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Articoli e note

n. 7-8/2007 - © copyright

FABIO SAITTA
(Ordinario di diritto amministrativo
nella Facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro)

L’impugnazione del permesso di costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero (ed imprecisato) ampliamento della legittimazione a ricorrere*

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1. Com’è noto, l’art. 10 della legge-ponte n. 765 del 1967 – nel sancire che «[c]hiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della concessione edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione» – era parso, in un primo tempo, sovvertire tutto l’impianto della legittimazione a ricorrere in campo edilizio.

La dottrina sembrava non dubitare che il legislatore, recependo i suggerimenti già da tempo da essa formulati [1], avesse introdotto l’azione popolare in materia edilizia [2] e, pur nutrendo, in alcuni casi, dubbi sull’estensione illimitata della legittimazione [3], l’aveva complessivamente accolta con favore come indice della volontà legislativa di garantire, nel modo più completo, il rispetto delle previsioni urbanistiche [4]. La possibilità per «chiunque» di impugnare le licenze edilizie veniva considerata un sagace strumento per superare la prassi tradizionale, che conduceva ad ammettere il solo ricorso del proprietario c.d. frontista, cioè di colui che ricevesse dalla costruzione assentita un danno – per diminuzione di aria, luce, veduta, ecc. – all’immobile di sua proprietà [5], con esclusione perfino dell’abitante dello stesso quartiere [6].

Senonchè, il Consiglio di Stato, che, pure si era in un primo momento orientato nello stesso senso [7], ha radicalmente mutato avviso e, un paio di anni dopo, ha recisamente negato l’ipotesi dell’azione popolare, affermando che, anche a seguito della novella dell’art. 31 della legge n. 1150 del 1942 ad opera del citato art. 10 della legge-ponte, la legittimazione all’impugnazione delle liceze edilizie spetta esclusivamente ai titolari di un «interesse legittimo» (inteso come interesse «qualificato» dall’ordinamento e non soltanto «differenziato» nei confronti degli altri) [8].

Non è nostra intenzione esaminare nel dettaglio quest’ultima sentenza, ormai da tempo a tutti nota come la «decisione del “chiunque”» [9], ossia valutare l’esattezza dell’esegesi dalla medesima proposta – che certamente avrebbe potuto essere diversa, come d’altronde sostenuto dalla prevalente, anche autorevole, dottrina [10], ma che altrettanto certamente ha notevolmente ampliato la cerchia dei legittimati [11] – né, tantomeno, occuparci del pur suggestivo problema del termine per l’esercizio dell’azione in esame, bensì svolgere alcune brevi considerazioni sulla successiva evoluzione giurisprudenziale al fine di evidenziarne alcuni dubbi e contraddizioni e tentare di individuarne i possibili approdi futuri.

2. Dal 1971 ai giorni nostri, la giurisprudenza, pur non avendo mai dubitato del fatto che la norma in esame non abbia introdotto un’azione popolare [12], ha mostrato notevoli oscillazioni in ordine al criterio da utilizzare per individuare i soggetti legittimati all’impugnazione dei titoli edilizi.

Com’è noto, la c.d. «decisione del “chiunque”», dopo aver esposto le ragioni che – a suo avviso – inducevano ad escludere l’introduzione di un nuovo tipo di azione popolare, aveva interpretato la norma derivandone il criterio del c.d. insediamento abitativo, in base al quale la legittimazione ad agire non sarebbe estesa a tutti i cittadini, ma solo a coloro che vantino la titolarità di un interesse che si pone in una situazione di stabile collegamento con l’area su cui il provvedimento contestato interviene.

L’aleatorietà di siffatto criterio, peraltro ribadito dalla giurisprudenza più recente [13], era stata subito notata dalla più accorta dottrina, che aveva ironicamente osservato che, al di là del fatto che la locuzione «insediamento abitativo», in quanto mutuata dal gergo degli architetti, è inadatta ad essere trapiantata nel linguaggio dei giuristi, introducendo tale concetto giuridico indeterminato, «non si sa dove si arriva, e forse domani un cittadino, assumendo e dimostrando di avere il proprio “insediamento devozionale” ad Orvieto e nella sua cattedrale, potrà pretendere di impugnare certo recentissimo provvedimento del Ministro per la pubblica istruzione» [14].

Annotando criticamente la «decisione del “chiunque”», l’illustre Autore aveva aggiunto che l’anzidetta formula necessitava di ulteriori elaborazioni, approfondimenti e precisazioni, in quanto constava di due parole che esprimono una localizzazione di interessi, il cui luogo appare, però, un’incognita, anche perché, se – come sembra doversi leggere ad un certo punto della sentenza – l’ambito dell’insediamento abitativo dovesse determinarsi in ragione della caratterizzazione dell’interesse del soggetto considerato, si dovrebbe concludere che la formula stessa è priva di un contenuto proprio e lascia le cose al punto in cui già si trovano; ciò, peraltro, in aperta contraddizione con il dichiarato proposito di chi l’ha redatta, che ha parlato senza mezzi termini di «apertura di una nuova prospettiva di difesa giurisdizionale», ossia, in sostanza, di un tipo di impugnazione intermedio tra il tradizionale ricorso giurisdizionale ed il ricorso popolare [15].

