contemporaneamente Montesquieu elevava una voce discorde nel concerto dei difensori dell’unità e dell’uniformazione della legislazione statale, persuaso com’era che le consuetudini fossero mobili e multiformi in quanto espressione della vita stessa, vale a dire della diversità di situazioni geografiche, economiche e sociali, e convinto che fosse necessario di volta in volta stabilire “in quali casi occorra l’uniformità e in quali invece siano necessarie differenze. Se i cittadini obbediscono alle leggi, che importanza ha che seguano la stessa?”; il principio di uniformità, secondo lui, “a volte si impadronisce dei grandi spiriti ma infallibilmente colpisce i piccoli” [27].
E, se si può (o se si deve) trovare bellezza anche nel mondo del diritto, è di una bellezza quasi commovente che proprio Montesquieu, l’autore che dall’ottocento in poi veniva citato all’inizio di quasi ogni manuale di diritto costituzionale come il primo – e il più lucido – teorizzatore, almeno nell’Europa continentale, di quella tripartizione di poteri sulla quale si fondavano gli Stati moderni, lungi dall’essere diventato del tutto inattuale in un’Unione europea che tale tripartizione più non conosce (nonostante il quasi goffo tentativo meramente formalistico in tal senso, com’esso è, della recente sua Costituzione) rinasca, per così dire, quale storico padre anche di tale nuova realtà politica e non soltanto perché tale realtà nasce nel nome, per così dire, del dolce commercio da lui così spesso invocato, quanto anche del suo principio di sussidiarietà, inteso quale rispetto del “diritto al proprio diritto, nel rispetto del diritto”; principio per il quale l’Unione europea, in un continuo sforzo di autolimitazione, non cessa dal chiedersi se i propri obbiettivi non siano perseguibili al livello più ravvicinato possibile rispetto ai suoi destinatari, e, quindi, per quanto qui rileva, al livello dei singoli Paesi membri, sì che soltanto “dopo aver constatato che il livello statuale non è idoneo a fornire efficaci risposte al problema posto, si legittima l’iniziativa al livello comunitario [28].
Principio di sussidiarietà che in tale prospettiva non opera soltanto a livello normativo, dato che “vi sono molte materie nelle quali l’unicità o l’uniformità del diritto non interessa affatto. A quel modo ci saranno, per molti secoli ancora, lingue diverse, le quali ci procurano la gioia di capolavori letterari rispondenti alla creazione di geni diversi, così si hanno e si avranno monumenti giuridici rispondenti al genio di popoli diversi” [29].
Non a caso proprio nella prospettiva della sussidiarietà Mengoni ha trovato un ostacolo all’unificazione in sede U.E. dei codici civili: “ultimo, ma non meno importante motivo contrario alla prospettiva di un codice per l’Europa o, più esattamente, di una codificazione a livello comunitario, che investa tutti i settori rilevanti per il funzionamento del mercato interno, è il principio di sussidiarietà, sancito dall’art. G del trattato di Maastricht e inserito tra i principi fondamentali del trattato istitutivo della Comunità economica europea come criterio di politica del diritto qualificante della nuova, più ampia, Comunità europea. Fuori dai settori di esclusiva competenza della Comunità, l’unificazione del diritto si svilupperà nelle materie e nella misura in cui la corrispondente restrizione di competenza degli Stati membri sarà riconosciuta necessaria o almeno più confacente all’azione di perseguimento degli obiettivi comunitari, ridefiniti nel nuovo art. 2 del trattato di Roma” [30].
IX) Proprio alla luce della distinzione tra pluralismo ordinamentale e localismi giuridici, si diceva, si può meglio cogliere il rapporto tra il diritto europeo e diritto dei Paesi membri; non già un rapporto di separazione, sia pure in regime di coesistenza pacifica, quale si dovrebbe avere se si fosse in presenza di ordinamenti giuridici diversi (rapporto di separazione che pure è stato configurato in passato, ad esempio dalla nostra Corte Costituzionale [31]) bensì un rapporto che è sì di supremazia del primo sui secondi (la c.d. primautè del diritto comunitario) ma che vede anche il primo ben rispettoso dei secondi, e che nei loro confronti volontariamente si autolimita (principio di sussidiarietà).
X) È ora però di tornare alla sentenza Bosman, e di parametrarla alla distinzione sopra delineata.
