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CALOGERO ADAMO
(Presidente di Sez. del TAR Sicilia-Palermo)
Giudizio di ottemperanza delle sentenze non passate in giudicato
(relazione al convegno
su Il processo
amministrativo dopo la riforma,
Palermo, 23 settembre 2000)
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1. - La legge 21 luglio 2000, n. 205, sotto il titolo generico di "Disposizioni in materia di giustizia amministrativa", costituisce in realtà, a poco meno di trent'anni dalla istituzione dei Tribunali amministrativi regionali (legge 6 dicembre 1974, n. 1034), il primo intervento legislativo organico sul processo amministrativo, mediante un complesso di norme volte in primo luogo ad incidere sui profili rivelati più bisognosi di aggiustamenti, sì da rendere più effettiva (almeno, nelle intenzioni) la tutela del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione.
Tra le norme che rilevano sotto quest'ultimo profilo è quella dell'art. 10, concernente l'esecuzione delle sentenze dei Tar non ancora passate in giudicato. Sentenze, ovviamente, di accoglimento dei ricorsi avverso atti o comportamenti della P.A., dato che per le sentenze di rigetto - dalle quali, perciò, resta in sostanza confermato l'operato di quest'ultima -, non si pone, evidentemente, alcun problema di esecuzione o di ottemperanza da parte della stessa.
2. - Costituisce principio cardine del nostro ordinamento, com'è ben noto, quello per cui il giudice ordinario, allorché riconosca che un provvedimento della P.A. è lesivo di una posizione di diritto, deve di regola limitarsi a "disapplicarlo" in ordine al caso concreto, senza però poterlo annullare.
A fronte di tale limite sta l'obbligo dell'Amministrazione di conformarsi al giudicato "in quanto riguarda il caso deciso".
A dare concretezza a quest'obbligo è volto specificamente il giudizio di ottemperanza, previsto dall'art. 27, n. 4, del T.U. sul Consiglio di Stato (R.D. 26 giugno 1924, n. 1454), che attribuisce al giudice amministrativo una speciale giurisdizione di merito in ordine ai "ricorsi diretti ad ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato del tribunale che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico".
Il giudizio di ottemperanza, originariamente introdotto solo per ottenere l'adempimento da parte della P.A. dell'obbligo di conformarsi ai giudicati del giudice ordinario, è stato esteso dalla giurisprudenza pretoria del Consiglio di Stato anche ai giudicati dei giudici amministrativi (nonché degli altri giudici diversi dal giudice ordinario). E tale estensione ha avuto formale riconoscimento a livello legislativo con l'art. 37, terzo e quarto comma, della legge sui Tar.
La stessa legge, peraltro, ha fatto sorgere - o, comunque, ha evidenziato - un altro problema in certo modo connesso: quella della esecuzione delle sentenze del Tar non coperte da giudicato.
E' questo, per vero, un problema non esclusivo del processo amministrativo, e variamente risolto dal legislatore. Così, ad esempio, per le sentenze civili di primo grado, l'art. 282 c.p.c. ne prevedeva originariamente l'esecutività solo in via eccezionale (in quanto la sentenza appellabile poteva essere dichiarata provvisoriamente esecutiva su istanza di parte, con provvedimento del giudice); ora, viceversa, lo stesso art. 282, nel testo novellato, ne dispone l'esecutività in via generale ("La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti ", salvo il potere del giudice d'appello di sospenderla su istanza di parte - art. 283 c.p.c.).
La legge n. 1034/1971 ha previsto all'art. 33 che le sentenze dei Tar "sono esecutive" (primo comma), e che l'appello "non sospende l'esecuzione della sentenza impugnata" (secondo comma), salvo il potere del Consiglio di Stato (e, in Sicilia, del Consiglio di giustizia amministrativa), su istanza di parte, di sospenderne l'esecuzione, con ordinanza motivata, qualora ne possa derivare un danno grave e irreparabile (terzo comma).
In un momento, quindi, in cui nel processo civile vigeva ancora la regola della non esecutività delle sentenze di primo grado, la legge sui Tar ha sancito il principio opposto.
