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FRANCO RAPISARDA
(Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale
per la Regione siciliana)
Danno economico e danno
risarcibile: il problema
della prospettazione da parte del Pubblico Ministero
(Relazione alla giornata di studio sul tema: "La nuova conformazione della responsabilità amministrativa ed il problema della graduazione della condanna in base alla gravità della colpa", Cagliari, 12 novembre 2001)
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La formulazione del tema necessita di una preliminare esplicatio terminis giacché lo stesso concetto di danno è strettamente connesso a valori e consequenziali esigenze di tutela, nell’ambito di ogni sistema giuridico e della vita sociale che lo esprime.
Non è certo questa la sede per una sintesi storica che utilmente dovrebbe trarre il primo ausilio dalla terminologia e dallo sviluppo semantico per, poi, svilupparsi nelle riflessioni ed elaborazioni giuridiche proprie delle varie epoche e delle diverse aree culturali.
Oggi il problema giuridico del danno è quello di individuare i criteri di delimitazione cui adeguare una disciplina giuridica che garantisca e permetta di ripristinare le situazioni alterate, ovviamente, nei limiti ben chiari alla sensibilità giuridica latina: factum est illud; fieri infectum non potest.
Certamente il danno è essenzialmente riconducibile ad una identificazione strutturalmente negativa, quella del pregiudizio, nella forma dell’annullamento o della alterazione, di una situazione favorevole; con espressione sintetica diciamo che è privatio boni.
Sia le situazioni favorevoli, come la loro alterazione o annullamento, sono conseguenza o di fenomeni naturali o dell’opera dell’uomo; la distinzione del danno come fenomeno fisico dal danno come fenomeno giuridico è ancorata al criterio della antigiuridicità.
Trattare del danno significa scomporre gli elementi che costituiscono l’illecito e, quindi, individuare le ipotesi di lesione di interessi tutelati dal diritto. L’antigiuridicità è un concetto che rappresenta la prevalenza accordata dall’ordinamento ad un interesse rispetto ad un altro ad esso contrapposto, recependo i valori prevalenti o, comunque, dominanti della società storicamente individuata.
Tale apprezzamento costituisce il criterio discriminante dei fatti conformi al diritto e dei fatti antigiuridici e, in definitiva, il criterio di identificazione dei fatti giuridicamente dannosi.
Il danno è quindi, effetto di un fatto: il comportamento umano antigiuridico; a sua volta è, però, fatto rispetto ad un ulteriore effetto giuridico; l’effetto giuridico che ne consegue è la reazione dell’ordinamento diretta alla eliminazione del danno.
Una reazione, quindi, che agisce in senso inverso e dalla quale il danno stesso è caratterizzato e limitato. Tra "antigiuridicità" e "risarcibilità" corre un nesso di reciproca equivalenza così che solo il danno antigiuridico è risarcibile e, per converso, il danno non risarcibile è tale perché "non antigiuridico"; in definitiva, giuridicamente è "danno" solo il danno risarcibile.
Lo stesso ordinamento giudico, poi, stabilisce i termini del risarcimento attraverso criteri di collegamento e di quantificazione; abbiamo così introdotto il concetto di responsabilità che comporta la necessità di individuare il soggetto chiamato a rispondere ed, altresì, i profili soggettivi ed oggettivi che definiscono e, quindi, limitano, la sua obbligazione risarcitoria.
Tali premesse portano ad una conclusione: non esiste una distinzione giuridicamente rilevante tra danno prodotto e danno risarcibile poiché quella parte di danno che non è risarcibile non è giuridicamente danno e la responsabilità del soggetto è limitata alla parte di danno riconosciuto risarcibile.
Ciò, tuttavia, non comporta il disconoscimento del danno come fenomeno del mondo fisico e da ciò trae legittimazione la distinzione terminologica tra danno prodotto e danno risarcibile.
Ha scritto Carnelutti che "non vi è torto senza danno ; ma vi può essere danno senza torto" intendendo con "torto" il danno risarcibile o antigiuridico e con "danno" il pregiudizio non risarcibile perché non antigiuridico.
Precisati i termini, appare superfluo rilevare che è compito e prerogativa del legislatore stabilire le condizioni sotto le quali il danno produce gli effetti sanzionatori divenendo, così, fatto giuridicamente rilevante e fonte di responsabilità.
La lettura delle norme che regolano e definiscono i limiti anche quantitativi della responsabilità amministrativo-contabile non può, certo prescindere dalla esigenza di coerenza e compatibilità con la realtà sociale ed istituzionale, pur nella consapevolezza che non può indulgersi a prospettazioni disancorate dal sistema quale esso è, per rappresentare quello che si vorrebbe che fosse.
