Esecuzione del giudicato amministrativo

SALVATORE GIACCHETTI, Esecuzione del giudicato amministrativo: storie di ordinaria giurisdizione non più sostenibile.


SALVATORE GIACCHETTI (*)

Esecuzione del giudicato amministrativo:
storie di ordinaria giurisdizione non più sostenibile


Diligite iustitiam, qui iudicatis terram
(Amate la giustizia, voi che siete giudici in terra)
(Sapienza, I, 1)

SOMMARIO: 1.- Un sempre attuale ricordo di Dino Buzzati. 2.- La lunga e travagliata storia di un inafferrabile giudicato amministrativo. 3.- Le motivazioni della sentenza conclusiva resa dal Consiglio di Stato. I diversi orientamenti della sentenza 28 gennaio 2011 n. 2065 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, del diritto europeo e delle linee guida del codice di procedura. 4.- La ritenuta non ottemperabilità del decreto decisorio di un ricorso straordinario a suo tempo reso su deliberazione del Consiglio dei ministri in contrasto con il parere del Consiglio di Stato. 5.- La ritenuta non ottemperabilità della sentenza di rigetto anche nel caso in cui l’ottemperanza sia stata richiesta non dal ricorrente soccombente nel giudizio di merito ma dal controinteressato in tale giudizio. La “maledizione del dispositivo”. 6.- L’avanzata del pragmatismo giuridico europeo, condivisa dalle Sezioni Unite della Cassazione, che rende ormai inaccettabile l’idea che la giurisdizione amministrativa, per considerazioni di ordine formale, possa venir meno alla sua missione di assicurare una tutela piena, effettiva e tempestiva. 7- La necessità che il legislatore attribuisca alla giustizia amministrativa una marcia in più. Alcuni interventi non più eludibili e realizzabili a costo zero.

1.- In un racconto di Dino BUZZATI (in Siamo spiacenti di, Oscar Mondadori, 1975, pag. 20) un uomo, ansante, entra di corsa in un ospedale, passando da un cancello secondario lasciato semiaperto. Porta in braccio una donna grondante sangue. Entra nel primo padiglione e chiede aiuto: ma è la clinica medica; e viene spedito al lontano padiglione chirurgia. Arriva stremato al padiglione chirurgia; ma là viene indirizzato all’ancora più lontano padiglione accettazione, ed i medici presenti, disinteressandosi completamente della donna, chiedono innanzi tutto all’uomo da che cancello sia entrato. L’uomo dice di non ricordarselo; e i medici, esterrefatti e indignati per questa risposta, dopo una lunga discussione tra loro tutto quello che fanno è di aprire un’inchiesta per stabilire da che cancello i due siano entrati in ospedale, dato che “l’ospedale non è mica un albergo” in cui si può entrare come e quando si vuole. A quell’uomo non resta che andarsene via, disperato, portando con sé la donna ormai morente, e lanciando terribili maledizioni sul personale dell’ospedale.

Il ricordo di questo racconto mi è tornato in mente quando ho letto la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. III, 10 gennaio 2014 n. 55.

2.- La vicenda esaminata dalla sentenza era la seguente, per la verità abbastanza complicata.

C, dirigente medico di cardiochirurgia pediatrica con contratto biennale presso l’Ospedale Monaldi di Napoli, nel 1999 risulta idoneo e si classifica al 4° posto di un concorso pubblico a 3 posti di ruolo di dirigente medico di “cardiochirurgia pediatrica” presso lo stesso Ospedale.

Nel 2000 C, resosi vacante uno dei tre posti, chiede lo scorrimento della graduatoria.

Nel 2001 l’Ospedale, invece di provvedere al chiesto scorrimento, bandisce un concorso pubblico a 2 posti di dirigente medico di “cardiochirurgia pediatrica per il profilo professionale eco transesofageo intraoperatorio ad assistenza meccanica”.

C partecipa al concorso con riserva, contestando la legittimità della restrizione derivante dal suddetto profilo; e risulta terzo, e quindi solo idoneo, per scarso punteggio nel profilo stesso. I posti in palio vengono assegnati ai primi due in graduatoria.

C impugna allora in via straordinaria il bando e tutti gli atti consequenziali.

Il Consiglio di Stato esprime parere negativo, disattendendo la relazione ministeriale che riconosceva l’esattezza della censura del ricorrente. Ma il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della sanità che segnalava il pericolo di un’incontrollabile proliferazione delle specialità mediche, disattende tale parere; e su tale base il ricorso straordinario viene accolto con dPR 7 giugno 2006.

M, risultato secondo in graduatoria e che quindi avrebbe dovuto perdere il posto in favore di C, chiede al Consiglio di Stato il riesame in sede consultiva del dPR. La richiesta è dichiarata inammissibile, con ulteriore dPR reso su conforme parere della Sezione I del Consiglio.

L’Ospedale ed M impugnano allora dinanzi al TAR Campania il dPR del 7 giugno 2006.

Il TAR Campania, Sez. V, con 23 luglio 2008, n. 9175:

– premette che il dPR in questione, avendo deciso la questione in difformità del parere del Consiglio di Stato, non ha il consueto carattere paragiurisdizionale derivante dalla garanzia del suddetto parere ma è un normale provvedimento amministrativo, che quindi va esaminato nel merito senza le normali preclusioni previste per l’esame dei dPR resi su conforme parere del Consiglio di Stato;

esamina quindi nel merito la questione;

condivide l’avviso del Ministero della sanità secondo cui la specializzazione legale è quella di “cardiochirurgia pediatricamentre la specializzazione di “cardiochirurgia pediatrica per il profilo professionale eco transesofageo intraoperatorio ad assistenza meccanica” non ha alcun riscontro nelle tabelle ministeriali, di carattere tassativo;

– su tale base, respinge nel merito i ricorsi di M e dell’Ospedale, precisando che in quel caso il bando di un nuovo concorso doveva ritenersi illegittimo, dal momento che ll’Ospedale avrebbe dovuto provvedere allo scorrimento della graduatoria del 1999.