È la sentenza Bosman rispettosa dell’ordinamento giuridico sportivo [32], quanto meno di quello che riguarda il gioco del calcio?
Ed è essa rispettosa del principio di sussidiarietà?
Alla prima domanda bisogna rispondere che sicuramente non lo è: nel momento stesso in cui impone a chi opera nello sport il rispetto delle sue proprie regole, regole “altre” rispetto a quelle che gli sportivi (rectius, gli enti esponenziali del mondo sportivo) si sono date, ed alle quali la normazione di settore deve soggiacere e quindi conformarsi, l’U.E. si pone in una posizione di assoluta supremazia e viene quindi a considerare la normazione della Federazione sportiva del gioco del calcio, nelle sue varie articolazioni territoriali a sé subordinata [33].
Né ciò può destare scandalo alcuno: l’autonomia ordinamentale presuppone non soltanto la plurisoggettività, l’organizzazione, la normazione, e non soltanto, per ricordare Giannini altresì una normazione sulla plurisoggettività, sulla normazione e sulla organizzazione[34], ma, di necessità, presuppone anche un’autosufficienza ordinamentale, intesa sia quale completa separazione normativa sia quale autodichia: per dirla con Kelsen, deve presentarsi, quanto meno davanti a se stessa e davanti ai suoi componenti, alla sua base cospirativa, quale ordinamento coercitivo avente il monopolio della forza, nel senso non già che debba disconoscere l’esistenza di altri ordinamenti coercitivi, ma che li deve ignorare nel momento in cui si dà le sue regole e, soprattutto, nel momento in cui le fa coattivamente osservare.
In altri termini, le nozioni di ordinamento giuridico non sovrano è una contraddizione in termini: un ordinamento giuridico o è sovrano o non è.
Se un ordinamento giuridico si rivolge ad un altro ordinamento giuridico per fare rispettare la sua normazione, esso non è (più) un ordinamento giuridico; tutt’al più è espressione, si ripete, dell’autonomia privata.
Fintanto che l’ordinamento del gioco del calcio (o di qualunque altro sport, se non si vuole parlare di un unico ordinamento giuridico sportivo) ha ignorato l’ordinamento giuridico statale, ogni ordinamento è andato, per così dire, per la sua via: e così mentre lo Stato puniva il giocatore che aveva prodotto in un’azione di gioco una lesione ad un avversario, la Federazione nazionale espelleva il malcapitato tesserato che si fosse rivolto allo Stato per ottenere un (peraltro più che giustificato) risarcimento del danno subito.
Ma allorché Bosman si è rivolto alla giustizia europea, esisteva più un mondo del calcio separato, in quanto a regole di condotta, in quanto ad effettiva autodichia, da quello dei vari ordinamenti statali?
Non si era piuttosto ormai in presenza di una associazione di soggetti che, sia pure in nome dello sport, operavano nel mercato, avidi nel sollecitare aiuti economici – anche da parte di enti pubblici, almeno in Italia [35] - e comunque più o meno abili nel lucrare, attraverso le leggi del mercato, e attraverso le leggi dello Stato in cui operavano, su magliette, su logos, su spettacoli, su giochi, pronostici, e così via.
È chiaro, a questo punto, che l’autonomia ordinamentale di tale mondo non poteva più essere tirata in ballosol per dettare proprie norme, perché a tale autonomia dell’ordinamento giuridico calcistico avevano già abdicato a favore di vari ordinamenti statuali: la prova del nove era, per così dire, la circostanza che qualora una società non avesse corrisposto il c.d. premio di formazione di cui al caso Bosman, la società calcistica creditrice si sarebbe piuttosto rivolta al giudice nazionale per richiedere il quantum ad essa dovuto, anziché rivolgersi al (solo) giudice sportivo per richiedere sanzioni nei confronti della parte inadempiente, sanzioni che – in mancanza di un potere ad hoc – non avrebbero comunque potuto essere direttamente satisfattive del suo diritto di credito, e che si sarebbero potute esternare soltanto in quelle espulsive[36], per la società, e per il calciatore, inadempiente.
In altri termini, non può non rilevarsi come l’ordinamento giuridico sportivo, specie con riferimento allo sport oggi più popolare e diffuso – il gioco del calcio – si sia, per così dire, suicidato proprio come ordinamento giuridico nel momento stesso in cui, per sfruttare economicamente e la sua popolarità e la sua diffusione,ha preteso di integrarsi nelle istituzioni statali, usufruendo del diritto di queste, chiedendo ad esse aiuti economici e protezione nel proprio commercio.