In definitiva, tale presunta «nuova prospettiva di difesa giurisdizionale», sfornita com’è di confini chiaramente definiti, era subito apparsa aleatoria, nella misura in cui finisce per affidare al criterio, piuttosto libero, del giudice l’individuazione degli interessi degni di tutela; ciò che, d’altronde, lo stesso Consiglio di Stato ammetteva, quando affermava che alla migliore definizione del concetto di «insediamento abitativo» avrebbe avuto modo di applicarsi la giurisprudenza in giusta misurata aderenza agli indici di qualificazione degli interessi che si traggono dalla vigente disciplina urbanistica e, al contempo, alle concrete situazioni che avrebbe preso in esame [16].

L’atteso chiarimento giurisprudenziale, però, non è mai arrivato.

Dall’esame delle fattispecie decise nei primi dieci anni di applicazione di tale nozione non potevano trarsi lumi, tanto che la Corte di cassazione si era sentita in dovere di definire la nozione stessa ricorrendo alle «zone» di cui è menzione in varie norme della legge urbanistica del 1942 [17].

Residuavano, però, ragioni di perplessità, in quanto la Corte – che, pur non dichiarandolo esplicitamente, mirava chiaramente a limitare le azioni di disturbo o pretestuose – non aveva indicato il fondamento della sua scelta («perché proprio le zone e non, per esempio, le circoscrizioni amministrative?») e, subito dopo aver enunciato il criterio delle zone ed aver negato l’azione ai soggetti qualificatisi semplicemente come residenti nel comune, aveva riconosciuto la titolarità dell’azione stessa al proprietario confinante, senza reputare necessario accertare se il suo fondo si trovasse nella medesima zona e dando così la sensazione di ravvisare la vera fonte di legittimazione al ricorso più nel danno alla proprietà immobiliare che in situazioni di altro genere [18].

A parte il fatto che, a ben guardare, già sulla base dei principi generali, ossia prescindendo dalla disposizione della legge-ponte qui in discussione, si può ritenere interessato e legittimato all’impugnativa il cittadino residente nella zona [19].

Dopo l’intervento della Cassazione, la giurisprudenza amministrativa ha continuato ad essere ondivaga, così dimostrando che, probabilmente, è il criterio dell’insediamento abitativo in sé a presentare un alto tasso d’incertezza, risultando sostanzialmente uno strumento il cui concreto utilizzo è rimesso all’amplissima, per non dire smisurata, discrezionalità del giudice.

Ed infatti, mentre talvolta è stata ritenuta irrilevante ai fini del riconoscimento della legittimazione la circostanza che il ricorrente fosse proprietario di un immobile ricadente nel territorio di un comune diverso [20], in altra occasione è stato escluso che fossero legittimati a ricorrere coloro che risiedevano «a distanza di almeno quattrocento metri» dai costruendi fabbricati ed erano divisi da essi «da consistente tratto di terreno urbanizzato» [21].

Ancor oggi, in definitiva, per riconoscere o meno la legittimazione a ricorrere, si continua ad utilizzare il concetto di «vicinitas» [22], che è quanto di più vago e generico ci possa essere.

La conferma che, in sostanza, le critiche di Guicciardi erano fondate e che – come la stessa giurisprudenza più recente candidamente ammette – «la rilevanza del criterio dello “stabile collegamento territoriale” tra il luogo di chi agisce in giudizio e quello interessato dall’intervento edilizio va verificata in concreto, caso per caso, in ragione della sua natura flessibile e non assoluta e della specifica qualità del soggetto che assume l’illegittimità della concessione edilizia» [23], ci viene fornita da una recente decisione del Consiglio di Stato, che ha escluso la sussistenza del c.d. stabile collegamento in presenza di un ricorso proposto da proprietari di immobili siti in zona non limitrofa all’area interessata e con diversa destinazione urbanistica [24].

Basta davvero questo per escludere la legittimazione?

3. Per dirimere questi (ed altri) dubbi, può forse essere utile approfondire un altro aspetto problematico emerso dall’ormai ultratrentennale elaborazione giurisprudenziale.

Ancorché certe sentenze, pure recenti, affermino che «la posizione legittimante all’impugnativa sussiste in capo a coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato e che facciano valere un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica, quale è quello della osservanza delle prescrizioni regolatrici dell’edificazione» [25], in realtà, al primitivo requisito della necessità di un rapporto diretto tra immobili – come si è visto, anche non contigui tra loro – ha fatto seguito il riconoscimento della tutelabilità di interessi che possono anche non essere di natura strettamente immobiliare [26].

In talune decisioni, in effetti, si parla più ampiamente di stabile collegamento che può derivare, oltre che dalla proprietà o dal possesso di un immobile ovvero dalla residenza o domicilio in detta zona, anche da «altro titolo di frequentazione di quest’ultima» [27].

Ancora più esplicitamente, è stato precisato che, con la legittimazione del «chiunque», il legislatore del 1967, se non ha introdotto un’azione popolare, «ha nondimeno espresso l’esigenza di tutelare nella sede giurisdizionale i valori urbanistici e quindi l’insediamento inteso quale stabile ubicazione degli interessi di vita dei soggetti insediati nella zona interessata da nuove costruzioni, quale che sia la loro natura (familiari, economici, ecc.)» [28].

Lo stesso Consiglio di Stato, però, è apparso ondivago in proposito, in quanto, pur avendo inizialmente affermato, in modo inequivocabile, che i cc.dd. «valori urbanistici» dei quali il ricorrente lamenti la lesione devono essere «intesi in senso ampio, quali valori inerenti all’ambiente di vita sociale» [29], ed aver ammesso la legittimazione ad impugnare le concessioni edilizie dei titolari di strutture commerciali dello stesso bacino d’utenza e concorrenti, ancorché dislocati in comuni diversi [30], ha più recentemente ritenuto «carente di legittimazione attiva il soggetto che si oppone ad un permesso di costruire adducendo la lesione di un interesse tipicamente commerciale che deriverebbe dalla realizzazione dell’opera, quando il titolare dell’interesse commerciale non sia insediato nella zona» [31].

