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Articoli e note

n. 7-8/2003

LEONARDO SPAGNOLETTI (*)

Un ministro senza grazia e con poca giustizia:

qualche osservazione a margine del "caso Sofri"

 

Il sito del Ministero della Giustizia riporta molto opportunamente l’articolo del ministro Castelli sulle ragioni della sua decisione "…di non trasmettere al Presidente della Repubblica la pratica relativa alla domanda di grazia di Adriano Sofri", apparso su "La Padania - Mitteleuropa" del 19 luglio 2003, in prima pagina e con prosecuzione in terza.

Sul piano strettamente politico ognuno può condividere o biasimare sia la decisione, sia i modi della sua diffusione, tramite un quotidiano se non di partito almeno di "area" e non attraverso un comunicato ufficiale, probabilmente più consono all’oggetto e alla veste del "decisore".

Sul piano giuridico, però, e nonostante debba presumersi che il ministro si sia consultato coi suoi uffici sugli aspetti tecnici, alcune affermazioni suscitano perplessità, tanto più inquietanti (in senso giuridico, ovviamente) in quanto provenienti dal ministro che una volta si denominava di "grazia e giustizia" ed ora solo "della giustizia".

Certo il mutamento della "ragione sociale" di un ministero non incide in sé né sulla sua collocazione costituzionale né sulle sue prerogative; ma pure, se in qualche misura è vero che "nomina sunt consequentia rerum", suscita riflessioni sull’evoluzione della c.d. costituzione materiale e di quel complesso di istituti, norme, orientamenti giurisprudenziali, consuetudini e prassi, individuati da quella espressione riassuntiva, di largo uso nel lessico giuridico, che è il c.d. "diritto vivente".

Nel suo lungo articolo il ministro Castelli muove da una premessa ineccepibile: "…spetta al Capo dello Stato di concedere la grazia ai condannati, ma ciò può essere fatto solo su proposta del Guardasigilli che se ne assume la responsabilità politica" in "…una sorta di concerto, dunque, nel quale se il Ministro non propone la grazia, il Capo dello Stato non può concederla".

E’ opinione dominante, infatti, che la grazia sia atto "misto", di natura amministrativa ma con contenuti di "politicità" alquanto accentuati, al quale concorrono i due organi, anche se non propriamente in posizione "paritaria" posto che la decisione finale spetta al Capo dello Stato; rimane opinabile, piuttosto, se il ministro abbia assoluta discrezionalità in ordine all’an della proposta, o se invece sia più aderente alla prevalenza "presidenziale" del potere che egli formuli comunque una proposta, se del caso negativa, ciò che potrebbe aprire il discorso giuridico su altri scenari, non escluso quello della legittimità di un’inerzia nella formulazione della proposta e dell’eventuale giustiziabilità della medesima.

E’ indubbio, invece, che il provvedimento di grazia, dovendo, al pari di tutti gli atti assunti dal Presidente della Repubblica, esser controfirmato dal ministro proponente (e per gli atti di valore legislativo anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri), trasferisce sul Ministro della giustizia la responsabilità dell’atto di clemenza.

Fin qui l’articolo del ministro si limita a delineare, con sostanziale correttezza anche se in modo sommario, i tratti giuridico-costituzionali dell’istituto.

Di seguito, però, Castelli passa a enumerare una serie di "fatti", i primi due (l’assassinio del commissario Luigi Calabresi; la condanna definitiva di Sofri come mandante dell’omicidio) inconfutabili, in quanto, rispettivamente, storico e processuale; al terzo, che pure è un fatto storico obiettivo, il ministro connette conseguenze palesemente erronee.

"Sofri -scrive il ministro- non ha mai chiesto la grazia. Eppure il pentimento del reo e la richiesta da questi avanzata della grazia è (forse voleva dire "sono"?!?) un dato fondamentale nella valutazione della sua concessione".

Ebbene, questa affermazione può essere smentita da qualsiasi studente appena informato del diritto costituzionale e del diritto processuale penale.

Basta leggere l’art. 681 comma 4 del codice di procedura penale per apprendere che "La grazia può essere concessa anche in assenza di domanda o proposta", non della proposta del Ministro ma di quella, disciplinata dal comma 3 della stessa disposizione, proveniente dal presidente del consiglio di disciplina dell’istituto di prevenzione e pena se il condannato è detenuto; e anche questo è un "fatto", normativo, incontestabile.

