Illegittime le “quote rosa” in materia elettorale

n. 3/2014 | 10 Marzo 2014 | © Copyright | - Giurisprudenza, Elezioni | Torna indietro More

CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 12 settembre 1995 (già nel 1995 la  Corte cost. affermava che sono  costituzionalmente illegittime le norme elettorali “che impongono nella  presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma  di quote in ragione del sesso dei candidati” e dichiarava illegittimo l’art. 5 della legge n. 81/1993, nella parte in cui prevedeva,  per le elezioni nei Comuni con meno di 15 mila abitanti, che: “Nelle liste dei  candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura  superiore a due terzi“).


CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 12 settembre 1995 n. 422 – Pres. Baldassarre, Red. Ferri – (giudizio promosso con ordinanza emessa il 27 maggio 1994 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Maio Giovanni contro il Ministero dell’Interno ed altri, iscritta al n. 700 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 1994).

Elezioni – Elezioni amministrative – Nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti – Disciplina prevista dall’art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 – Nella parte in cui prevede che: “Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore a due terzi” – Illegittimità costituzionale – Per violazione degli artt. 3 e 51 della Costituzione – Va dichiarata – Norme di legge che impongono nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati – Sono da ritenere costituzionalmente illegittime.

In relazione agli artt. 3 e 51 della Costituzione, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), il quale, riferendosi all’elezione dei consiglieri comunali nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, prevede che: “Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore a due terzi”. Infatti, l’art. 3, primo comma, e soprattutto l’art. 51, primo comma, Cost. garantiscono l’assoluta eguaglianza fra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità; ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la “candidabilità”. La possibilità di essere presentato candidato da coloro ai quali (siano essi organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse leggi elettorali, amministrative, regionali o politiche attribuiscono la facoltà di presentare liste di candidati o candidature singole, a seconda dei diversi sistemi elettorali in vigore, non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto, per beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo sancito dal richiamato primo comma dell’art. 51. Viene pertanto a porsi in contrasto con gli indicati parametri costituzionali la norma di legge che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati.


SENTENZA N. 422

ANNO 1995

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

– Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

– Prof. Vincenzo CAIANIELLO

– Avv. Mauro FERRI

– Prof. Luigi MENGONI

– Prof. Enzo CHELI

– Dott. Renato GRANATA

– Prof. Francesco GUIZZI

– Prof. Cesare MIRABELLI

– Prof. Fernando SANTOSUOSSO

– Avv. Massimo VARI

– Dott. Cesare RUPERTO

– Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), promosso con ordinanza emessa il 27 maggio 1994 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Maio Giovanni contro il Ministero dell’Interno ed altri, iscritta al n. 700 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 1994;

Visto l’atto di costituzione di Maio Giovanni;

Udito nell’udienza pubblica del 27 giugno 1995 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Ritenuto in fatto

1. – L’elettore Giovanni Maio, iscritto nelle liste del comune di Baranello, avente popolazione non superiore a 15.000 abitanti, ha impugnato avanti il T.A.R Molise le operazioni per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale in quanto, tra i trentasei candidati al consiglio comunale complessivamente presentatisi nelle tre liste in competizione, era presente una sola donna, in violazione dell’art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993 n. 81, secondo cui “Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi”.

2. – Il Consiglio di Stato, in sede di appello avverso la sentenza del T.A.R. Molise, che aveva respinto il ricorso interpretando la citata disposizione come una proposizione legislativa priva di valore precettivo, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima in riferimento agli artt. 3, primo comma, 49 e 51, primo comma, della Costituzione.

3. – Il giudice a quo premette, ai fini della rilevanza della questione, che in altre precedenti decisioni la disposizione impugnata (nel testo anteriore alla modifica apportata con legge 15 ottobre 1993, n. 415) è già stata interpretata nel senso della precettività della norma sulla rappresentanza dei sessi, salvo deroghe da motivare in sede di presentazione delle liste, che, nel caso di specie, non sono state in alcun modo addotte.