Un ordinamento giuridico, infatti, in tanto può chiedere e pretendere autonomia rispetto ad altri ordinamenti in quanto, a sua volta, li ignori, non ne subisca l’autorità, non chieda ad essi, ogni qualvolta lo ritenga opportuno, protezione e tutela: in quanto, per dirla in breve, sia disposto a pagare il prezzo della propria libertà e della propria autonomia.
L’ordinamento giuridico cavalleresco sopravvisse fintanto che qualche gentiluomo sfidò sanzioni penali o di stato pur di difendere il proprio onore; perse ogni ragion d’essere, e si dissolse senza che nessuno quasi se ne fosse accorto, non appena i duelli si trasformarono in cerimonie accuratamente incruente, preordinate a banchetti pacificatori, e non appena, per converso, la squalifica da gentiluomo divenne sanzione effettualmente indolore e, quindi, irrilevante per chi la subiva.
Ecco, quindi, come una sentenza a prima vista liberticida e reazionaria, come quella Bosman della Corte, ad una più attenta lettura appaia del tutto coerente con i valori sui quali si fonda l’U.E., appaia, cioè, perfettamente in linea con l’esprit de l’U.E. (ci si consenta il gioco di assonanza), con l’etica di un mercato insofferente di regole dirigistiche: in fondo, l’indennità di formazione in questione altro non era che un “aiuto” imposto dalla Federazione gioco calcio alle società calcistiche più ricche a quelle più povere.
Diverso è il caso in cui un ordinamento giuridico si sviluppi su direttive che semplicemente ignorano regole diverse da quelle che esso stesso si pone.
È questo, anche storicamente, il caso del diritto commerciale: chi vuole operare a determinati livelli nel commercio internazionale deve seguire le regole della business community, regole che ben possono essere diverse, ed addirittura contrastanti, con quelle dettate dai vari ordinamenti giuridici statuali o iperstatuali[37], ed alle quali ultime non può certamente richiamarsi per sottrarsi ai propri impegni, se non a pena di essere collocato in una black list che nessun altro ordinamento giuridico potrà avere la forza di intaccare.
Come sempre avviene, allora, il problema sarà un problema di mera effettualità del reale : coloro che si ancoreranno al loro diritto statuale saranno espulsi dalla societas mercatorum, quanto meno nel senso che non potranno più stipulare determinati contratti, o non potranno più contrattare con determinati soggetti, e, per converso, coloro che di tale societas vorranno (continuare a) far parte dovranno semplicemente ignorare l’esistenza di altri ordinamenti giuridici, compreso quello del loro Stato, o di altri Stati, a loro eventualmente più favorevoli: è il caso del gentiluomo, per così dire, che qui rivive; è l’obbligo di una scelta che si impone, scelta non sempre indolore.
Così l’ordinamento sportivo.
Proprio il grosso affaire economico che stava dietro al caso Bosman era la prova che le federazioni e le società che operavano nel mondo del calcio erano ormai operatori del mercato, che dal mercato - nella specie, dal mercato europeo – cercavano tutela e protezione quali soggetti economici tout court, e non (soltanto) quali operatori sportivi: si pensi alla vendita delle magliette, o alle tante scommesse gravitanti sulle partite di calcio sulle quali gli Stati lucrano, riversando poi una parte del loro guadagno alle federazioni sportive: era pertanto logico che alle leggi tutte di tale mercato esse dovessero sottostare.
Varrebbe da osservare, in altri termini, che se Bosman fosse stato un giocatore di ping pong, forse, non ci sarebbe stato alcun caso Bosman, e non già perché lo sport del ping pong sia ontologicamente diverso dal gioco del calcio, ma soltanto perché non esiste (o comunque non è rilevante) un mercato di giocatori di ping pong, né l’ordinamento di settore opera comunque in maniera significativa sul mercato: Forrest Gump docet.
E, per finire, veniamo alla seconda domanda che ci si è posti: ignora la sentenza Bosman il principio di sussidiarietà?