M appella; ed il Consiglio di Stato (Sez. V, 22 febbraio 2011 n. 1095) conferma integralmente la decisione del TAR, ed in particolare conferma che “la determinazione di indizione del concorso era viziata dall’erroneo convincimento della possibilità di distinguere detta disciplina” – (e cioè “la cardiochirurgia pediatrica per il profilo professionale eco transesofageo intraoperatorio ed assistenza meccanica”) – “da quella di cardiochirurgia pediatrica“.

A questo punto C agisce per ottemperanza dinanzi al TAR, per ottenere finalmente il posto. Ma questa volta il TAR Campania, Sez. V (in diversa composizione), con sentenza 8 novembre 2012 n. 4505, respinge il ricorso affermando che l’ottemperanza:

1) se richiesta con riferimento al dPR di accoglimento di ricorso straordinario è inammissibile, perché la mancanza del parere conforme del Consiglio di Stato rende il dPR un normale atto amministrativo, non suscettibile di ottemperanza, che in ogni caso andrebbe richiesta al TAR del Lazio;

2) se richiesta con riferimento alla propria precedente sentenza confermata in appello è del pari inammissibile, perché C avrebbe potuto agire in ottemperanza solo se si fosse trattato di ottenere l’esecuzione di un giudicato che gli dava ragione e non anche per ottenere l’esecuzione di giudicato che dava torto al controinteressato M.

C appella: ed il Consiglio di Stato, Sez. III, con sentenza 10 gennaio 2014 n. 55, conferma la sentenza impugnata affermando:

1) di doversi conformare all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui “le sentenze di rigetto non sono, propriamente parlando, suscettibili di ottemperanza in quanto hanno lasciato inalterato l’assetto giuridico controverso; sicché quello che deve essere eseguito non è la sentenza, bensì il provvedimento amministrativo che era stato (inammissibilmente e/o infondatamente) impugnato. Mentre il terzo (e quindi anche il controinteressato nel giudizio nel quale si è formato il giudicato) ha altri mezzi per ottenere l’eventuale conformazione (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 744 dell’11 febbraio 2013)”;

2) “che l’azione di ottemperanza non sarebbe stata ammissibile neppure se fosse stata intesa come riferita all’esecuzione del DPR del 7 giugno 2006, con il quale era stato deciso il ricorso straordinario proposto dal dott. C“, dal momento che tale decisione “era intervenuta prima della giurisdizionalizzazione delle decisioni sul ricorso straordinario” avvenuta con la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 2065 del 28 gennaio 2011;

3) che il ricorso “se volto ad ottenere l’esecuzione del citato DPR del 7 giugno 2006, risultava inoltre proposto davanti ad un giudice comunque incompetente, come pure rilevato dal giudice di primo grado“;

4) che non era sostenibile, come dedotto dall’interessato, “che le conclusioni raggiunte possono determinare una irragionevole limitazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Infatti….l’interessato aveva comunque la possibilità di mettere in mora l’Amministrazione ed agire in giudizio avverso un eventuale provvedimento ritenuto non satisfattivo o nei confronti dell’eventuale comportamento inerte dell’Amministrazione, con il possibile esercizio dell’ottemperanza sul giudicato così formatosi, e fatta salva l’esperibilità dell’azione risarcitoria“; e che quindi “resta fermo che l’interessato, qualora ritenesse di dover (ancora) agire a tutela dei suoi interessi, ha sempre a disposizione tutti gli altri mezzi previsti dall’ordinamento ….: quali l’impugnazione di atti e provvedimenti che abbiano per presupposto quelli annullati dal DPR decisorio, pacificamente ritenuti esperibili nella ultrasecolare storia del ricorso straordinario, o, se del caso, il ricorso avverso il silenzio-rifiuto ovvero contro il rigetto delle istanze rivolte all’amministrazione“.

Sono passati dodici anni. La guerra continua. E continua non perché sia controversa l’esistenza dei fatti ma perché è controversa la regola procedurale per poter giudicare su quei fatti. Sembra di rivivere quell’episodio riferito da Gaio, secondo cui all’epoca del processo formulare un contadino che aveva convenuto in giudizio un vicino che gli aveva tagliato le viti perse il processo perché aveva sbagliato una parola: quia egisset de vitibus succisis cum debuisset arbores nominare.

3.- In sintesi le motivazioni del rigetto dell’appello di C sono:

3.1: per quanto riguarda la (eventuale) esecuzione del dPR del 2006:

– la circostanza che nel 2006 i dPR decisori di ricorsi straordinari erano ritenuti non suscettibili di esecuzione mediante il giudizio di ottemperanza;

– la considerazione che, in ogni caso, il ricorso in sede giurisdizionale del 2006 era stato presentato davanti ad un giudice incompetente;

– la circostanza che il decreto in esame, adottato su deliberazione del Consiglio dei ministri in contrasto con il parere reso dal Consiglio di Stato, avrebbe avuto natura meramente amministrativa e quindi priva di quel carattere di paragiurisdizionalità che nel 2011 avrebbe indotto le Sezioni Unite della Cassazione ad ammettere che possa chiedersi l’esecuzione anche dei decreti decisori di ricorsi straordinari;

3.2: per quanto riguarda l’esecuzione della sentenza del TAR n. 9175/2008:

– la considerazione che “il terzo (e quindi anche il controinteressato nel giudizio nel quale si è formato il giudicato) ha altri mezzi per ottenere l’eventuale conformazione“:

– la considerazione che C avrebbe potuto agire per l’ottemperanza solo se si fosse trattato di ottenere l’esecuzione di un giudicato che dava ragione a lui e non anche per ottenere l’esecuzione di giudicato che dava torto al controinteressati M ed Ospedale.