Parrebbe, dunque, che, secondo il Consiglio di Stato, ai fini dell’impugnazione del permesso di costruire non possa ritenersi differenziato e qualificato l’interesse di ogni imprenditore a che le iniziative concorrenziali siano attivate nell’osservanza delle regole che presiedono all’azione amministrativa [32], dovendo siffatto interesse essere congiunto al c.d. insediamento nella zona interessata dall’intervento edilizio.

La stessa giurisprudenza di primo grado non sembra aver assunto una posizione univoca.

Alcune recenti sentenze si muovono, tutto sommato, sulla stessa linea del Consiglio di Stato, laddove, pur affermando che «la tutela giurisdizionale in materia di concessioni edilizie rilasciate a terzi non può essere limitata ai soli proprietari frontisti o confinanti, ma deve essere estesa anche ai non proprietari e a tutti coloro i cui interessi di vita (familiari, economici, ecc.) siano, però, comunque correlati all’interesse urbanistico della particolare disciplina di ciascuna zona – intesa quest’ultima quale entità territoriale con peculiari caratteristiche, cui dà rilevanza la normativa urbanistica – tanto da doversi riconoscere a detti interessi la natura di “interessi di zona”», precisano che «[l]a legittimazione all’impugnazione di una concessione edilizia va riconosciuta soltanto a coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento con l’area oggetto dell’intervento assentito e che facciano valere un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica, anche se correlato ad altro di natura economico-commerciale»: in sostanza, affinché possa ritenersi sussistente la legittimazione, occorre che all’interesse urbanistico al rispetto della disciplina urbanistico-edilizia si aggiunga «quello economico alla tutela dell’attività commerciale esercitata nella medesima area interessata dalle impugnate concessioni edilizie» [33].

Di diverso avviso si è, invece, mostrata altra giurisprudenza di primo grado, che, ad es., ha affermato espressamente che deve riconoscersi ai soggetti di sale cinematografiche collocate in varie parti della città la legittimazione a ricorrere avverso i provvedimenti di approvazione di un programma di riqualificazione urbano che preveda la formazione di un sistema di cinema multisala, anche se nessuna delle sale gestite dai ricorrenti insista in prossimità dell’area interessata dall’intervento di recupero urbanistico [34].

Più in generale, si è osservato che «se è vero che, in via generale, la legittimazione e l’interesse a ricorrere avverso una licenza commerciale e/o la connessa concessione edilizia si rinvengono nei terzi che esercitano lo stesso o un similare commercio nel territorio del medesimo Comune o, comunque, in zone prossime a quelle del nuovo insediamento, tuttavia, quando si tratta di grosse strutture di vendita, il concetto di vicinitas assume connotati del tutto peculiari e si espande fino a ricomprendere un’area anche molto estesa. Di conseguenza, la legittimazione e l’interesse all’impugnazione vanno riconosciuti alla società commerciale che operi nello stesso bacino d’utenza della concorrente, anche se ad una quarantina di chilmetri di distanza, atteso che il nuovo insediamento andrebbe a rivolgersi alla medesima clientela» [35].

Più corretta, a nostro avviso, è l’impostazione da cui muove un’ancor più recente decisione, nella quale è detto chiaramente che «[l]’operatore economico deve […] ritenersi, in quanto tale, legittimato ad impugnare la concessione edilizia assentita ad un suo concorrente, ma perché il suo interesse processuale possa ritenersi personale, attuale e diretto, devono concorrere due condizioni, e precisamente: 1) la certezza che l’immobile progettato verrà adibito all’attività concorrenziale; 2) la coincidenza totale o parziale del prevedibile bacino di clientela, tale da poter determinare un apprezzabile calo del volume d’affari del ricorrente»: in sostanza, «l’insediamento commerciale va considerato “nella zona” quando serve in tutto o in parte lo stesso bacino di clientela» [36].

Quest’ultima pronuncia, pur necessitando di alcune puntualizzazioni (che ci riserviamo di svolgere nel prosieguo), ci pare colga il punto centrale del problema, che – come in passato abbiamo cercato di dimostrare con riguardo a fattispecie sotto molti profili analoga [37] – dev’essere prospettata in termini non di vera e propria legittimazione, bensì di interesse processuale.

Si vuol dire, in altri termini, che, se si conviene sul fatto che un concetto di «vicinitas» (o di «stabile collegamento») che fosse circoscritto alla valutazione del dato urbanistico in senso stretto, dimodochè l’interesse vantato dai singoli in materia urbanistica risultasse tutelato in funzione della sola distanza tra le aree, sarebbe troppo angusto e che è più opportuno definire tale concetto avendo riguardo alla più elastica nozione di «bacino d’utenza», inteso come zona entro cui l’attività d’impresa trae il suo profitto [38], deve coerentemente ritenersi che, in simili casi, la differenziazione dell’interesse protetto sia data, in realtà, dalla semplice sussistenza della qualità di operatore del medesimo settore economico in cui opera (o opererà, non appena i locali saranno costruiti) il titolare del permesso di costruire, mentre l’intento di evitare azioni emulative può essere più proficuamente perseguito attraverso il filtro dell’interesse a ricorrere, che va escluso allorquando la nuova attività è inidonea ad arrecare alcun concreto pregiudizio a quella già avviata.