Non sembra proprio; che anzi riconosce esplicitamente [38] che i regolamenti della Federazione internazionale di settore ben possano riservare “la partecipazione alle gare internazionali … alle società che hanno ottenuto determinati risultati sportivi nel loro rispettivo paese, senza che la cittadinanza dei loro calciatori investa un ruolo particolare”, e che per converso che le squadre nazionali “devono essere composte di cittadini del paese interessato” che “non devono essere necessariamente qualificati per le loro società di tale paese” e che “ai sensi dei regolamenti delle associazioni sportive, le società che hanno alle loro dipendenze calciatori stranieri sono tenute a permettere loro di partecipare a determinati incontri nella fila della nazionale del loro paese”.
L’esplicito richiamo ai “regolamenti sportivi” sembra chiaro indice del rispetto del principio di sussidiarietà: ognuno, nell’U.E., ha diritto al proprio diritto, purché non intacchi il diritto dell’Unione stessa, del quale, anzi, deve rispettare la primazia.
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* Il presente lavoro costituisce una elaborazione della lezione tenuta il 17 aprile 2002 per il ciclo di seminari su “lavoro, lavori, eguaglianza” organizzato dalla cattedra di diritto del lavoro e di diritto costituzionale dell’Università degli Studi di Parma, in corso di pubblicazione a cura di tale cattedra.
Esso inoltre, fa parte degli scritti del convegno “Profili di attualità nelle attribuzioni della Corte dei Conti” - giornata di studio in memoria di Francesco Rapisarda – Palermo 11 dicembre 2004, a cura dell’Associazione Magistrati della Corte dei Conti.
[1] (G. Gentile, Dopo la vittoria, Roma 1920, 162 ss.).
[2] CESARINI SFORZA, la Teoria degli ordinamenti giuridici e l’ordinamento sportivo, in Foro it., 1933, I, 1381. “Lo Stato ed i sudditi furono concepiti, un tempo, come parti in un rapporto contrattuale, da cui sgorgava la legge, il diritto oggettivo: ciò nel presupposto che Dio soltanto potesse obbligare gli uomini con la sua volontà onnipotente, mentre nella società umana, i cui membri sono tutti uguali, l’obbligazione politica sarebbe sorta solo mediante contratto. Il contratto sembra essere l’unica fonte di obbligazione del privato verso il privato – l’uno eguale all’altro – salvo l’intervento dello Stato come autorità superiore ad entrambi”.
3 CESARINI SFORZA, op. ult. cit., 1398.
[4] M.S. GIANNINI, in Riv. dir. sportivo 1949, 16 e 17. “L’ordinamento giuridico sportivo si è formato in tempi recenti; in questo secolo …. comunque l’attività sportiva in senso proprio si introduce nelle società moderne solo nello scorso secolo, e solo verso la fine assume dimensioni ragguardevoli. L’occasione che fece sorgere l’ordinamento sportivo va però ravvisata nelle competizioni internazionali, ed in particolare nell’istituzione dei Giochi olimpici”.
[5] CESARINI SFORZA, op. loc. ult. cit..
[6] Illuminanti le pagine di PIERO CALAMANDREI, Regole cavalleresche e processo, in Opere giuridiche, Napoli 1965, vol. I, 227.
[7] Contro il decreto di rimozione del grado e dell’impiego l’ufficiale aveva infatti fatto ricorso al Consiglio di Stato, sostenendo per l’appunto che il consiglio di disciplina aveva malamente applicato le regole cavalleresche, le quali, date le speciali circostanze in cui l’episodio si era svolto, gli imponevano di non sfidare l’aggressore, essendosi questo comportato da volgare malfattore, e prospettando l’inesatta applicazione delle regole cavalleresche da parte del consiglio di disciplina e, quindi, della P.A., che a tale parere si era conformata. La IV Sezione del Consiglio di Stato, con decisione 30 novembre 1928 – 18 gennaio 1929, n. 23, rigettava il ricorso con la motivazione che le regole cavalleresche erano state, nella specie, bene applicate; più precisamente la IV Sezione stabilì che la violazione delle regole cavalleresche avrebbe potuto in certi casi esser motivo sufficiente per annullare un provvedimento amministrativo, ma esclusivamente sotto il profilo dell’eccesso di potere per illogicità: “osserva il Collegio – si legge a questo proposito nella decisione – che, a parte una tal quale esagerazione, che potrebbe rinvenirsi nella equiparazione alle norme giuridiche delle c.d. leggi cavalleresche, che sono piuttosto semplici regole di comportamento sociale fra certe determinate classi della Nazione, mentre neppure le leggi della morale possono, in sé e per sé, equipararsi a norme giuridiche vere e proprie, e dalle norme giuridiche si distinguono, pur dovendosi riconoscere che, volendo stare nella sfera dei doveri degli impiegati in genere e degli ufficiali in particolare, il dipendente dello Stato che infranga certe regole della morale o dell’onore sia passibile di sanzione disciplinare, - è certo che costituirebbe eccesso di potere un provvedimento disciplinare che si fondasse sul comportamento dell’ufficiale violante una data regola cavalleresca, qualora il fatto o i fatti ritenuti dal provvedimento o dal parere del consiglio di disciplina, che ne è base, fossero incontrastabilmente tali da non rientrare nella violazione di regole cavalleresche. In tal caso l’eccesso di potere si verificherebbe sotto l’aspetto particolare della illogicità del provvedimento e degli atti che ne furono la base e la determinante”.