Le suelencate considerazioni risultano però confliggere sia con i precedenti indirizzi della sentenza 28 gennaio 2011 n. 2065 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione e del diritto europeo sia con le linee guida del codice di procedura amministrativa. Sembra quindi quanto mai opportuno un loro approfondimento, al fine di evitare la formazione di aree di incertezza del diritto.

4.- Le motivazioni in base alle quali è stata rigettata la domanda di (eventuale) esecuzione del dPR del 2006 lasciano perplessi.

4.1- Non sembra rilevante la circostanza che nel 2006 le decisione adottate su ricorso straordinario fossero ritenute non ottemperabili. Infatti la norma giurisprudenziale che ha consentito tale ottemperabilità, introdotta dalla citata sentenza della Sezioni Unite n. 2065/2011, ha carattere processuale; e sinora è stato sempre pacifico che le norme processuali siano applicabili anche alle controversie sorte prima della loro introduzione nel diritto vivente. Ciò è del resto attestato dalla stessa sentenza della Cassazione, che ha appunto riconosciuto l’esperibilità del ricorso per l’ottemperanza di un dPR che, in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 69/2009, aveva deciso un ricorso straordinario, affermando di conseguenza il principio di diritto secondo cui “I profili di novità tratti dalla legislazione, che sono stati anche oggetto di discussione all’odierna udienza pubblica, sono di immediata operatività a prescindere dall’epoca di proposizione del ricorso straordinario, ovvero dell’instaurazione del giudizio di ottemperanza (punto 2.14).

4.2- La considerazione che, in ogni caso, il ricorso in sede giurisdizionale era stato presentato davanti ad un giudice incompetente, perché trattandosi di impugnare una decisione resa da un organo centrale dello Stato il ricorso del 2006 di M avrebbe dovuto a suo tempo essere proposto dinanzi al TAR del Lazio e non dinanzi al TAR della Campania, non appare fondata.

In primo luogo, già l’art. 3, comma 2, prevedeva che per gli atti emessi da organi centrali dello Stato “relativi a pubblici dipendenti in servizio” presso uffici aventi sede nella circoscrizione del TAR regionale la competenza spettasse a tale TAR; disposizione confermata dall’art.13, comma 2, dell’attuale codice.

In secondo luogo dovrebbe comunque ritenersi decisiva la considerazione che né in sede dei ricorsi giurisdizionali di M del 2006 e del 2011 né in sede dei ricorso d’ottemperanza di C del 2011 e del 2013 era stata formalmente sollevata la questione di difetto di competenza del TAR Campania, né i giudici avevano ritenuto di sollevarla d’ufficio. Pertanto l’eventuale difetto di competenza non sembra che potesse più essere utilmente contestato, ai sensi dell’art. 15, comma 1, del codice, anche perché il giudizio d’ottemperanza è una prosecuzione esecutiva del giudicato da ottemperare: sicché eventuali controversie in sede di ottemperanza possono avere ad oggetto il come eseguire la sentenza e non già il se eseguire la sentenza passata in giudicato.

4.3- L’affermazione che il decreto in esame, in quanto adottato su deliberazione del Consiglio dei ministri, in contrasto con il parere reso dal Consiglio di Stato, avrebbe natura meramente amministrativa e quindi sarebbe privo di quel carattere di paragiurisdizionalità che nel 2011 avrebbe indotto le Sezioni Unite della Cassazione ad ammettere che possa chiedersi l’esecuzione anche dei decreti decisori di ricorsi straordinari, non appare condivisibile, sotto un duplice profilo.

4.3.1– In primo luogo, ciò che – in realtà – è stato riconosciuto determinante della sentenza della Cassazione n. 2065/2011 non sembra essere stato il carattere in sé della paragiurisdizionalità, e cioè il tratto che il procedimento decisorio del ricorso straordinario abbia assunto nel tempo un aspetto procedurale analogo a quello del procedimento giurisdizionale; sembra invece essere stata la realistica constatazione che il decreto decisorio, dopo la svolta operata dall’art. 69 della legge 18 giugno 2009 n. 69 (secondo cui il decreto decisorio non può discostarsi dal parere del Consiglio di Stato), inquadrata nel nuovo spirito introdotto dal codice di procedura amministrativa, ha creato – alla pari di un giudicato – una certezza legale non più utilmente controvertibile tra le parti in causa (salvo che per motivi formali).

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno perciò inteso operare non tanto un’equiparazione quoad formam quanto un’equiparazione quoad effectum. Non a caso l’art. 112, 2, d), del codice sancisce: “L’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione:….d) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza“; e) “dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili“.