Il Consiglio di Stato ritiene, altresì, che la modifica della disposizione, operata dalla legge n. 415 del 1993 mediante la soppressione della locuzione “di norma”, e l’attribuzione di inequivocabile valore precettivo alla proposizione, non possa non riflettersi sull’interpretazione della formula originaria, sia pure considerando che la successiva legge avrebbe trovato altrimenti il modo di eludere la necessità di rappresentanza dei sessi proclamata nella legge di pochi mesi prima: mentre infatti la legge n. 81, con la dizione “nessuno dei due sessi può essere .. rappresentato in misura superiore ai due terzi”, faceva implicito riferimento al numero dei candidati in lista, e quindi imponeva la presenza di candidati d’ambo i sessi, la successiva dizione, “nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai tre quarti dei consiglieri assegnati”, facendo riferimento al numero di consiglieri comunali da eleggere, e facendo coincidere la presenza massima dei candidati di un sesso con il numero minimo dei candidati da porre in lista, consente la presentazione di liste con candidati di un solo sesso.

4. – Ritenuto dunque il valore precettivo della disposizione, anche prima della modificazione apportata dalla citata legge n. 415, il collegio remittente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge n. 81 del 1993, il quale avrebbe per la prima volta introdotto nella legislazione elettorale la nozione di “rappresentanza dei sessi”.

La questione di legittimità viene sollevata in primo luogo con riferimento al principio di eguaglianza, sancito dall’articolo 3, primo comma, della Costituzione, e ribadito, in materia elettorale, dall’art. 51, primo comma. Il principio di eguaglianza, secondo cui “tutti ..sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso .. “, si porrebbe, infatti, come regola di irrilevanza giuridica del sesso e delle altre diversità contemplate dall’art. 3.

5. – D’altra parte, prosegue il remittente, escluso che nel caso in esame il sesso costituisca una situazione obiettivamente giustificante la sua assunzione ad elemento di una fattispecie normativa, non sembra neppure che si possa dare rilievo al sesso in base alla regola cosiddetta di “eguaglianza sostanziale”, di cui al secondo comma dell’art. 3, come, verosimilmente, è stato intendimento del legislatore.

La regola secondo cui è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine sociale, che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica del Paese, non potrebbe che riferirsi, ad avviso del remittente, agli ostacoli di ordine materiale la cui esistenza vanifica o limita, per taluni, i diritti astrattamente garantiti a tutti, ma non ai pregiudizi ed agli atteggiamenti di disfavore da cui taluni o molti possono essere affetti nei confronti di persone appartenenti a un sesso o a una data razza, religione, o madrelingua. Il principio di eguaglianza davanti alla legge, inoltre, sarebbe vanificato se, in nome di una pretesa eguaglianza sostanziale, il legislatore potesse assumere disposizioni di favore in ragione delle diverse condizioni personali elencate nel primo comma, o in ogni caso assumere quelle diverse condizioni personali come elemento di discriminazione fine a se stessa. Sotto questo profilo, osserva il remittente, non sembra esservi nessuna differenza tra l’escludere uno dei due sessi da determinati uffici o cariche, e il prevederne obbligatoriamente la presenza, ove questa non sia richiesta da esigenze oggettive.

6. – Analoghe considerazioni vengono espresse per quanto riguarda l’eguaglianza nell’accesso alle cariche elettive proclamata dall’art. 51, primo comma; al riguardo il Consiglio di Stato osserva che il costituente ha ritenuto opportuno (con riferimento alla situazione di allora, nella quale le donne erano escluse dalle cariche elettive e dalla maggior parte degli uffici pubblici) precisare che il diritto di accesso alle cariche e agli uffici si riferiva ai cittadini “dell’uno o dell’altro sesso”; ma, acquisito ciò, non può ritenersi che l’eguaglianza tra i sessi nelle cariche elettive significhi qualcosa di diverso dalla indifferenza del sesso ai fini considerati nella disposizione costituzionale, e in particolare che detta eguaglianza sia qualcosa che debba essere “attuato” mediante la positiva previsione del sesso come condizione di accesso alle cariche elettive.

7. – L’art. 51, primo comma, verrebbe in considerazione anche sotto altro profilo.