In realtà, tale principio è risultato, nella pratica, di problematica applicazione. Ciò si connette, essenzialmente, alla differenza di fondo tra la sentenza del giudice ordinario e quella del giudice amministrativo: perché mentre la prima reca di regola delle statuizioni ben precise in ordine al rapporto controverso, sicché si presta direttamente ad essere eseguita, viceversa, la sentenza di accoglimento del giudice amministrativo - a parte il caso delle sentenze c.d. autoesecutive - comporta, oltre all'effetto costituito dall'annullamento dell'atto impugnato, anche e soprattutto un effetto conformativo, che rileva ai fini dell'attività che l'Amministrazione deve porre in essere perché possa determinarsi quell'assetto di interessi, in vista del quale il ricorrente vittorioso ha agito in giudizio: così, ad esempio, annullato un diniego di concessione edilizia, ciò che veramente rileva, per il ricorrente, è di potere ottenere la concessione richiesta; o che, annullata la graduatoria di un pubblico concorso, questa venga riformulata si da comportare la nomina del ricorrente stesso in luogo del concorrente illegittimamente nominato, e così via.
E questa attività è dalla legge riservata all'Amministrazione, dato che, ai sensi dell'art. 88 del regolamento di procedura del 1907 (applicabile anche per le sentenze dei Tar, in forza dell'art. 19 della legge 1034/71), "l'esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa, eccetto che per la parte relativa alle spese" (e in questa eccezione rientrano ora anche le sentenze dei Tar per la parte in cui, nelle materie di giurisdizione esclusiva, recano la condanna della P.A. al pagamento di somme di cui risulti debitrice: art. 26, terzo comma, L. 1034/1971).
Di qui la necessità di uno strumento che consenta all'interessato di costringere l'Amministrazione ad adempiere nei casi (purtroppo non infrequenti) in cui questa non si conformi alla pronuncia giudiziale, o l'esegua solo apparentemente di fatto eludendola, o l'esegua in modo inesatto o incompleto.
A questo, appunto, serve il giudizio di ottemperanza: la cui essenza consiste in ciò, che il giudice amministrativo, adito dal ricorrente vittorioso, può, nell'esercizio della giurisdizione di merito, sostituirsi all'Amministrazione inadempiente nel porre in essere, direttamente o (come di regola) a mezzo di un apposito commissario ad acta, l'attività che avrebbe dovuto essere svolta dall'Amministrazione.
S'è visto, però, che la legge prevede tale rimedio solo in funzione del "giudicato'".
Anteriormente all'istituzione dei Tar, il Consiglio di Stato aveva ritenuto proponibile il giudizio di ottemperanza in ordine ad una sentenza impugnata, sul rilievo che, riferendosi la fattispecie legale dell'art. 27, n. 4, T.U. 1054/1924 al giudicato del giudice ordinario, non potessero estendersi all'ottemperanza delle decisioni del giudice amministrativo i criteri di cui all'art. 324 c.p.c. sul giudicato formale Cons. St., Ad. plen., 21 marzo 1969, n. 10).
A seguito, peraltro, dell'entrata in vigore della legge sui Tar - il cui art. 37, come s'è visto, fa riferimento al "giudicato" -, mutava orientamento, rilevando che "l'ambito di esecutività delle decisioni, in primo grado o in appello, non coincide con quello del giudizio di ottemperanza, potendo quest'ultimo condurre all'inserimento della determinazione concreta del giudice amministrativo nel contesto amministrativo, ond'è che la sua esperibilità è subordinata al massimo grado di certezza", e conseguentemente escludeva l'esperibilità del ricorso di ottemperanza per le decisioni non passate in giudicato a norma dell'art. 324 c.p.c. (Cons. St., Ad. plen., 23 marzo 1979, n. 12 e 1 aprile 1980, n. 10).
E a tale orientamento si è generalmente uniformata la giurisprudenza successiva, che, da ultimo, ha avuto anche l'avallo della Corte Costituzionale: la quale, con la sentenza n. 406 del 1998, ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità dell'art. 37 L. 1034/1971 con riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., ritenendo non irragionevole la scelta legislativa di porre, come presupposto di esperibilità del ricorso di ottemperanza, l'esistenza della cosa giudicata.
E pertanto, fino all'entrata in vigore della legge 205/2000, nonostante le sentenze dei Tar fossero per legge immediatamente esecutive (ove non sospese dal giudice d'appello), tuttavia tale esecutività ha rilevato più che altro solo "in negativo": nel senso, cioè, di fare venir meno le limitazioni e gli obblighi derivanti al ricorrente dall'atto annullato, e, per altro verso, della preclusione per l'Amministrazione di emanare atti basati su quello annullato; nonchè, in caso di adempimento da parte di quest'ultima, della inconfigurabilità di tale adempimento quale acquiescenza.