Su questa base la citata sentenza n. 2065/2011 della Cassazione ha ritenuto:

a) che “una volta che si riconoscano poteri decisori, su determinate controversie, formalmente diversi, ma analoghi, rispetto a quelli della giurisdizione, infrangerebbe la coerenza del sistema una regolamentazione affatto inidonea alla tutela effettiva dei diritti e tale da condurre, in spregio al dettato dell’art. 2 Cost., comma 1, e art. 3 Cost., a creare una tutela debole (cfr. Cass., sez. un., n. 6529 del 2010)” (punto 2.12);

b) “Ma la verifica di tale coerenza deve essere condotta bensì scrutinando i risultati dell’esercizio del potere decisorio, quali previsti dalla complessiva regolamentazione, anche rammentando che i criteri costituzionali sono integrati dalle norme della Convenzione Europea per i diritti dell’uomo (artt. 6 e 13), come interpretate dalla Corte di Strasburgo, secondo il procedimento di ingresso nell’ordinamento nazionale precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 348 del 2007. Ebbene, secondo la giurisprudenza della CEDU, da un lato sono intangibili le decisioni finali di giustizia rese da un’autorità che non fa parte dell’ordine giudiziario, ma che siano equiparate a una decisione del giudice, e dall’altro in ogni ordinamento nazionale si deve ammettere l’azione di esecuzione in relazione a una decisione di giustizia, quale indefettibile seconda fase della lite definita (cfr. CEDU, 16 dicembre 2006, Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romoslrov c. Ucraina)” (punto 2.13).

4.3.2.-In secondo luogo, il fatto che i ricorsi straordinari potessero all’epoca essere decisi previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, in contrasto con il parere contrario del Consiglio di Stato, dimostra che l’ordinamento del tempo prevedeva che i relativi decreti presidenziali avessero natura non di normale atto amministrativo ma di atto di atto di alta amministrazione (o “politico”, come da tempo riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 298/1986); atto di alta amministrazione con cui la massima espressione del potere esecutivo era allora legittimata ad emettere, per preminenti considerazioni giustiziali di pubblico interesse, decisioni di rango superiore a quelle di qualsiasi organo paragiurisdizionale rese su interessi privati (che ex lege erano recessive); decisioni che il giudice poteva poi sindacare soltanto per vizi estrinseci di forma (come del resto è stato confermato nella vicenda in esame) e non anche per eventuali vizi di merito. Di conseguenza la decisione in questione costituiva un maius e non già un minus rispetto alla normale decisione su conforme parere del Consiglio di Stato; ed aveva quindi fatto assumere al decreto decisorio quel carattere di “provvedimento meramente dichiarativo di un giudizio vincolante“, che, secondo la citata Cassazione n 2065/2011, costituisce la ratio per parificare il giudizio paragiurisdizionale vincolante al giudizio giurisdizionale vincolante, estendendo di conseguenza al primo l’idoneità ad essere oggetto di ottemperanza formalmente dettata soltanto per il secondo.

5.- Circa poi l’asserita impossibilità tecnica di dare esecuzione alla sentenza del TAR Campania n. 6418/2006, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 1095/2011, possono formularsi le seguenti osservazioni.

5.1- La sentenza d’appello n. 55/2014 parte dal presupposto che “il terzo (e quindi anche il controinteressato nel giudizio nel quale si è formato il giudicato) ha altri mezzi per ottenere l’eventuale conformazione“.

Ma l’assimilazione tra “terzo” e “controinteressato” è inesatta: nel processo amministrativo sia il ricorrente che il controinteressato sono “parti”, con pari dignità e pari diritti, cosi come lo sono nel processo civile l’attore e il convenuto.

L’inesattezza della premessa ha evidentemente inciso sul successivo inquadramento sistematico della vicenda, inducendo psicologicamente il Collegio ad una sottovalutazione del ruolo del controinteressato, con conseguente riduzione degli effetti del giudicato nei confronti di quest’ultimo, giungendo così a dare ad un indirizzo tradizionale sulle sentenze di rigetto un significato ed un effetto diversi da quelli che ad esse era stato dato quando era sorto tale indirizzo (esaminato al seguente punto 5.2)

5.2– Per quanto riguarda l’asserita impossibilità “tecnica” di dare esecuzione ad una sentenza di rigetto, la sentenza della Sez. III n. 55/2014 rinvia alla sentenza della stessa Sezione n. 744/2013, che rinvia alla sentenza della Sez. VI n. 6532/2011, che rinvia alla sentenza della stessa sezione n. 511472009, che rinvia alla sentenza della Sez. V n. 4523/2008, che rinvia alla sentenza del Consiglio di giustizia per la Regione Siciliana n. 13/1986, da cui nasce la citata affermazione di principio.

Ma la situazione esaminata in quest’ultima sentenza (anche in quel caso si trattava di due medici che si contendevano una sede ospedaliera) era soltanto in apparenza oggettivamente analoga a quella ora in esame; in realtà era processualmente molto diversa. Si trattava infatti di un giudizio di ottemperanza di un precedente giudicato in cui il CGA, decidendo una controversia in cui entrambi i contendenti lamentavano l’inesatta valutazione dei rispettivi titoli, aveva respinto entrambi gli appelli; decisione di cui successivamente uno dei due soccombenti, che riteneva che a quel punto fosse chiaro che il posto spettasse a lui, aveva chiesto l’esecuzione. In quella particolare situazione il CGA aveva dichiarato inammissibile il ricorso per ottemperanza, perché non si era ancora formata alcuna certezza su chi dei due avesse titolo al posto, sulla cui assegnazione l’Amministrazione conservava margini di discrezionalità; sicché era necessario che l’autorità amministrativa deliberasse di nuovo sull’assegnazione del posto stesso. La dichiarazione di inammissibilità era stata quindi fondata sulla considerazione che il ricorrente non era ancora titolare di un diritto passato in giudicato o comunque di un accertamento vincolante; e che la sentenza di rigetto subita non poteva certo offrire all’interessato uno strumento per modificare questa situazione.

In questo quadro il Collegio aveva ritenuto di dover aggiungere che – come del resto era del tutto ovvio – chi subisce una sentenza di rigetto, cioè chi ha avuto torto, non può poi pretendere l’esecuzione di alcunché.