Il giudice a quo osserva che il diritto di accesso alle cariche elettive comporta il divieto di stabilire titoli o condizioni positive per l’accesso alle cariche stesse, diversi dai requisiti previsti in via generale per il godimento dei diritti politici e dall’assenza di cause di ineleggibilità; ma una volta stabilite le cause di ineleggibilità, il legislatore non potrebbe poi contemplare, fra le condizioni per la assunzione di cariche elettive e per la partecipazione alle relative competizioni, l’appartenenza all’uno o all’altro dei due sessi, ad una razza, religione, gruppo linguistico, ovvero il possesso di determinate altre caratteristiche o condizioni personali.

La disposizione elettorale in esame introdurrebbe, quindi, un concetto di “rappresentanza dei sessi” che, se legittimo, dovrebbe essere applicato non tanto alla composizione delle liste di candidati nei sistemi plurinominali quanto piuttosto alla composizione degli organi elettivi: di ciò, osserva il Collegio remittente, ci si è resi ben conto, dal momento che nei lavori preparatori è stato enunciato che la rappresentanza dei sessi nelle liste ha una portata limitata rispetto alla espressione di preferenze separate per candidati dei due sessi o, comunque, alla presenza dei due sessi tra gli eletti.

8. – Ciò posto, prosegue il giudice a quo, un’eventuale rappresentanza collettiva di un gruppo linguistico, razziale o religioso, negli organi elettivi, deve necessariamente trovare fondamento nel patto costituzionale, costituendo essa una deroga al principio di eguaglianza dei cittadini; il che, sottolinea il Consiglio di Stato, non è riscontrabile nell’attuale ordinamento, anche ammesso che una regola siffatta sia mai concepibile.

9. – Infine, il remittente ravvisa il contrasto della disposizione impugnata con la regola di libertà politica sancita dall’art. 49 della Costituzione: norma che consentirebbe soltanto ai cittadini di essere arbitri di determinare gli interessi da rappresentare in sede politica, e quindi anche di costituire gruppi e movimenti che si prefiggano di esaltare gli interessi di coloro che si trovino in determinate condizioni personali, tra cui sesso, razza, o religione.

Posto, quindi, che le liste elettorali presentate dagli elettori sono null’altro che i partiti politici nel momento elettorale, ad avviso del remittente, il legislatore non potrebbe limitare le scelte dei presentatori delle liste elettorali, e imporre che le liste stesse contengano, in tutto o in parte, candidati di un determinato sesso, o aventi qualsiasi altra caratteristica, fisica, intellettuale o morale, diversa dal possesso dei requisiti, positivi o negativi, di eleggibilità.

10. – Ha presentato atto di costituzione Maio Giovanni, appellante nel giudizio a quo, concludendo per l’infondatezza della sollevata questione.

La parte privata ritiene, in sostanza, che la norma di cui si sospetta l’illegittimità costituzionale non impone incondizionatamente l’obbligo di proporzione tra i sessi nelle liste ma solo di motivare adeguatamente i casi in cui tale proporzione non può essere raggiunta.

A questo conseguirebbe l’assenza di qualsiasi lesione ai principi costituzionali espressi dagli artt. 3, 49 e 51.

Le stesse argomentazioni evidenziate dall’amministrazione resistente, con particolare riferimento alle difficoltà incontrate dai presentatori delle liste nell’ottenere l’accettazione di candidature da parte di elettrici, mentre evidenzia l’assenza di qualsiasi danno per i presentatori (potendo essi stessi motivare tali ragioni, ottenendo la deroga), comproverebbero la sussistenza di legittime ragioni, sotto il profilo costituzionale, perseguite dal legislatore.

Né potrebbe disconoscersi sia il ruolo che l’effetto dispiegato dalla norma, e cioè quello di rimuovere, ove correttamente interpretata ed applicata, gli ostacoli che, per tradizione o costume o per altri motivi di natura socioeconomica impediscono di fatto, in particolare al sesso femminile, di prendere parte alla vita politica locale, relegandone le potenzialità e le capacità di impegno in un contesto marginale, e riconoscendo di fatto, al sesso maschile, un vero e proprio monopolio all’interno della vita politica di tanti comuni e piccole realtà locali.