4. Ecco, allora, che si giunge, de plano, al terzo profilo problematico che ci prefiggiamo di approfondire.

Come notato dai più attenti commentatori, nella c.d. «decisione del “chiunque”», il Consiglio di Stato si era affrettato a precisare che l’insediamento abitativo legittima il singolo alla tutela giurisdizionale «semprechè, beninteso, egli abbia un interesse concreto, attuale e personale a dolersi dell’illegittimità dell’atto per il pregiudizio effettivo che questo gli abbia arrecato e che l’impugnativa tende a rimuovere»: non a caso, anche su quest’aspetto tali commentatori avevano incentrato le loro critiche, richiamando Guicciardi, laddove osservava che «per ricomprendere un interesse avente questi requisiti e questi caratteri basterebbe l’art. 26 del t.u. sul Consiglio di Stato, secondo la sua generale interpretazione, senza bisogno di ricercare altrove “l’apertura di nuove prospettive di difesa giurisdizionale”» [39].

In verità, quest’ultima osservazione guicciardiana, più che da una critica al rilievo attribuito dal Consiglio di Stato all’interesse a ricorrere, muoveva soprattutto dall’aperto dissenso rispetto al concetto di insediamento abitativo, che – secondo il Maestro – rappresenta un’inutile complicazione, specie se posto a raffronto con la chiara intenzione del legislatore, desumibile – a suo dire – dall’inequivocabile tenore letterale della disposizione, di introdurre una vera e propria azione popolare.

A prescindere da ciò, qui preme evidenziare come neanche sotto quest’ultimo aspetto la giurisprudenza abbia assunto posizioni nette.

Anche in tal caso, infatti, mentre alcune pronunce – escludendo la legittimazione ad impugnare (ancora una volta, a nostro avviso, si fa confusione tra legittimazione ed interesse a ricorrere) «qualora le opere siano prive di significativa lesività» [40] e/o gli atti impugnati non siano idonei a ledere i ricorrenti «direttamente e personalmente» [41] e/o ancora non sia stato indicato nell’impugnativa «la ragione, il come e la misura con cui il provvedimento impugnato si rifletta sulla propria ragione sostanziale determinandone una lesione concreta, immediata e attuale» [42] –sembrano ritenere indispensabile l’interesse ad agire tradizionalmente inteso, altre affermano in modo esplicito che, ove proposto da coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dall’intervento, il ricorso è ammissibile «anche a prescindere dalla concreta dimostrazione della sussistenza di un effettivo pregiudizio nei loro confronti» [43].

Se fosse esatta quest’ultima affermazione, verrebbe spontaneo chiedersi se – al contrario di quanto adombrato dai giudici di Palazzo Spada nella celebre decisione del 1970, che aveva posto l’accento sul profilo dell’interesse concreto ed attuale proprio per escludere che fosse stata introdotta un’azione popolare – l’interesse protetto attraverso la legittimazione del «chiunque» non sia in realtà un interesse superindividuale, ossia un interesse, proprio sì dell’individuo, ma facente capo alle comunità nelle quali esso s’inserisce, nel senso che il «chiunque» sia un ricorrente pur sempre «interessato», ma non solo alla propria ristretta vicenda, bensì a quelle, più ampie, della società in cui vive [44].

Sulla possibilità di poter prescindere tout court dalla sussistenza di un concreto pregiudizio in capo al ricorrente è lecito, tuttavia, avanzare seri dubbi, non foss’altro perché, con riguardo a fattispecie analoga, la giurisprudenza ha affermato che, «[i]n virtù del principio di cui all’art. 833 c.c., colui che intende impugnare l’autorizzazione commerciale altrui deve dare prova del vantaggio patrimoniale e non che gli deriverebbe dall’annullamento di tale autorizzazione, non essendo altrimenti possibile riconoscere un interesse qualificato in capo a colui che viola il predetto principio normativo» [45]. In tale ambito, in sostanza, si ritiene che il danno (correttamente, quella giurisprudenza non mette in discussione la legittimazione sostanziale) in capo al ricorrente non possa presumersi in virtù della mera appartenenza alla medesima area territoriale nella quale è sorta la nuova struttura di vendita [46] e debba essere valutato avendo riguardo al ramo merceologico per il quale è stata rilasciata l’autorizzazione impugnata [47].

Tale impostazione è stata recentemente utilizzata anche con riguardo all’impugnazione dei titoli edilizi, pervenendo così all’affermazione che «[l]o svolgimento da parte dei ricorrenti della stessa attività commerciale esercitata dai controinteressati, titolari della impugnata autorizzazione commerciale, di per sé, in assenza di ulteriori e precise circostanze che comportino l’invasione della sfera giuridico-patrimoniale dei ricorrenti medesimi, non costituisce situazione legittimante l’impugnativa delle autorizzazioni commerciali e di quelle edilizie rilasciate ad altri» [48].

E’ vero che, in quel caso, non c’è nessuna norma che legittimi «chiunque» a ricorrere, ma – come si è detto – una cosa è la legittimazione sostanziale, altro è l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c..