[8] Il matrimonio civile precedeva quello religioso per evitare casi di bigamia: proprio per tale motivo il codice penale francese del 1806, agli artt. 199 e 20 poneva sanzioni penali a carico del parroco e degli sposi qualora il matrimonio religioso avesse preceduto quello civile.
[9] Il T.U. delle Leggi sul matrimonio degli ufficiali approvato con R.D. 9 febbraio 1928 n. 371 disponeva, all’art. 2, la dispenza dal servizio permanente per l’ufficiale che avesse contratto matrimonio senza il “regio assentimento” o avesse contratto “unione matrimoniale con il solo rito religioso”. Cfr. Sul punto Mario Falco, Corso di Diritto ecclesiastico, Padova 1938, 149.
10 In Foro it. 1996, IV, 1.
[11] “Una volta pronunciata la sentenza, nel mondo del calcio se non è scoppiata quasi una rivoluzione, si è diffuso un autentico panico: chi non poteva non sapere, si è dichiarato sconcertato e sgomento, ha paventato scenari apocalittici e annunciato la morte dello sport o almeno del calcio; si sono mobilitati governi e federazioni sportive; si sono organizzate riunioni su riunioni, nazionali, europee e mondiali, alla disperata ricerca di una via di uscita, in particolare cercando pretesti per aggirare la sentenza o almeno per limitarne la portata”. ANTONIO TIZZANO – MANFREDI DE VITA, Qualche considerazione sul caso Bosman, in Riv. di diritto sportivo 1996, 416.
12 PIPPO RUSSO, I megalomani italiani non li ha creati Bosman, in Internet,www.Indiscreto.it.
13 Non a caso nel giudizio innanzi alla Corte di giustizia sia l’UEFA che l’URBSFA avevano sostenuto “che le cause a quibus costituiscono un artificio procedurale diretto ad ottenere che la Corte si pronunci in via pregiudiziale su questioni obiettivamente irrilevanti per la decisione della controversia” dato che “l’interpretazione del diritto comunitario chiesta dal giudice nazionale non avrebbe alcun rapporto con gli aspetti concreti o con l’oggetto delle cause a quibus”: si sarebbe trattato, in altri termini, a detta delle due associazioni, di un giudizio diretto a creare un leader-case al fine di sconvolgere le regole (economiche) del gioco del calcio piuttosto che a risolvere questioni concrete di giustizia.
[14] Sarebbe interessante, a questo proposito, conoscere, almeno nel mercato italiano, quanto il gioco-scommesse abbia ad oggetto partite giocate al di fuori dei campionati italiani.
[16] in
[18] Paolo GROSSI, Prima lezione di diritto, Bari 2003, 57.
[19] Potrebbe essere forse interessante distinguere gli usi locali dagli usi commerciali, (1340 cod. civ.) tracce, questi ultimi, del ius mercatorum.
[20] Paolo Vitucci, Proprietà e obbligazioni: il catalogo delle fonti dall’Europa al diritto privato regionale in Europa e diritto privato, 2002, 754. Sul punto, dello stesso A. cfr. anche Il diritto privato e la competenza legislativa delle Regioni in alcune sentenze della Corte Costituzionale in Giur. It. 1998, 1301 ss..