Ma il caso ora in questione era del tutto diverso: chi agiva per ottemperanza della sentenza d’appello del 2011 non erano M e l’Ospedale (che sia in quella sede giurisdizionale sia nella precedente sede straordinaria avevano avuto torto): era invece C (che sia in sede straordinaria che in sede giurisdizionale aveva avuto ragione e che quindi intendeva avvalersi del giudicato che attestava l’inesistenza del diritto di M di mantenere il posto controverso; giudicato tutt’altro che inutile ai fini della corretta definizione della controversia).

Di conseguenza la sentenza ora in esame:

1) ha incongruamente esteso il citato risalente principio giurisprudenziale, formulato per un caso in cui si pretendeva di far valere in sede di ottemperanza situazioni soggettive derivanti da un giudicato in cui l’interessato era risultato soccombente, anche a decisioni in cui l’interessato aveva ottenuto il riconoscimento (sia pure in modo indiretto) della fondatezza della sua pretesa;

2) non ha considerato che l’attuale codice di procedura amministrativa ha incisivamente innovato la precedente normativa in materia, disponendo:

– all’art. 1, che principio generale fondamentale della giurisdizione amministrativa è quella di assicurare “una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo“, con la conseguenza che il giudice nazionale deve applicare il canone ermeneutico c.d. di interpretazione conforme alle fonti superiori (art. 6 del TUE, entrato in vigore l’1 dicembre 2009); sicché entro questo quadro il giudizio amministrativo deve assicurare il pieno e completo soddisfacimento delle pretese azionate in giudizio, se riconosciute oggettivamente fondate e quindi meritevoli di tutela;

– all’art. 2, che il processo amministrativo deve attuare il principio del giusto processo, che a sua volta richiede che il giudice debba operare per la realizzazione della “ragionevole durata del processo“; e tale non è certo la durata della presente controversia, che può sinora “vantare” – per dir così – due decisioni in sede straordinaria e quattro decisioni in sede giurisdizionale senza che ancora sia stato definito se il posto controverso spetta o no a C;

– agli artt. 32 e 96, varie disposizioni ispirate al principio di concentrazione delle azioni, al fine di assicurare la contemporanea realizzazione sia del principio di effettività sia del principio di ragionevole durata del processo;

– all’art. 32, comma 2, che spetta al giudice la qualificazione dell’azione proposta “in base ai suoi elementi sostanziali“, con conseguente potere di “disporre la conversione delle azioni“: il che comporta che il giudice, prima di poter respingere un ricorso per difetto di requisiti procedurali, deve d’ufficio accertare che non esista la possibilità di decidere la controversia riqualificando l’azione in un modo diverso.

Ed è da aggiungere che il c.p.a. non ha modificato – né ha mai neppur lontanamente pensato di dover modificare – l’art. 2909 cod. civ., secondo cui il giudicato fa stato fra tutte le parti in giudizio: sicché se è controverso se x spetti ad A oppure a B, ed un giudicato attesta che B ha torto, deve necessariamente concludersi che A ha ragione e che a lui va di conseguenza attribuita la cosa controversa.

5.3- In ogni caso, le sentenze di cui era stata chiesta l’esecuzione erano davvero sentenze di rigetto?

C’è da tener presente che, in quei casi aveva operato quello che potrebbe definirsi “la maledizione del dispositivo”: e cioè la tradizionale impostazione mentale secondo cui il dispositivo, che pure – di regola – è la parte più importante della sentenza dato che attesta non solo l’esito processuale ma anche i successivi effetti sostanziali della sentenza, nel processo amministrativo dovrebbe restare allo stato larvale: dovrebbe limitarsi a dire “accoglie” o “rigetta” il ricorso, senza potersi spingere oltre.

Ma una tale concezione, che poteva avere una qualche giustificazione nel sistema originario di giudizio su interessi oppositivi, non ha più alcuna giustificazione in un sistema in cui il giudice amministrativo decide prevalentemente su interessi pretensivi o partecipativi, o addirittura su diritti soggettivi, sistema in cui le parti, alla conclusione del giudizio, non devono essere costrette a dire “Bene: e allora?”; non devono essere costrette a fare un ulteriore giudizio per sapere come va definito, in concreto, l’assetto legittimo dei rispettivi interessi, qualora – ovviamente – non residuino margini di discrezionalità all’Amministrazione interessata.

Ora la sentenza del TAR n. 9175/2008, di dichiarato “rigetto” dell’appello dell’Ospedale (che riteneva di avere conservato al riguardo margini di discrezionalità) e di M, aveva responsabilmente avvertito l’esigenza di fare chiarezza sostanziale sulla vicenda: e si era quindi responsabilmente proposta “di porre al centro dell’attenzione, quale vero decisum (e quindi quale vero thema decidendum) l’elemento contenutistico di sostanza della decisione (del ricorso straordinario)……Venendo quindi al merito…..”. Ed è appunto l’esame del merito che occupa la maggior parte della sentenza, particolarmente diffusa e approfondita al riguardo.

Ma il merito consisteva appunto:

– nelle pretese di C in sede straordinaria, fatte proprie dal Consiglio dei Ministri;

– nelle opposte pretese avanzate in sede giurisdizionale da M e dall’Ospedale.