Va da sé, peraltro, che se, per l’impugnazione del permesso di costruire da parte dei terzi, si ritiene necessario un interesse personale, concreto ed attuale, se ne devono trarre le giuste conseguenze anche in ambito procedimentale, nel senso che, laddove un siffatto interesse (in quel momento, solo potenziale) vi sia (e, ovviamente, l’amministrazione sia in grado di individuarlo), i terzi devono poter interloquire con l’amministrazione nel corso del procedimento finalizzato al rilascio del titolo edilizio. Da qui il dissenso rispetto alla prevalente giurisprudenza, che, operando ingiustificate generalizzazioni, afferma che, «[i]n caso di rilascio di concessione edilizia lo stesso non deve essere preceduto dalla comunicazione dell’avvio del procedimento nei confronti dei residenti o proprietari di immobili nel comune interessato, non essendo gli stessi (pur se legittimati ad impugnare) ricompresi fra i soggetti nei confronti dei quali, ai sensi dell’art. 7, l. n. 241 del 1990, il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti» [49]. Ciò è esatto solo nella misura in cui non possono certo ritenersi «controinteressati» tutti coloro che risiedono nello stesso comune, mentre è errato se si ritiene che non debbano essere avvisati nemmeno coloro che, subendo anche un concreto pregiudizio dall’emanando titolo edilizio, potrebbero potenzialmente ricorrere avverso lo stesso.

5. Un intervento consistente, come questo, in alcune sparpagliate considerazioni non deve recare necessariamente delle conclusioni, anche perché, a ben guardare, non del tutto attinente al tema del Convegno, nella misura in cui, verosimilmente, non tratta di un’azione popolare.

Coerentemente, ci si limita, dunque, ad alcune brevissime notazioni di sintesi, in certo senso sparpagliate come le precedenti.

Probabilmente ha ragione il Consiglio di Stato quando afferma che il legislatore del 1967, nel riconoscere la legittimazione ad impugnare il permesso di costruire «quando vi sia un collegamento giuridico del soggetto con una non effimera situazione sulla quale incidono gli effetti dell’atto […], non solo ha tenuto presenti le posizioni sostanziali di coloro che sono lesi da questo, ma ha inteso anche salvaguardare il rispetto della legalità e dei valori sostanziali nelle materie urbanistica ed edilizia, più facilmente realizzabili proprio in quanto l’ordinamento consente a terzi di impugnare le concessioni illegittime» [50].

Non ci sembra, però, che, nei fatti, l’ampliamento della legittimazione operato dalla pur discutibile interpretazione giurisprudenziale della commentata disposizione della legge-ponte – legittimazione che, come precisato dalla giurisprudenza, ricomprende anche i titoli edilizi tacitamente assentiti [51] e si estende al condominio degli edifici qualora il permesso di costruire rilasciato a terzi sia lesivo di diritti inerenti alle parti condominiali [52] – abbia esercitato appieno quella funzione di garanzia che sembrava destinata a svolgere e/o sortito quei benefici effetti ai fini della certezza del diritto che, secondo i primi entusiastici commentatori, avrebbe dovuto produrre.

In altri termini, i dubbi sull’opportunità di una così ampia – e, soprattutto, imprecisata, in quanto rimessa alle valutazioni, caso per caso, del singolo collegio giudicante – legittimazione a ricorrere sorgono spontanei perché non sfugge a chi pratichi le aule giudiziarie che tale legittimazione, lungi dal consentire l’auspicato generalizzato controllo uti civis del corretto uso del territorio, che ovviamente sarebbe stato assai apprezzabile, ha finito per giustificare la proposizione di ricorsi a scopo «estorsivo», ossia finalizzati a veri e propri ricatti a danno del titolare del permesso di costruire, da parte di soggetti che, in realtà, non ricevevano da quest’ultimo il benché minimo pregiudizio. Si è verificato, insomma, proprio l’esatto contrario di quanto – all’epoca probabilmente a ragione – aveva sostenuto autorevole dottrina, che – oggi, col senno di poi, verrebbe da dire troppo sbrigativamente e semplicisticamente – aveva ritenuto infondato il timore di un’esplosione di ricorsi puramente ricattatori alla luce, da un lato, dell’esperienza positiva di altri processi ad azione popolare (in particolare, quello in materia elettorale) e, dall’altro, del fatto che «il ricatto vive in ragione delle possibilità di cedimento, in vista di un vantaggio, da parte di chi ne è vittima», mentre il titolare della licenza edilizia non avrebbe potuto, anche volendo, «sperare di liberarsi dell’incomodo ricorrente tacitandolo» in quanto la licenza stessa avrebbe potuto essere impugnata da «chiunque» altro [53].

Ora, sotto il primo profilo, è quantomeno discutibile che l’esperienza del giudizio in materia di operazioni elettorali possa reputarsi positiva, essendo stato, al contrario, autorevolmente rilevato che «il dubbio che dietro la maschera del cittadino elettore stiano quasi sempre i soggetti personalmente interessati (ossia i competitori elettorali del convenuto) è probabilmente qualcosa di più che un semplice interrogativo, e giustifica forse (anche se non legittima affatto) gli atteggiamenti francamente dissuasivi dall’esperimento di queste azioni assunti dalla giurisprudenza amministrativa più recente» [54].

Sotto il secondo profilo, mentre – come si è detto – certamente ci sono stati, e continuano ad esserci, ancorché forse non numerosissimi, i ricorsi a scopo ricattatorio, non sembra che dell’ampia legittimazione a ricorrere abbia beneficiato il nostro, purtroppo maltrattatissimo, territorio, essendo state assai poche le azioni esperite davvero per puro senso civico.