11. – In assenza della citata norma, osserva la parte privata, verrebbe vanificata l’attuazione del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, il quale diverrebbe un’inutile ripetizione del primo comma, ovvero del principio valido, ma tuttavia superato dal sistema giuridico-costituzionale, dell'”eguaglianza formale”, ovvero di una eguaglianza di per sé inidonea a garantire ai cittadini “pari opportunità” ed “uguali diritti”, quanto meno nelle disposizioni “di partenza”, e conseguentemente anche in sede di elettorato attivo (opportunità di scelta) e passivo (diritto di accesso alle cariche: art. 51 della Costituzione).

12. – Né potrebbe invocarsi un principio di libertà politica (art. 49 della Costituzione) nel senso di esaltare gli interessi di coloro i quali si trovino in determinate condizioni personali, ivi compreso il sesso, la razza, la religione e via dicendo, essendo tali scelte o incostituzionali o, se legittime sotto tale ultimo profilo, sempre ammissibili, previa congrua motivazione in sede di presentazione della lista e di ammissione della stessa, essendo riconosciuta, grazie alla locuzione “di norma”, ove argomentata, qualsiasi legittima volontà, se costituzionalmente tutelata.

Considerato in diritto

1. – Il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 dal titolo “Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale”. La disposizione, che si riferisce all’elezione dei consiglieri comunali nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, recita: “Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore a due terzi”. Ad avviso del giudice remittente detta norma contrasterebbe con gli artt. 3, primo comma, 49 e 51, primo comma, della Costituzione.

Questa Corte, pertanto, è chiamata a decidere se la norma che stabilisce una riserva di quote per l’uno e per l’altro sesso nelle liste dei candidati, sia compatibile col principio di eguaglianza enunciato nel primo comma dell’art. 3 e confermato, per quanto riguarda specificamente l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, dal primo comma dell’art. 51; nonché col diritto di tutti i cittadini, garantito dall’art. 49, “di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; diritto di cui la presentazione delle liste dei candidati alle elezioni costituisce essenziale estrinsecazione.

2. – Il Consiglio di Stato si è dato carico, in primo luogo, dell’interpretazione della norma; questione del resto posta come unico motivo d’appello contro la sentenza del T.A.R. della Basilicata sul quale il giudice a quo deve pronunciarsi.

Il legislatore, nello stabilire la quota di riserva per l’uno e per l’altro sesso nelle liste dei candidati al consiglio comunale, ha usato la locuzione “di norma”, espressione che, secondo il giudice di primo grado, indicava il carattere solo programmatico e d’indirizzo della disposizione. Il giudice d’appello, invece, uniformandosi a proprie precedenti decisioni, ritiene che essa abbia carattere precettivo, e che tale lettura venga confermata dalla successiva modifica legislativa intervenuta con la legge 15 ottobre 1993, n. 72. Non vi sono motivi per discostarsi da questa interpretazione, del resto già enunciata dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato.

3. – Si può quindi passare all’esame del merito della questione, valutando in primo luogo, congiuntamente, per la loro intima connessione, i profili di violazione dell’art. 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione.

La questione è fondata.

Sostiene il giudice remittente che il principio di eguaglianza secondo cui “tutti sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3, primo comma) si pone “prima di tutto come regola di irrilevanza giuridica del sesso e delle altre diversità contemplate”.

Tale regola, è a sua volta ribadita, in materia di elettorato passivo, dall’art. 51, primo comma: “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”; eguaglianza che, secondo il giudice remittente, non può avere significato diverso da quello dell’indifferenza del sesso ai fini considerati.

Detta lettura del dettato costituzionale non può non essere condivisa. Essa corrisponde infatti al significato letterale ed esplicito della formula adottata, ed al suo collegamento con il primo comma dell’art. 3. Anzi, proprio con riferimento alla formulazione di questa norma, potrebbe apparire superflua la specificazione “dell’uno e dell’altro sesso”, essendo di per sé sufficiente l’espressione “tutti i cittadini”; ma è invece comprensibile che i costituenti – così come già nell’art. 48 avevano ribadito “sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, ..” – abbiano voluto rafforzare, in riferimento agli uffici pubblici e alle cariche elettive, il precetto esplicito dell’eguaglianza fra i due sessi. Va tenuto conto del contesto storico in cui essi operavano: le leggi vigenti escludevano le donne da buona parte degli uffici pubblici, e l’elettorato attivo e passivo, concesso loro nel 1945 (decreto legislativo luogotenenziale 1 febbraio 1945, n. 23), era stato per la prima volta esercitato in sede politica con la elezione della stessa Assemblea costituente. Anche dai lavori preparatori e dal raffronto del testo della Carta costituzionale con quello proposto dalla commissione dei settantacinque, si ricava che si volle sottolineare l’eguaglianza fra i due sessi, nel significato prima ricordato, senza possibilità di dubbi: fu aggiunta la menzione delle cariche elettive, e fu soppresso l’inciso “conformemente alle loro attitudini” nel timore che potesse giustificare il mantenimento di esclusioni discriminatrici nei confronti delle donne.