Sicché il TAR, decidendo che le pretese di C erano fondate e le pretese di M e dell’Ospedale erano infondate ha consequenzialmente ed inequivocabilmente anche deciso che C aveva ragione; e questo pure se, per l’indicata “maledizione”, il dispositivo si riduce alla tradizionale striminzita formula di rigetto. Era, in sostanza una sentenza di accoglimento della pretesa del controinteressato mascherata – per ossequio al sistema tradizionale da sentenza di rigetto della pretesa dei ricorrenti. E poiché il dispositivo va interpretato sulla base della motivazione (e, bisognerebbe aggiungere, anche sulla base della buona fede) nessun dubbio avrebbe dovuto sussistere sul fatto che la sentenza non solo avesse respinto i ricorsi di M e dell’Ospedale ma anche avesse accertato il diritto di C, in conformità – del resto – di quanto la sentenza aveva espressamente dichiarato di voler decidere ed aveva effettivamente deciso.

Era appunto su queste basi che il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1095/2011, aveva ritenuto di dover confermare il pieno la sentenza del TAR; ed entrambe le sentenze erano passate in giudicato. Ne conseguiva che, indipendentemente dalla formula utilizzata (che scontava la rudimentalità della tradizionale terminologia in materia di dispositivo), il già decisum giurisdizionale avrebbe dovuto ritenersi incontestabile dalle parti e immodificabile dal giudice in sede del successivo giudizio d’ottemperanza..

5.4- Quanto poi all’asserzione secondo cui “l’interessato, qualora ritenesse di dover (ancora) agire a tutela dei suoi interessi, ha sempre a disposizione tutti gli altri mezzi previsti dall’ordinamento ….: quali l’impugnazione di atti e provvedimenti che abbiano per presupposto quelli annullati dal DPR decisorio, pacificamente ritenuti esperibili nella ultrasecolare storia del ricorso straordinario, o, se del caso, il ricorso avverso il silenzio-rifiuto ovvero contro il rigetto delle istanze rivolte all’amministrazione“, va ricordato che Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza più volte ricordata, hanno affermato i seguenti principi:

al punto 2.11: l’assimilazione della decisione del ricorso straordinario ad una decisione giurisdizionale “si riflette sull’individuazione degli strumenti di tutela, sotto il profilo della effettività, che una tutela esecutiva, piena e diretta, non è assicurata dal meccanismo, altrimenti utilizzabile, del ricorso giurisdizionale avverso il silenzio-inadempimento della p.a., ovvero avverso il comportamento violativo, o elusivo, del dictum del decreto presidenziale, sì che l’obbligatorio ricorso a tale complesso meccanismo si risolve in una disciplina che rende eccessivamente difficile l’esercizio della tutela e finisce per non garantire un rimedio adeguato contro l’inadempimento della p.a.”; – – al punto 2.12: “la nuova regolamentazione normativa intesa alla “assimilazione” del rimedio straordinario a quello giurisdizionale, pur nella diversità formale del procedimento e dell’atto conclusivo, non può non assicurare una tutela effettiva del tutto simile, poiché, come queste Sezioni unite hanno precisato in materia di “autodichia”, una volta che si riconoscano poteri decisori, su determinate controversie, formalmente diversi, ma analoghi, rispetto a quelli della giurisdizione, infrangerebbe la coerenza del sistema una regolamentazione affatto inidonea alla tutela effettiva dei diritti e tale da condurre, in spregio al dettato dell’art. 2 Cost., comma 1, e art. 3 Cost., a creare una tutela debole (cfr. Cass., sez. un., n. 6529 del 2010)“;

– al punto 2.13. “Ma la verifica di tale coerenza deve essere condotta bensì scrutinando i risultati dell’esercizio del potere decisorio, quali previsti dalla complessiva regolamentazione, ma anche rammentando che i criteri costituzionali sono integrati dalle norme della Convenzione Europea per i diritti dell’uomo (artt. 6 e 13), come interpretate dalla Corte di Strasburgo, secondo il procedimento di ingresso nell’ordinamento nazionale precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 348 del 2007. Ebbene, secondo la giurisprudenza della CEDU, da un lato sono intangibili le decisioni finali di giustizia rese da un’autorità che non fa parte dell’ordine giudiziario, ma che siano equiparate a una decisione del giudice, e dall’altro in ogni ordinamento nazionale si deve ammettere l’azione di esecuzione in relazione a una decisione di giustizia, quale indefettibile seconda fase della lite definita (cfr. CEDU, 16 dicembre 2006, Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romoslrov c. Ucraina);

al punto 2.14. “I profili di novità tratti dalla legislazione, che sono stati anche oggetto di discussione all’odierna udienza pubblica, sono di immediata operatività a prescindere dall’epoca di proposizione del ricorso straordinario, ovvero di instaurazione del giudizio di ottemperanza“;

al punto 2.14.1Come queste Sezioni unite hanno precisato con la sentenza n. 30254 del 2008, proprio il caso dei ricorsi per l’ottemperanza dimostra che una questione di giurisdizione si presenta anche quando non è in discussione che la giurisdizione spetti al giudice cui ci si è rivolti, perchè è solo quel giudice che secondo l’ordinamento la può esercitare, ma si deve invece stabilire se ricorrono – in base alla norma che attribuisce giurisdizione -le condizioni perchè il giudice abbia il dovere di esercitarla: così, in rapporto al decreto di accoglimento di ricorso straordinario, il configurarsi come giudicato può essere discusso in questa sede come questione di giurisdizione ai sensi dell’art. 362 c.p.c.”.