In conclusione, se alla disposizione della legge-ponte non si poteva davvero far dire di più di quanto le ha fatto sinora dire la giurisprudenza [55], forse sarebbe stato meglio cogliere la palla al balzo per affermare – ancorché in contrasto con le attuali linee di tendenza del processo amministrativo, che ormai da diversi anni sono indubbiamente nel senso dell’ampliamento della legittimazione processuale [56] – che, a seguito della formale abrogazione della disposizione stessa ad opera dell’art. 136 del testo unico sull’edilizia, si era tornati all’antico, ossia a quando, per impugnare i titoli edilizi, si ragionava con i tradizionali concetti di legittimazione ed interesse a ricorrere che vengono utilizzati per le altre impugnative [57].

 

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(*) Intervento al Convegno su: «Cittadinanza ed azioni popolari» - Copanello, 29-30 giugno 2007.

[1] A.M. Sandulli, Più legalità per le licenze edilizie, più severità per le costruzioni senza licenza, in Riv. giur. edil. 1962, II, 68 ss.; Id., Per una più piena realizzazione dello Stato di diritto, in Stato sociale 1960, 3 ss.; Id., La giustizia nell’amministrazione, in Amm. civ. 1961, n. 47-51, 165 ss.

[2] V. Spagnuolo Vigorita, Interesse pubblico e azione popolare nella «legge-ponte» per l’urbanistica, in Riv. giur. edil. 1967, II, 387 ss., spec. 392 ss.; A.M. Sandulli, L’azione popolare contro le licenze edilizie, ivi 1968, II, 3 ss.; F. Salvia – F. Teresi, Codice della legislazione urbanistica, Palermo 1958, 59; R. Di Lorenzo, Lineamenti di diritto urbanistico, in Rass. lav. pubbl. 1969, 587 ss.; G. Fragola, Le leggi urbanistiche edilizie, Padova 1969, 227; contra, F. Scalzi, Considerazioni sulla legge-ponte urbanistica, in Calabria giud. 1967, 351 ss.; C. Lopopolo, Pubblicità delle licenze edilizie e possibilità di ricorso, in Nuova rass. 1969, 283 ss.; dubitativamente, D. Rodella, La legislazione urbanistica in Italia alla luce delle modificazioni apportate con la «legge-ponte», in Città e società 1967, n. 6, 74. 

[3] E’ il caso, ad es., di A.M. Sandulli, L’azione popolare, cit., 4-7, che aveva proposto di restringere la portata del «chiunque» ai soli «componenti della comunità comunale».

[4] Su tale finalità della l. n. 765/1967, amplius, A. Servidio, La «legge-ponte» sull’urbanistica, in Cons. Stato 1967, II, 916 ss.

[5] V. Spagnolo Vigorita, op. cit., 393.

[6] Sul punto, riassuntivamente, R. Marrama, Sulla legittimazione del conduttore ad impugnare provvedimenti amministrativi lesivi del suo diritto di godimento, in Riv. giur. edil. 1966, II, 149 ss.

[7] Sez. V, 29 ottobre 1968 n. 1314, in Riv. giur. edil. 1968, I, 1444.

[8] Sez. V, 9 giugno 1970 n. 523, in Riv. giur. edil. 1970, I, 645, con annotazione contraria di G. D’Angelo.

[9] A seguito della nota critica di E. Guicciardi, La decisione del “chiunque”, in Giur. it. 1970, III, 1, 193 ss.

[10] Oltre agli Autori che si erano occupati già prima della questione (citati nella nt. 2), hanno criticato tale decisione, laddove esclude l’introduzione di un’azione popolare: G. De Sanctis Mangelli, Ancora sull’azione popolare in materia edilizia, in Riv. giur. edil. 1971, II, 55 ss.; E. Guicciardi, op. cit., ma, «a malincuore», esclusivamente sulla base del tenore letterale della disposizione; I.M. Grippaudo, Inammissibilità dell’azione popolare per impugnativa di licenze edilizie, in Nuova rass. 1971, 1315 ss.; F. Teresi, Considerazioni sull’azione popolare avverso le licenze edilizie e spunti ricostruttivi delle azioni popolari in generale, in Foro amm. 1971, 836 ss.

[11] E. Guicciardi, op. cit., 197.

[12] Ciò è, infatti, costantemente affermato sia dalla giurisprudenza amministrativa, di primo e di secondo grado, che dalla stessa Corte di cassazione: cfr., ex plurimis, Cons. St., Sez. V, 17 aprile 1973 n. 399, in Cons. Stato 1973, I, 589; Ad. plen., 7 novembre 1977 n. 23, ivi 1977, I, 1582; Sez. V, 10 luglio 1981 n. 360 e 16 aprile 1982 n. 277, ivi 1981, I, 739 e 1982, I, 480; Cass., Sez. un., 25 ottobre 1982 n. 5530, in Giur. it. 1983, I, 1, 390, con nota di F. Roselli, Le Sezioni unite della Cassazione si pronunciano sul «chiunque», in sede di regolamento di giurisdizione; Cons. St., Sez. V, 5 ottobre 1987 n. 598, in Riv. giur. edil. 1987, I, 1013; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 9 maggio 1990 n. 131, in Cons. Stato 1990, I, 893; Cons. St., Sez. V, 26 febbraio 1992 n. 143, 8 settembre 1994 n. 968, 13 maggio 1997 n. 483, 13 luglio 2000 n. 3904, 24 ottobre 2001 n. 5601, 30 gennaio 2003 n. 469 e 11 giugno 2003 n. 3290, in Foro it. 1992, III, 374; in Foro amm. 1994, 2099; 1997, 1380; 2000, 2654; 2001, 2821; in Giur. it. 2003, 1026; in Riv. giur. polizia 2003, 630; T.A.R. Campania-Napoli, Sez. II, 5 aprile 2004 n. 4022, in Foro amm.: TAR 2004, 1148; T.A.R. Lombardia-Brescia, 8 settembre 2004 n. 1053, in Riv. giur. edil. 2004, 2192; Cons. St., Sez. V, 7 luglio 2005 n. 3757, in Foro amm.: CdS 2005, 2249; T.A.R. Lazio, Sez. II bis, 4 ottobre 2005 n. 7749 e 2 novembre 2005 n. 10255, in Foro amm.: TAR 2005, 3181 e 3585.