[21] “Si deve ancora avvertire che, ai fini del sistema, un ordinamento può riferirsi a norme di un altro ordinamento, completando così il proprio sistema. Questa evidenza è tutt’altro che rara, ma con essa siamo già in un ordine di questioni completamente diverso: quello dei rapporti tra ordinamenti”.GIANNINI, Gli elementi degli ordinamenti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl. 1958,
[22] Santi Romano, Corso di diritto costituzionale, Padova 1933, 48.
[23]“La compresenza dei gruppi comporta per il soggetto appartenente a più gruppi la vigenza simultanea di ordini normativi diversi; nel caso di conflitto di questi il soggetto è posto nella condizione di chi deve optare per l’ottemperanza alla normazione di uno dei due gruppi; se poi i due gruppi hanno un ente esponenziale, dotato di una forza, il conflitto tra ordini normativi può diventare direttamente conflitto tra gli enti: Stati e Stati, Stati e unioni superstatali, Stati e associazioni professionali, associazioni professionali e partiti politici, e così via, erano e sono ancora gli esempi più evidenti di gruppi i cui enti sono in possibile conflitto”. GIANNINI, Gli elementi degli ordinamenti giuridici cit., 222.
[24] Illuminanti sono, a tale proposito, le parole che Voltaire mette in bocca all’ideale viaggiatore venuto dall’India (quasi uno stereotipo settecentesco quello del venire da terre lontane, si pensi a Montesquieu ed al suo Esprit des lois, che consentiva a chi scriveva di meglio cogliere, quasi con occhio espressionista, le deformazioni della realtà, ma verrebbe da dire la deformata realtà, nella quale era immerso) alla voce Des lois del suo Dizionario filosofico: “Il giorno seguente il mio processo fu giudicato in una Camera del Parlamento, Ed io persi a pieni voti. Il mio avvocato invece mi disse che invece avrei vinto a pieni voti in un’altra Camera. … Abbiamo, continuò, a quindici leghe da Parigi, una provincia che si chiama Normandia, dove sareste stato giudicato in tutt’altro modo”.
Il che, ovviamente, fece venire voglia al curioso osservatore di visitare la Normandia, dove però si accorse con stupore che in materia ereditaria vigeva, a differenza che a Parigi, ancora la legge salica: “qui la legge dà tutto al primogenito e non lascia nulla ai cadetti”, si lamenta appunto con astio verso il fratello maggiore un cadetto, rivolgendosi allo stupito interlocutore che, invece, era in compagnia proprio dell’amato fratello maggiore, col quale viveva benissimo insieme.
E, aggiunge sempre Voltaire “il diritto consuetudinario di Parigi è stato codificato in ventiquattro diversi commentari, ed è a sua volta in contraddizione con centoquaranta consuetudini di altre province, che hanno tutte forza di legge e si contraddicono fra loro: ne risulta che in un solo paese d’Europa, tra le Alpi e i Pirenei, convivono più di centoquaranta popolazioni che si chiamano tra di loro “compatriote”, e si trovano in realtà per forza di legge estranee le une alle altre, come il Tonchino e la Cocincina. Lo stesso accade nelle province di Spagna. Non parliamo poi della Germania, dove nessuno sa quali sono i diritti dei capi, né dei singoli Stati, e gli abitanti delle rive dell’Elba si stimano d’una stessa nazione di quelli della Baviera soltanto perché parlano la stessa lingua; che non è neppure molto bella. …. Mille signori feudali unirono le loro consuetudini al diritto canonico, e ne risultò una mostruosa giurisprudenza di cui restano ancora tante vestigia. Tanto da far pensare che forse sarebbe stato meglio non avere leggi, piuttosto che averne di tal genere.” VOLTAIRE, Dizionario filosofico, voce Des lois.
[25] In Francia, all’epoca della grande rivoluzione, ad esempio se nel grand Ouest o nella Champagne vigeva l’usanza di favorire l’uguaglianza successoria detta “perfetta”, nelle regioni attorno a Parigi, in Fiandra o in un’altra zona della Champagne si praticava l’uguaglianza a esclusione dei figli che godessero di una dote;altrove, nell’insieme delle zone che si rifacevano al diritto scritto, dalla Saintonge alla Bresse passando per il Limousin, il sud dell’Alvernia e il Lionese, come pure nelle regioni di consuetudine relativa a un préciput (nel diritto francese, privilegio concesso a uno dei coniugi o a un erede di prelevare, in determinate circostanze, una somma o beni da una cassa comune), cioè nell’Alvernia, nell’Artois, in Lorena, nella Bougogne o nel Nivernese, vigeva la tendenza a “fare un erede” privilegiato e ad assicurare la successione e la trasmissione del patrimonio, giocando sulla disparità dei diritti degli eredi maschili e femminili. È questo il caso di diritti locali. Per converso il diritto feudale conviveva con il diritto comune e con il diritto canonico: è questo un caso di pluralismo ordinamentale.