6.- In sintesi, le considerazioni indicate dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 55/2014 a sostegno della reiezione dell’appello di C (considerazioni elencate al precedente punto 3) erano già state disattesecon ampia e circostanziata motivazione dalla sentenza n. 2065/2011 resa in causa analoga delle Sezioni Unite della Cassazione, che aveva stabilito i seguenti principi di diritto:

– che anche i dPR decisori di ricorsi straordinari definiti prima del 2011 erano suscettibili di esecuzione mediante il giudizio di ottemperanza;

– che si deve ammettere l’azione di esecuzione in relazione a decisioni finali di giustizia sostanzialmente equiparate ad una decisione del giudice anche se prive di carattere giurisdizionale,

– che il giudice dell’ottemperanza non può obbligare il ricorrente ad avvalersi di altri più complessi meccanismi per ottenere la conformazione al giudicato, obbligo che sì risolverebbe “in una disciplina che rende eccessivamente difficile l’esercizio della tutela e finisce per non garantire un rimedio adeguato contro l’inadempimento della p.a.”

In tale occasione le Sezioni Unite avevano anche responsabilmente avvertito che un’eventuale reiezione di un ricorso per ottemperanza fondata su motivi contrastanti con i principi suddetti sarebbe stata suscettibile di impugnazione per illegittimo diniego di giurisdizione. E’ un vero peccato che la sentenza del Consiglio di Stato, pur citando detta sentenza (sotto il profilo della riconosciuta ottemperabilità del decreto decisorio del ricorso straordinario), non abbia preso integrale conoscenza del relativo testo; conoscenza che avrebbe potuto indurre il Consiglio di Stato ad assumere un decisione diversa da quella poi adottata, o quanto meno ad indicare i motivi del suo dissenso.

A questo punto, di fronte a C si apre la sconfortante visione di un ordinamento schizofrenico, in cui trovare la giustizia assomiglia sempre più al gioco delle tre carte e in cui l’unica via sembra adesso essere il ricorso alle Sezioni unite: con il che peraltro, tenendo conto di un’eventuale cassazione con rinvio, il numero delle decisioni finali – tra decisioni straordinarie e sentenze – ascenderebbe a ben otto a fronte di una situazione che nel merito è pacifica. Situazione tanto più allucinante perché non si tratta di una semplice divergenza di vedute su una specifica questione (evento sempre possibile nel diritto) ma di una divergenza ideologica di fondo tra l’originaria formalistica ed ancora non del tutto scomparsa concezione del processo amministrativo, secondo cui il ricorrente era considerato una sorta di disturbatore della pubblica amministrazione e quindi andava accontentato proprio quando non se ne poteva fare a meno (ricordo che un secolo fa era possibile che le decisioni di accoglimento si concludessero con la formula “E’ giocoforza accogliere il ricorso“), ed una concezione sostanzialista e pragmatica, di derivazione europea e fatta propria dalla Cassazione, di una pubblica amministrazione “al servizio del cittadino”, come affermato dal decreto legislativo n. 33/2013, che ha così finalmente ribaltato l’originaria impostazione mentale.

7.- In conclusione l’attuale ordinamento, come autorevolmente interpretato dalle Sezioni Unite della Cassazione nel solco della grande tradizione aperta dalla sentenza n. 500/1999, richiede al giudice amministrativo di assicurare – come obiettivo minimo – una giurisdizione sostenibile, il cui peso cioè possa essere sopportato sia dalle parti sia dalla comunità nazionale, senza innescare né sfiducia nelle istituzioni né oneri economici ingiustificati od eccessivi.

Ma per conseguire in concreto queste finalità il giudice deve essere posto in condizione di poterlo fare: deve essere inserito in sistema organico che gli attribuisca i necessari strumenti processuali. Altrimenti quella amministrativa si riduce ad una giurisdizione relegata in una tradizionale striminzita gabbia mentale, figlia dell’interesse legittimo, che può legittimamente consentire situazioni in cui un ricorrente, dopo tre procedimenti a lui sempre sostanzialmente favorevoli svoltisi nell’arco di dodici anni, si ritrovi per motivi procedurali sempre con un nulla in mano: come in un maligno gioco dell’oca in cui quando si è giunti vicini al traguardo si ha sempre la sfortuna di capitare nella casella “Tornare al punto di partenza”.

Ora un sistema giurisdizionale amministrativo quale l’attuale:

a) non è più sostenibile né sotto il profilo etico né sotto il profilo politico-sociale né sotto il profilo esistenziale né sotto il profilo del danno economico sia alla parte che ha ragione sia alla comunità nazionale, considerato che ogni non necessario processo costituisce un non necessario onere economico, c quindi un danno per la comunità;

b) è un potente dissuasore di un qualsiasi investimento sia interno che estero, ed incentiva la pericolosa fuga dalla giustizia già in atto (dal 2000 al 2013 il numero dei ricorsi ai TAR si è praticamente dimezzato), con ricorso ad intuibili vie “alternative”, che possono anche risolvere controversie ma al pesante prezzo di superare la legalità;

c) è un puro e semplice scollamento tra teorie autoreferenziali e la realtà, tra architetture giuridiche astratte e il comune senso di giustizia: e come tale, sia pure in casi molto limitati, dimostra una vistosa insufficienza di sistema, che è suscettibile – dal momento che, come insegnano i telegiornali, fanno audience solo le urla e le cattive notizie – di ingenerare nell’opinione pubblica un discredito istituzionale tale da far dimenticare il molto di buono che la giurisprudenza amministrativa ha fatto e continua a fare per assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale e quindi la Giustizia con la G maiuscola;

d) non è in grado di impedire situazioni in cui un’Amministrazione, che – come nel caso in esame – sa con certezza da almeno otto anni di avere torto, possa tranquillamente continuare a ignorare il suo dovere di dare attuazione a quanto deciso dal giudice, come se la cosa non la riguardasse affatto.