[13] Ex multis, Cons. St., Sez. V, 1 luglio 2005 n. 3674, in Foro amm. : CdS 2005, 2227.

[14] Così E. Guicciardi, op. cit., 197.

[15] Il che, peraltro, sembrava ad E. Guicciardi, ibidem, «soltanto una inutile complicazione».

[16] Sul punto, G. De Sanctis Mangelli, op. cit., 59.

[17] Sez. un., n. 5530/1982, cit.

[18] In tal senso, F. Roselli, op. cit., 393-394.

[19] G.C. Mengoli, Manuale di diritto urbanistico, 4ª ed., Milano 1997, 983.

[20] Cons. St., Sez. V, n. 277/1982, cit.

[21] Cons. St., Sez. V, n. 598/1987, cit.

[22] Cfr., ad es., T.A.R. Sicilia-Palermo, Sez. I, 18 luglio 2006 n. 1666, in Foro amm.: TAR 2006, 2697.

[23] Così T.A.R. Abruzzo-L’Aquila, 25 agosto 2006 n. 649, in Foro amm.: TAR 2006, 2576.

[24] Sez. IV, 10 maggio 2007 n. 2255, in questa Rivista, n. 5/2007.

[25] Così T.A.R. Campania-Napoli, Sez. II, 23 giugno 2006 n. 7164, in Foro amm.: TAR 2006, 2151 (il corsivo nel testo è nostro).

[26] G.C. Mengoli, op. cit., 981-982. Su tale evoluzione giurisprudenziale, da ultimo, F. Manganaro, I ragazzi della via Paal ovvero come tutelare i residenti dalla trasformazione di un parco giochi attrezzato in un’area mercatale, in Urb. e app. 2007, 5 ss., spec. 7-8, a cui si rinvia anche per le relative indicazioni giurisprudenziali.

[27] T.A.R. Campania-Napoli, Sez. IV, 7 febbraio 2002 n. 727, in Foro amm.: TAR 2002, 650; T.A.R. Marche, 9 novembre 2001 n. 1161, in Foro amm. 2001, 2962.

[28] T.A.R. Lombardia-Brescia, n. 1053/2004, cit. (il corsivo nel testo è nostro). Anche Cons. St., Sez. V, 14 luglio 1995 n. 1076, in Foro amm. 1995, 1533, parla di interesse ad impugnare «riconducibile al radicamento degli interessi del soggetto nel contesto urbanistico in cui la costruzione assentita viene ad inserirsi».

[29] Sez. V, n. 277/1982, cit. (il corsivo nel testo è nostro)

[30] Sez. IV, 19 novembre 1997 n. 1298, in Foro amm. 1997, 3004, che precisa che, a tal fine, non occorre attendere il rilascio delle licenze commerciali, derivando l’immediata lesività delle concessioni edilizie dall’univocità della destinazione degli interessi dei concessionari.

[31] Sez. V, n. 469/2003, cit., diffusamente commentata da M. Alesio, Solo i residenti nel quartiere possono opporsi a nuove costruzioni, in Dir. & giust. 2003, n. 25, 103 ss.

[32] Come, invece, affermato da Sez. V, n. 360/1981, cit..

[33] T.A.R. Lazio, Sez. II bis, nn. 7749/2005 e 10255/2005, citt.; Sez. II, 21 ottobre 2005 n. 9336, in www.giustizia-amministrativa.it.

[34] T.A.R. Lombardia-Brescia, Sez. II, 2 ottobre 1998 n. 2298, in Urb. e app. 1999, 882, con nota di E. Boscolo.

[35] T.A.R. Lombardia-Brescia, 16 luglio 2003 n. 1080, in Urb. e app. 2004, 89, con nota di D. Chinello.

[36] T.A.R. Piemonte, Sez. I, 28 novembre 2006 n. 4461, in www.giustizia-amministrativa.it.

[37] F. Saitta, La legittimazione ad impugnare i bandi di gara: considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali, in Riv. trim. app. 2001, 527 ss., spec. 533 ss.. In argomento v. anche D. Vaiano, L’onere dell’immediata impugnazione del bando e della successiva partecipazione alla gara tra legittimazione ad agire ed interesse a ricorrere, in Dir. proc. amm. 2004, 693 ss.

[38] In tal senso, F. Degni, Riflessioni sul concetto di “stabile collegamento” quale presupposto per la legittimazione dei soggetti portatori di interessi a carattere commerciale nelle controversie relative a provvedimenti di natura urbanistica ed edilizia, in www.giustamm.it, § 2. Va, peraltro, segnalato che la più recente giurisprudenza sembra incline a riconoscere la legittimazione ad impugnare anche in capo al soggetto portatore di un interesse diverso dagli interessi presi in considerazione dalla normativa di settore attributiva del potere amministrativo contestato: cfr. Cons. St., Sez. V, 19 giugno 2006 n. 3485, in www.giustizia-amministrativa.it, diffusamente commentata da M. Interlandi, Brevi riflessioni sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di ampliamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, in www.giustamm.it, § 3.