4. – Posto dunque che l’art. 3, primo comma, e soprattutto l’art. 51, primo comma, garantiscono l’assoluta eguaglianza fra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità, ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la “candidabilità”. Infatti, la possibilità di essere presentato candidato da coloro ai quali (siano essi organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse leggi elettorali, amministrative, regionali o politiche attribuiscono la facoltà di presentare liste di candidati o candidature singole, a seconda dei diversi sistemi elettorali in vigore, non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto, per beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo sancito dal richiamato primo comma dell’art. 51. Viene pertanto a porsi in contrasto con gli invocati parametri costituzionali la norma di legge che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati.

5. – Tanto basta per dichiarare la illegittimità costituzionale della norma sottoposta al giudizio di questa Corte, nondimeno alcune ulteriori considerazioni possono chiarire ancor meglio altri aspetti della questione.

Risulta dai lavori preparatori, che la disposizione che impone una riserva di quota in ragione del sesso dei candidati, seppure formulata in modo per così dire “neutro”, nei confronti sia degli uomini che delle donne, è stata proposta e votata (dopo ampio e contrastato dibattito) con la dichiarata finalità di assicurare alle donne una riserva di posti nelle liste dei candidati, al fine di favorire le condizioni per un riequilibrio della rappresentanza dei sessi nelle assemblee comunali. Nell’intendimento del legislatore, pertanto, la norma tendeva a configurare una sorta di azione positiva volta a favorire il raggiungimento di una parità non soltanto formale, bensì anche sostanziale, fra i due sessi nell’accesso alle cariche pubbliche elettive; in tal senso essa avrebbe dovuto trarre la sua legittimazione dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione.

6. – Non è questa la sede per soffermarsi sul dibattito dottrinale, storico e politico che si è sviluppato intorno ai concetti di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale, e conseguentemente al nesso che intercorre fra il primo ed il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione.

Certamente fra le cosiddette azioni positive intese a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, vanno comprese quelle misure che, in vario modo, il legislatore ha adottato per promuovere il raggiungimento di una situazione di pari opportunità fra i sessi: ultime tra queste quelle previste dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) e dalla legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l’imprenditoria femminile). Ma se tali misure legislative, volutamente diseguali, possono certamente essere adottate per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica, o, più in generale, per compensare e rimuovere le diseguaglianze materiali tra gli individui (quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali), non possono invece incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali.

In particolare, in tema di diritto all’elettorato passivo, la regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell’art. 51, è quella dell’assoluta parità, sicché ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato.

È ancora il caso di aggiungere, come ha già avvertito parte della dottrina nell’ampio dibattito sinora sviluppatosi in tema di “azioni positive”, che misure quali quella in esame non appaiono affatto coerenti con le finalità indicate dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, dato che esse non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.

7. – Questa Corte nel corso degli anni dal suo insediamento ad oggi, ogni qual volta sono state sottoposte al suo esame questioni suscettibili di pregiudicare il principio di parità fra uomo e donna, ha operato al fine di eliminare ogni forma di discriminazione, giudicando favorevolmente ogni misura intesa a favorire la parità effettiva. Ma, val la pena ripetere, si è sempre trattato di misure non direttamente incidenti sui diritti fondamentali, ma piuttosto volte a promuovere l’eguaglianza dei punti di partenza e a realizzare la pari dignità sociale di tutti i cittadini, secondo i dettami della Carta costituzionale.

C’è ancora da ricordare che misure quali quella in esame si pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio supremo della nostra Repubblica.