Per vero, pur in questo contesto non sono mancate significative aperture della giurisprudenza nel senso di una maggiore e più effettiva tutela del ricorrente vittorioso. L'avvio si è avuto in tema di tutela cautelare, con la decisione dell'Adunanza plenaria 27 aprile 1982, n. 6, che, pur escludendo l'esperibilità del giudizio di ottemperanza, basato sul diverso presupposto di una sentenza passata in giudicato, ha tuttavia ammesso la possibilità di ricorrere allo stesso giudice che ha in precedenza emesso il provvedimento cautelare, al fine di ottenere provvedimenti atti a garantirne l'effettività.
Questo orientamento ha trovato larga applicazione nella successiva giurisprudenza, dando luogo ad una prassi generalmente seguita in sede cautelare, ed è stato ora codificato dall'art. 3 della legge 205/2000: che, nel modificare l'art. 21 della legge sui Tar, ha previsto tra l'altro, che, nel caso in cui l'Amministrazione non abbia prestato ottemperanza alle misure cautelari concesse, o vi abbia adempiuto solo parzialmente, la parte interessata può, con istanza motivata e notificata alle altre parti, chiedere al giudice "le opportune disposizioni attuative'"; e in tal caso il TAR (o il giudice d'appello) "esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato..., e dispone l'esecuzione dell'ordinanza cautelare indicandone le modalità e, ove occorra, il soggetto che deve provvedere".
Lo stesso, in sostanza, è avvenuto, in tempi più recenti, anche per quanto attiene alle sentenze.
Da ultimo, infatti, il Consiglio di Stato, muovendo dalla premessa che l'esecutività della sentenza di primo grado si concreta nell'idoneità a spiegare i suoi effetti nello spazio intertemporale intercorrente fino al passaggio in giudicato, e che pertanto ne consegue l'obbligo per l'Amministrazione soccombente di assicurare, nelle more, l'effettività della situazione giuridica del ricorrente come definita dalla pronuncia giudiziale, ha affermato che "in tal caso, per realizzare concretamente l'esecutività del precetto giudiziale, laddove la pronuncia del giudice non sia di per se stessa sufficiente a garantire l'effettività della tutela dell'interesse fatto valere dal ricorrente, ovvero l'amministrazione ne rifiuti o eluda l'esecuzione, spetta al medesimo giudice, che ha emesso la pronuncia, assicurare medio tempore l'esecuzione.
A tal fine, l'interessato può adire nuovamente il giudice di primo grado, non per l'esecuzione del giudicato, ma per ottenere provvedimenti ritenuti idonei per assicurare l'esecuzione interinale della sentenza" (Cons. St., IV, ord.za 3 marzo 1999, n. 767).
E in tal senso ha ora disposto, codificando tale orientamento giurisprudenziale, l'art. 10, primo comma, della legge 205/2000, mediante l'aggiunta all'art. 33 della legge sui Tar del seguente comma: "Per l'esecuzione delle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato il tribunale amministrativo regionale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato di cui all'art. 27, primo comma, n. 4), del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con R.D. 26 giugno 1924, n. 1154, e successive modificazioni". Non è, formalmente, il giudizio di ottemperanza, ma di questo ha la sostanza.
3. - Trattandosi di norma del tutto nuova nel contesto della disciplina del processo amministrativo, in questa primissima fase di applicazione si possono solo indicare delle possibili soluzioni in ordine alla varie questioni che essa pone.
3.1. - Ambito di applicazione.
Posto che la norma ha riguardo alle sentenze (dei Tar) "non sospese dal Consiglio di Stato"; e che, ai sensi dell'art. 33, terzo comma, della legge l 034/ 1971, la sospensione della esecutività delle sentenze dei Tar può essere disposta, su istanza di parte, dal Consiglio di Stato (e, in Sicilia, del C.G.A.), adito con ricorso in appello; ne discende che, ove sia già decorso il termine di volta in volta applicabile per la proposizione dell'appello, senza che questo sia stato proposto - sicchè la sentenza sia ormai passata in giudicato -, si versa al di fuori della previsione dell'art. 10 cit., essendo in tal caso direttamente esperibile il ricorso per ottemperanza.