Insomma, un errore da matita rossoblu, nel caso dell’autore decisamente da doppio segno rosso.

E poco importa se il ministro riconosca la "coerenza" della motivazione dell’interessato, che non avanza domanda di grazia perché si proclama innocente.

Infatti, a ribadire che non si tratta di una svista, poche righe dopo Castelli sostiene ancora che "In questo ambito è un dato che la richiesta avanzata dal reo diventa condizione necessaria anche se non sufficiente ai fini della concessione della grazia".

Forse il ministro, o i collaboratori che lo hanno informato, si riferiscono al codice di procedura penale del 1930, visto che il codice vigente, risolvendo un annoso dibattito dottrinale, ha sancito a lettere chiarissime il "diritto" del condannato a "non chiedere la grazia"; insomma, se ovviamente non c’è un diritto alla grazia non c’è però l’onere di chiederla per ottenerla, come del pari non esiste un diritto a espiare la pena, ragion per cui si ritiene che la grazia non può essere rifiutata se concessa.

La questione non è, come tante tra quelle giuridiche, di lana togata caprina perché concerne la stessa sfera della dignità della persona, anche se condannata con sentenza definitiva.

L’istituto della grazia, com’è noto, è antichissimo e risale alle prerogative sovrane, quando, nello Stato assoluto, tutto il potere (di far le leggi, di farle applicare, di sanzionarne la violazione) apparteneva al Re e ne era emanazione.

La sua evoluzione, però, lo indirizza nella sfera di un atto di clemenza che trae fondamento da ben altre ragioni che non la "graziosa volontà del Sovrano", in funzione correttiva di un’applicazione della pena che non risulti espressiva di una giustizia effettiva, sentita come tale dalla coscienza sociale, o almeno da una parte non minoritaria di essa, come quando essa risulti, nei fatti, priva di quella che, oltre all’afflizione, è la sua funzione primaria costituzionale, ovvero l’emenda, la risocializzazione, il reinserimento del condannato nell’ambito della comunità.

Certamente un istituto da utilizzare "cum grano salis", e del quale pure nell’esperienza italiana si è fatto largo uso, anche per delitti gravi, e forse non sempre in modo appropriato.

In ogni caso un atto di clemenza che non è condizionato dalla previa domanda dell’interessato, sia esso o meno detenuto, proprio perché il condannato, ogni condannato, conserva il diritto di potersi proclamare innocente e quindi di rivendicare le sue ragioni, anche se rispetta la volontà (questa sì sovrana) espressa nella sentenza definitiva e non si sottrae, come nel caso di Adriano Sofri, alla sua esecuzione.

Ogni altra opinione e ragione del ministro Castelli merita rispetto in quanto opinione, e riflessione in quanto ragione o argomento; anche se le ragioni enumerate sembrano configurare una sovrapposizione di piani e questioni giuridicamente non sostenibile.

Un "fatto" è la questione della grazia a Sofri e a qualsiasi altro condannato, altra questione se vi possano o debbano essere altri atti di clemenza individuale con funzioni di "pacificazione", ciascuno da valutare separatamente e non collegabili in una sorta di impropria grazia "collettiva" o compensativa, altra ancora è la questione del varo di una legge di amnistia o indulto.

La questione della grazia a Sofri o ad altri condannati, da considerare doverosamente caso per caso e senza impropri collegamenti, appartiene alla sfera della giustizia, dell’opportunità dell’esecuzione di una pena nei confronti di un soggetto, se questi sia già reinserito "socialmente" e la sua liberazione non appaia ferire la sensibilità delle vittime del reato e della società civile, o almeno non appaia ferirla più di quanto invece la soddisfi.

La questione dell’amnistia o dell’indulto rientra tutta, invece, nella sfera delle scelte politiche, appartenenti al parlamento, e più in particolare della politica giudiziaria.

Una distinzione forse sottile per l’uomo della strada, ma che non può sfuggire a chiunque si occupi di questioni giuridiche, e tanto meno al ministro della giustizia, che altrimenti corre il rischio non solo di essere "senza grazia" (come nella sua denominazione costituzionale aggiornata) ma anche di poca giustizia.

Piccole e sommesse osservazioni, di un giurista "pratico" qualsiasi, che non si riconosce "sodale" di Sofri ma solo del diritto.

(*) Consigliere del T.A.R. Puglia-Bari.


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