È opportuno, infine, osservare che misure siffatte, costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. A risultati validi si può quindi pervenire con un’intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l’effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare. Determinante in tal senso può risultare il diretto impegno dell’elettorato femminile ed i suoi conseguenti comportamenti.

Del resto, mentre la convenzione sui diritti politici delle donne, adottata a New York il 31 marzo 1953, e la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione, adottata anch’essa a New York il 18 dicembre 1979, prevedono per le donne il diritto di votare e di essere elette in condizioni di parità con gli uomini, il Parlamento europeo, con la risoluzione n. 169 del 1988, ha invitato i partiti politici a stabilire quote di riserva per le candidature femminili; è significativo che l’appello sia stato indirizzato ai partiti politici e non ai governi e ai parlamenti nazionali, riconoscendo così, in questo campo, l’impraticabilità della via di soluzioni legislative.

Spetta invece al legislatore individuare interventi di altro tipo, certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della persona umana, per favorire l’effettivo riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte misure, come si è detto, possono essere in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali, economiche e sociali.

Resta comunque escluso che sui principi di eguaglianza contenuti nell’art. 51, primo comma, possano incidere direttamente, modificandone i caratteri essenziali, misure dirette a raggiungere i fini previsti dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione.

8. – Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma impugnata, per violazione degli artt. 3 e 51 della Costituzione, restando assorbito l’ulteriore profilo d’illegittimità costituzionale sollevato in ordine all’art. 49.

In applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa all’art. 7, primo comma, ultimo periodo della stessa legge 25 marzo 1993, n. 81, che contiene l’identica prescrizione per le liste dei candidati nei Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti. Trattandosi di disposizioni sostitutive contenenti misure analoghe in contrasto coi principi affermati nella odierna decisione devono parimenti essere dichiarate costituzionalmente illegittime le nuove formulazioni degli stessi art. 5, secondo comma, ultimo periodo, e art. 7, primo comma, ultimo periodo, introdotte dall’art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415.

Ritiene inoltre la Corte che debba esser fatta ulteriore applicazione dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953 nei confronti delle misure che prevedono limiti, vincoli o riserve nelle liste dei candidati in ragione del loro sesso; misure, introdotte nelle leggi elettorali politiche, regionali o amministrative ivi comprese quelle contenute in leggi regionali, la cui illegittimità costituzionale deve ritenersi conseguenziale per la sostanziale identità dei contenuti normativi, non potendo certamente essere lasciati spazi di incostituzionalità (da cui discenderebbero incertezze e contenzioso diffuso) in materia quale quella elettorale, dove la certezza del diritto è di importanza fondamentale per il funzionamento dello Stato democratico.

Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale anche delle norme seguenti:

art. 4, secondo comma, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), come modificato dall’art. 1, della legge 4 agosto 1993, n. 277;

art. 1, sesto comma, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle Regioni a statuto ordinario);

artt. 41, terzo comma, 42, terzo comma e 43, quarto comma, ultimo periodo, e quinto comma, ultimo periodo, (corrispondenti alle rispettive norme degli artt. 18, 19 e 20 della legge regionale Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del decreto del Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13 gennaio 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni comunali);

art. 6, primo comma, ultimo periodo, della legge regionale Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, nonché modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);

art. 32, terzo e quarto comma, della legge regionale Valle d’Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice sindaco e del consiglio comunale).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale);

Dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni:

art. 7, primo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81;

art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415 (Modifiche ed integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81);

art. 4, secondo comma, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, come modificato dall’art. 1, della legge 4 agosto 1993, n. 277, (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati);

art. 1, sesto comma, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario);

artt. 41, terzo comma, 42, terzo comma, e 43, quarto comma, ultimo periodo, e quinto comma, ultimo periodo (corrispondenti alle rispettive norme degli artt. 18, 19 e 20 della legge regionale Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del decreto del Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13 gennaio 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni comunali);

art. 6, primo comma, ultimo periodo, della legge regionale Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, nonché modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);

art. 32, terzo e quarto comma, della legge regionale Valle d’Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice sindaco e del consiglio comunale).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 settembre 1995.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 12 settembre 1995.