L'ambito di applicazione ne resta pertanto delimitato, essenzialmente, alle sentenze di Tar che siano state appellate, ma la cui esecutività non sia stata sospesa da parte del giudice d'appello, o perchè non sia stata avanzata dall'appellante istanza in tal senso o perché questa sia stata respinta.
Si pone poi il problema se vi rientrino anche le sentenze dei Tar la cui esecutività non sia in atto sospesa, ma relativamente alle quali sia ancora in corso il termine per la proposizione dell'appello, ovvero questo sia stato già proposto e sia stata avanzata istanza di sospensione, ma su quest'ultima non sia ancora intervenuta la relativa decisione.
Nel senso di una interpretazione restrittiva, che cioè ritenga applicabile la norma solo in ordine alle sentenze già appellate, potrebbe deporre l'elemento sistematico, risultante dalla collocazione della nuova norma, nel testo dell'art. 33 della legge 103411971, di seguito a quelle dello stesso articolo che prevedono, rispettivamente, la possibilità di sospensione della esecuzione delle sentenze dei Tar (terzo comma), e che sulle istanze in tal senso il giudice d'appello provvede nella sua prima udienza successiva al deposito del ricorso (quarto comma); sicché la previsione del nuovo ultimo comma, circa l'esecuzione delle "sentenze non sospese", potrebbe sembrare riferita (solo) alle sentenze, appunto, per le quali sia stata chiesta la sospensione dell'esecuzione, e questa non sia stata accordata dal giudice d'appello.
In senso contrario rileva, peraltro, il fatto che la norma ha riguardo, per assicurarne l'esecuzione nelle more del passaggio in giudicato, alle "sentenze non sospese". E tali sono, oggettivamente, anche quelle per le quali non sia stata adottata dal giudice d'appello una pronuncia di sospensione dell'esecuzione, ancorché una siffatta pronuncia possa ancora intervenire.
Allo stato sembrerebbe preferibile tale seconda interpretazione, che appare più aderente alla ratio della norma, ove vada individuata nell'esigenza di assicurare il massimo di effettività alle sentenze del giudice amministrativo, seppure ancora non passate in giudicate.
Non va trascurato, certo, che il ricorrente vittorioso potrebbe avere interesse a prolungare tale situazione di pendenza, a tal fine omettendo di notificare la sentenza (per fruire del cal. termine lungo d'appello) e al contempo chiedendo l'esecuzione della sentenza. Ma a tale inconveniente potrebbero ovviare le altre parti del giudizio, con la tempestiva proposizione dell'appello (e l'eventuale richiesta, in quella sede, della sospensione dell'esecuzione della sentenza).
3.2. - Presupposti.
A differenza dell'art. 3, che individua le situazioni che legittimano il nuovo ricorso al giudice per ottenere l'attuazione delle misure cautelari ("nel caso in cui l'amministrazione non abbia prestato ottemperanza alle misure cautelari concesse, o vi abbia adempiuto solo parzialmente... "), l'art. 10 nulla dice, sul punto, a proposito delle sentenze, limitandosi ad individuare i poteri che possono essere esercitati dal Tar (quelli "inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato... "). E' da ritenere, pertanto, che, in linea di principio, il giudice possa essere adito ogniqualvolta si verifichi una delle situazioni, in presenza delle quali la giurisprudenza ritiene ammissibile il giudizio di ottemperanza: in pratica, in tutti i casi in cui l'Amministrazione soccombente rifiuti l'esecuzione del giudicato, o vi dia esecuzione incompleta o inesatta, o tenga un comportamento elusivo.
Ovviamente, deve comunque sussistere il presupposto che la sentenza da eseguire renda effettivamente necessaria una attività ulteriore della P.A. affinché il ricorrente vittorioso possa conseguire, sia pure interinalmente, il bene della vita, per ottenere il quale aveva agito in giudizio. E ciò va valutato in relazione allo specifico oggetto del giudizio medesimo: restando, perciò, escluso il ricorso al giudice, ai sensi della norma in questione, relativamente alle sentenze autoesecutive, dato che in tal caso non c'è nulla da eseguire, una volta. annullato direttamente dal giudice l'atto impugnato, lesivo dell'interesse del ricorrente (così, ad es., in caso di annullamento di un provvedimento negativo di controllo, o di un'ordinanza di occupazione d'urgenza a suo tempo non eseguita perché sospesa dal giudice).