[39] Così F. Teresi, op. cit., 842-843.

[40] Così Cons. St., Sez. V, 27 maggio 1993 n. 633, in Foro amm. 1994, 73, con riguardo ad una concessione edilizia riguardante lavori di scavo per la realizzazione di un cantinato sottostante la strada su cui il vicino vantava una servitù e totalmente interrato.

[41] Così Cons. St., Sez. IV, 21 novembre 2005 n. 6467, in Foro amm.: CdS 2005, 3270.

[42] Così Cons. St., Sez. V, n. 3757/2005, cit., che ha dichiarato l’impugnativa inammissibile per essersi gli interessati limitati ad indicare nel ricorso originario di essere «tutti abitanti del quartiere» oggetto del programma d’intervento, senza precisare alcunché con riferimento alla specifica vicinanza ed alla concreta lesione subita.

[43] Cons. St., Sez. VI, 24 settembre 2004 n. 6255 e 7 febbraio 1996 n. 182, in Giust. civ. 2005, 1429, in motivazione, e in Foro amm. 1996, 589; nello stesso senso, Sez. V, n. 143/1992, cit.; T.A.R. Molise, 5 settembre 2006 n. 723, in Giur. amm. 2006, II, 1606. In dottrina, P. Falcone, I titoli edilizi, in V. Mazzarelli (a cura di), Diritto dell’edilizia, Torino, 2004, 123, a cui si rinvia anche per ulteriori indicazioni giurisprudenziali.

[44] In tal senso si era espresso V. Spagnuolo Vigorita, op. cit., 395.

[45] T.A.R. Puglia-Bari, Sez. II, 9 dicembre 2003 n. 4433 e 11 marzo 2004 n. 1205, in www.giustizia-amministrativa.it; adde T.A.R. Lombardia-Milano, Sez. IV, 4 febbraio 2005 n. 247, ibidem.

[46] T.A.R. Puglia-Bari, Sez. II, 16 aprile 2004 n. 1850, in www.giustizia-amministrativa.it.

[47] T.A.R. Emilia Romagna-Parma, 10 marzo 2005 n. 145, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 29 marzo 2005 n. 668, ibidem.

[48] T.A.R. Sicilia-Catania, Sez. I, 6 giugno 2006 n. 894, in Rass. amm. sic. 2006, 1292 (il corsivo nel testo è nostro).

[49] In tal senso, tra le più recenti, T.A.R. Liguria, Sez. I, 22 maggio 2006 n. 480, in Foro amm: TAR 2006, 1632; già prima, Cons. St., Sez. VI, 15 settembre 1999 n. 1197, in Urb. e app. 1999, 1208, con nota di F. Caringella.

[50] Così Sez. V, 8 settembre 1994 n. 968, in Foro amm. 1994, 2109, in motivazione.

[51] Cass., Sez. un., 1 agosto 1994 n. 7148, in Giust. civ. 1995, I, 2201, con nota di B. Mameli.

[52] T.A.R. Lombardia, Sez. II, 24 febbraio 1992 n. 145, in Riv. giur. edil. 1992, I, 941; T.A.R. Puglia-Lecce, 11 dicembre 1991 n. 797, in Trib. amm. reg. 1992, I, 809; T.A.R. Sardegna, 5 luglio 1989 n. 530, ivi 1989, I, 3292.

[53] V. Spagnuolo Vigorita, op. cit., 395.

[54] A. Romano Tassone, Il controllo del cittadino sulla nuova amministrazione, in Dir. amm. 2002, 277.

[55] Diversamente, forse avrebbe potuto dispiegare appieno le sue potenzialità: S. Agrifoglio, Riflessioni critiche sulle azioni popolari come strumento di tutela degli interessi collettivi, in Riv. trim. dir. pubbl. 1974, 1404.

[56] Sul punto, ampiamente, Cons. Giust. Amm. Reg. sic., 17 aprile 1991 n. 152, in Giur. it. 1991, III, 1, 306, secondo cui ciò si sta verificando «sia in quanto è interesse prioritario dell’ordinamento realizzare la più ampia partecipazione dei cittadini in attuazione dell’art. 3 Cost., sia in quanto è in linea di massima incompatibile con l’attuale acuta consapevolezza dell’esigenza di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa la possibilità che esistano zone franche di attività amministrativa, sottratte a qualsiasi controllo giurisdizionale, nelle quali l’amministrazione, attesa l’insufficienza dei controlli interni, potrebbe operare liberamente, senza rispettare il principio costituzionale di buon andamento, che pure dovrebbe costituire il fondamentale canone del suo comportamento». Emblematica di questo ampliamento è la situazione dell’affittuario del bene espropriando, che dapprima ritenuto facultato al mero intervento ad adiuvandum nel giudizio instaurato dal proprietario del bene medesimo, è oggi ritenuto legittimato a proporre autonomo ricorso: da ultimo, Cons. St., Sez. IV, 28 dicembre 2006 n. 8047, in Foro amm.: CdS 2006, 3333.

[57] Giurisprudenza e dottrina sembrano, invece, di contrario avviso: cfr. T.A.R. Abruzzo-Pescara, 9 gennaio 2006 n. 11, in Foro amm.: TAR 2006, 251; A. Fiale – E. Fiale, Diritto urbanistico, 12ª ed., Napoli 2006, 1181.


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