A questo punto appare chiaro che la magistratura amministrativa non può essere lasciata sola a cercare di raddrizzare praeter legem una giurisdizione che per l’attuale scarsità dei propri strumenti può venirsi a trovare a distanza siderale dalle attuali sempre più drammatiche esigenze di pienezza, di effettività e di tempestività; ciò tenuto anche conto che in passato eventuali fughe in avanti della giurisprudenza amministrative sono state ripetutamente stoppate dalla Cassazione.

Occorre quindi un intervento del legislatore, che quanto meno:

1) ammetta espressamente l’azione di accertamento;

2) stabilisca espressamente che ogni decisione giurisdizionale, che superi gli scogli delle eccezioni processuali, deve obbligatoriamente concludersi con un dispositivo che non solo attesti l’esito processuale del giudizio (accoglimento, rinvio o rigetto del ricorso) ma anche stabilisca le eventuali misure attuative sostanziali necessarie per realizzare in concreto l’assetto di interessi che il giudice ha ritenuto legittimo. Insomma ogni giudizio amministrativo deve poter costituire una sorta di “sportello unico della giustizia”, in grado cioè che la sentenza possa assicurare da subito, in presa diretta, quella “tutela piena ed effettiva” che l’art. 1 del c.p.a. ha eretto ad architrave della giurisdizione amministrativa; deve poter essere già in partenza carico di tanta ansia di effettività da fare scomparire – di fatto – il glorioso ma oggi anacronistico istituto del giudizio d’ottemperanza, che – a ben vedere – è fondato sul singolare presupposto che il decisum da eseguire non sia, in fondo, una cosa seria e quindi abbia bisogno di una sorta di convalida;

3) riduca al minimo possibile i casi in cui il processo amministrativo possa arenarsi su questioni procedurali, senza poter arrivare al merito della controversia; ciò tenuto conto che – dal punto di vista dell’interesse generale sia economico sia al buon andamento della pubblica amministrazione – ogni sentenza meramente procedurale è una perdita secca;

4) tenga conto che, in realtà, il giudizio amministrativo. non si svolge in condizioni di parità tra le parti: perché il ricorrente privato che ha ragione paga comunque in proprio e non è indifferente alla durata del giudizio, mentre l’amministratore pubblico che ha torto non paga mai in proprio ed ha tutto da guadagnare – specie quando ha amici da compiacere – da comportamenti processuali e/o sostanziali dilatori che gli consentano di scaricare sui suoi successori gli oneri economici e politici di una eventuale sconfitta processuale. Non è un caso che la maggior parte degli appelli siano proposti dalle pubbliche amministrazioni. Occorrerebbe perciò quanto meno prevedere una disciplina particolarmente severa in materia di spese nel caso in cui un soggetto sia stato costretto a ricorrere al giudice prima per ottenere l’annullamento di un provvedimento palesemente illegittimo e poi per ridurre a ragione una pubblica amministrazione decisa a tutto pur di non ottemperare al dictum di una sentenza; in tal modo le spese andrebbero rapportate non solo al comportamento processuale ma anche al comportamento sostanziale della pubblica amministrazione.

Interventi nel senso suindicato rappresenterebbero per il legislatore una di quelle meritorie iniziative strutturali che potrebbe essere realizzata a costo zero facendo finalmente uscire l’Italia da quel medioevo giuridico in cui l’ha a suo tempo inconsapevolmente cacciata l’invenzione degli interessi legittimi. Ed è appena il caso di aggiungere che il diritto processuale amministrativo non si può migliorare abolendo il suo esecutore, e cioè il giudice amministrativo: equivarrebbe a pretendere di migliorare la salute del malato distruggendo il termometro o passando dal Celsius ai Fahrenheit. Per sanare un ordinamento malato perché ristretto in un ordinamento inadeguato a far fronte all’attuale crisi economico finanziaria occorrerebbe invece che il legislatore:

1) sul piano sostanziale, riuscisse a dare un contenuto concreto al principio vaticinato dal decreto legislativo n. 33/2013, art. 1, secondo cui la pubblica amministrazione è “al servizio del cittadino“, e non dei politici di turno (o – peggio – al servizio dei vertici amministrativi di turno), come di fatto è tuttora;

2) sul piano processuale, superando taluni orientamenti della Cassazione (che – com’è noto – ha ipotizzato un difetto di giurisdizione nel caso in cui il giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità eserciti poteri di merito) riuscisse a dare un contenuto precettivo vincolante e stringente alle decisioni dei giudici amministrativi (evento peraltro quanto mai temuto dal potere politico-amministrativo).

E’ un traguardo difficile, nessuno lo nega; ma è possibile; ed è una strada necessaria se davvero si vuole rimettere in piedi la pubblica amministrazione.

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(*) Presidente aggiunto onorario del Consiglio di Stato.


Dello stesso A. v. in precedenza:

S. GIACCHETTI, Il giudizio d’ottemperanza nella giurisprudenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa, in Giur. amm. sic. 1988, II, p. 36 ss. ed in LexItalia.it pag.  http://www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_ottemperanza.htm

S. GIACCHETTI, L’esecuzione delle statuizioni giudiziali nei confronti della P.A. e la foresta di Sherwood, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_esecuzione.htm

S. GIACCHETTI, Profili problematici della cosiddetta illegittimità comunitaria, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_illegittimita.htm

S. GIACCHETTI, L’interesse legittimo alle soglie del 2000, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_2000.htm

S. GIACCHETTI, La risarcibilità degli interessi legittimi è “in coltivazione”, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_risarcibilita.htm

S. GIACCHETTI, La riforma infinita del processo amministrativo, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_riformaproc.htm

S. GIACCHETTI, Gli accordi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990 tra realtà virtuale e realtà reale, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_accordi.htm

S. GIACCHETTI, Federalismo e futuro della Giustizia amministrativa, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_federalismo.htm