[26] VOLTAIRE, Dizionario filosofico, voce Des lois.
[27] KEITH MICHAEL BAKER, Costituzione, in FRANCOIS FURET – MONA 020UF, Dizionario critico della Rivoluzione Francese, Milano 1988.
[28] Vincenzo Roppo, Sul diritto europeo dei contratti: per un approccio costruttivamente critico, in ………………..
[29] Filippo Vassalli, Esame di coscienza di un giurista europeo, in Studi in onore di Leopoldo Elia, Milano, 1999, III, 2, 772.
[30] L’Europa dei codici o un codice per l’Europa, cit., 13.
[31] ………….
32 “È convincimento diffuso tra i giuristi italiani odierni che il complesso mondo degli sportivi costituisca un ordinamento giuridico” che cioè “costituisca un corpo sociale, avente propria esistenza in un insieme organizzato di norme, di meccanismi e ingranaggi, di collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme” GIANNINI, Prime osservazioni sugli ordinamenti giuridici sportivi, pag. 10.
[33] “Come i seguaci di Kelsen sono giunti a trovare la norma giuridica, quale norma positiva, nel più modesto atto, anche non negoziale, di un privato, così si rischia di giungere a trovare ordinamenti giuridici ad ogni angolo di strada; sarebbero per fare dei casi, ordinamenti giuridici la comunità occasionale dei passeggeri di un battello, o quella dei partecipanti ad una riunione di rock and roll, sol perché le esigenze tecniche del mezzo o la specie particolare dello svago impongono l’osservanza di regole che non sono certamente seguite dalle persone che si trovano in situazioni non così particolari. Del resto ciò non è mera fantasia, perché si sono spiegati in termini di ordinamenti giuridici taluni rapporti tra due persone: senza così avvertire che accettando le premesse di questo risultato dovrebbe fissarsi un ordinamento giuridico in ogni madre col suo bambino o in ogni coppia di innamorati: né ciò dovrebbe far sorridere, ove si consideri, sulla scorta degli studi psicologici, che ogni rapporto educativo è un unicum, e che ogni corrispondenza amorosa è diversa dall’altra. Tutto ciò è talmente stravagante che non può neppur dirsi più grottesco” GIANNINI, Gli ordinamenti giuridici cit., 221.
[34]“Se normazione e organizzazione si pongono come elementi caratterizzatori dell’ordinamento, in ogni ordinamento devono esistere necessariamente i seguenti nessi strutturali: una normazione sulla plurisoggettività, una normazione sulla normazione, una normazione sull’organizzazione, e, insieme, un’organizzazione della plurisoggettività, un’organizzazione della normazione e un’organizzazione dell’organizzazione” GIANNINI, Gli ordinamenti giuridici cit., 240.
[35] Si pensi che la Provincia regionale di Palermo concede ogni anno cospicui sussidi alla locale squadra calcistica; in particolare, risulta aver concesso quattrocentomila euro per l’anno 2004. Con buona pace, del rispetto delle regole del mercato, regole che nessuno, peraltro, ha interesse ad invocare, data la pervasività del fenomeno delle sponsorizzazioni, che fa tutti contenti.
[36] M.S. GIANNINI, Prime osservazioni sugli ordinamenti giuridici sportivi, cit. 26 e 27. “Se in ipotesi, vi fossero norme degli ordinamenti sportivi le quali comminassero una pena detentiva per un’atleta, o stabilissero un procedimento di espropriazione forzata di un bene, queste norme sarebbero paralizzate nella loro efficacia dalle norme degli ordinamenti statali, le quali escludono l’applicabilità di qualsiasi norma di egual contenuto che non promani dallo Stato”.
[37] Contra, L. Mengoni, L’Europa dei codici, cit., 10. Secondo il quale “la natura di diritto oggettivo, che da qualche parte si vorrebbe riconoscere alla lex mercatoria, è difficilmente sostenibile”.
[38] In Foro amministrativo cit., 30.