3.3. - Procedimento.
Come s'è visto, la nuova norma attribuisce al giudice, chiamato a dare esecuzione alla sentenza, "i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato", ma non richiama le norme sul relativo procedimento.
Sembra doversi ritenere, pertanto:
- che, diversamente dal giudizio d'ottemperanza, non si tratti di un giudizio autonomo, distinto da quello di cognizione, ma piuttosto di una sorta di prosecuzione di quest'ultimo. Il che rileva anche sul piano organizzativo, nel senso che non sarà necessario istituire un nuovo fascicolo, ma i nuovi atti andranno nello stesso fascicolo del giudizio di cognizione. Nel qual senso depone anche il principio dell'economia dei giudizi, risultante dall'art. 1, primo comma (in tema di proposizione di motivi aggiunti);
- che sono da ritenere inapplicabili le disposizioni del regolamento di procedura del 1907 (artt. 91) concernenti il deposito del ricorso e la sua comunicazione alle amministrazioni interessate a cura della Segreteria.
La norma sul deposito, appare, infatti, senz'altro superata, anche alla stregua della più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sez. V, 22 febbraio 2000, n. 938, e 2 marzo 2000, n. 1069), che ha finalmente riconosciuto la necessità della notificazione del ricorso per ottemperanza. Non par dubbio, quindi, che anche il ricorso per l'esecuzione della sentenza (non passata in giudicato) vada notificato a tutte le parti costituite, ai fini della garanzia del contraddittorio.
Correlativamente, si rende del tutto superflua la comunicazione del ricorso alle Amministrazioni a cura della Segreteria.
Sul punto, poi, circa la necessità o meno della previa notifica all'Amministrazione di un atto di diffida ad adempiere, con l'assegnazione di un termine non inferiore a trenta giorni, ai sensi dell'art. 90, primo comma, del regolamento di procedura, sembrerebbe preferibile la soluzione affermativa, considerato che tale diffida adempie alla funzione di evidenziare all'Amministrazione la volontà del ricorrente vittorioso di agire per ottenere l'esecuzione della sentenza, così consentendole di disporre di un adeguato spatium deliberandi per valutare tutti gli aspetti della situazione. E se tale adempimento è necessario (quanto meno, in tutti i casi in cui non ci sia stato un esplicito rifiuto dell'Amministrazione ad eseguire, ponendosi quale condizione di ammissibilità, per il ricorso d'ottemperanza - che, pure, presuppone una situazione ormai definita dal giudicato -, a maggior ragione tale necessità può ritenersi allorché si tratti dell'esecuzione di una sentenza ancora non coperta da giudicato, esecuzione perciò meramente interinale).
3.4. - Poteri del giudice.
Come precisato dalla norma, sono quegli stessi di cui il giudice dispone in sede di giudizio d'ottemperanza: possibilità, quindi, di sostituirsi all'Amministrazione inadempiente, eventualmente anche a mezzo di appositi commissari ad acta.
Resta il fatto che l'esecuzione delle sentenze non coperte da giudicato avviene in una situazione non caratterizzata dalla stabilità, che è invece propria del giudicato. Starà al prudente apprezzamento del giudice, nei singoli casi, graduare le misure attuative, in modo da evitare per quanto possibile il determinarsi di effetti irreversibili.
3.5. - Forma dei provvedimenti.
Quanto alla forma della pronuncia, non è chiaro se debba essere quella dell'ordinanza o della sentenza.
Nel senso di questa seconda soluzione potrebbe deporre il fatto che in base all'art. 10 della legge 205/2000 il Tar è chiamato ad esercitare i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza: e l'atto conclusivo di tale giudizio è, appunto, una sentenza.
Nel senso, invece, che sia più adatta la forma dell'ordinanza sembra deporre la considerazione che si tratta di una pronuncia con contenuto decisorio, sì, ma a carattere essenzialmente interinale, in quanto destinata o ad essere travolta dall'eventuale annullamento in appello della sentenza del Tar (appellata) alla cui esecuzione è volta, o comunque, nel caso invece di passaggio in giudicato di quest'ultima, a restare assorbita dal giudicato venutosi a formare. E a questo carattere interinale della pronuncia non sembra bene adattarsi la forma della sentenza, atto di per sé caratterizzato da una tendenziale stabilità (salvo, ovviamente, l'esito dei rimedi impugnatori).