Il metodo empirico è l’unico che consente il rispetto delle attribuzioni e, certamente, il potere legislativo, ed esso soltanto, ha il compito di rilevare le esigenze di sviluppo e di evoluzione collettiva proponendo e deliberando gli strumenti giuridici più idonei.
A noi è solo consentito di rilevare i tratti essenziali che, oggettivamente, caratterizzano e definiscono i confini della responsabilità servendosi principalmente della lettura giurisprudenziale che è artefice del "diritto vivente", cioè, di quel diritto che regola concretamente la vita della collettività.
Sotto questo profilo cruciali sono le affermazioni contenute nelle sentenze della Corte Costituzionale in quanto evidenziano gli aspetti di coerenza costituzionale dei punti innovativi apportati dalla legislazione vigente all’istituto della responsabilità amministrativo – contabile.
La configurazione che emerge dalla legislazione sviluppatasi dal 1993 al oggi, afferma la C.C. nella sentenza n. 371 del 1998, trova riscontro nell’ordinamento del pubblico impiego , come regolato dal coevo decreto-legislativo n. 29 del 1993, "in una prospettiva di maggiore valorizzazione" dei risultati dell’azione amministrativa; da ciò "un assetto normativo in cui il timore delle responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie".
Ciò comporta che, mentre una parte del rischio di attività deve restare a carico dell’apparato, quanto resta a carico del dipendente o amministratore rappresenta una "combinazione di elementi restitutori e di deterrenza".
Per inciso, mi pare di potere dedurre che l’elemento risarcitorio e patrimoniale non sia scomparso dall’ordinamento, anche se tale elemento non assume
valenza assoluta e totalizzante, ma si accompagna, per essere qualificato ed allo stesso tempo limitato, dalla esigenza di deterrenza.
E’ chiaro che il profilo risarcitorio per il suo contenuto sanzionatorio già esprime una valenza dissuasiva; ma dovendo questa essere compatibile con la esigenza di evitare "rallentamenti e inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa" e di porre "la prospettiva della responsabilità " come "ragione di stimolo e non di disincentivo" si impone una proporzionalità della obbligazione risarcitoria, anche con conseguenze restitutorie ridotte.
La normativa vigente ha concretizzato tale proporzionalità, oltre che nella intrasmissibilità agli eredi della responsabilità e nel richiedere, come necessario profilo soggettivo, la colpa grave o il dolo, nella personalizzazione e graduazione della condanna tenendo conto della partecipazione avuta da ciascuno nella causazione dell’evento dannoso e, accedendo alla ricostruzione del presidente Maddalena, del grado della colpa, fermo restando il potere riduttivo connesso alla formula contenuta nell’art. 52 del T.U. delle leggi sulla Corte dei conti nonché dei vantaggi comunque conseguiti dalla amministrazione e dalla comunità amministrata. Tutti elementi che consentono di affermare, non solo che la responsabilità amministrativo-contabile ha specifici principi ed una propria disciplina che la differenziano dalla obbligazione risarcitoria civile ma, quel che più rileva in questa sede, che il "quantum" risarcibile ha criteri di calcolo propri e che pertanto il nocumento sanzionabile coincide con il "quantum" così determinato.
Ma, è ovvio, la quantificazione della condanna è specifica attribuzione del giudice a definizione del giudizio; da ciò il problema dei termini quantitativi che può assumere la richiesta di condanna del Pubblico Ministro ed, in particolare, se essa debba rappresentare, in termini aritmetici, il raffronto tra la consistenza del patrimonio pubblico, rispettivamente, prima e dopo il verificarsi del comportamento antigiuridico o se, invece, non possa prescindere dal valutare l’incidenza dei criteri di limitazione della responsabilità prima accennati.
La questione ha riflessi sulla posizione dei tre soggetti del giudizio : giudice, Pubblico Ministero e convenuto e trae origine dalla necessità di rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa del convenuto, pur in presenza della esigenza di consentire al giudice una libera valutazione degli elementi di fatto incidenti sulla quantificazione del danno risarcibile
La conciliazione di queste, in un certo senso, contrapposte esigenze è strettamente dipendente dalla formulazione della domanda contenuta nell’atto introduttivo del giudizio, cioè, discende dalla formulazione dell’atto di citazione emesso dal Pubblico Ministero.
La definizione dei giusti termini che deve assumere l’atto di citazione, a mio avviso, è essenzialmente connessa alla corretta individuazione della posizione e dei poteri processuali che al Pubblico Ministero sono attribuiti, specificamente, nel giudizio di responsabilità davanti alla Corte dei conti. Sarebbe fuorviante ritenere che il Pubblico Ministero assume una posizione processualmente indistinta qualunque sia il processo nel quale agisce; sia, cioè, esso un processo penale, civile o amministrativo-contabile.
Dicendo ciò non intendo affermare una diversa posizione istituzionale del P.M. a seconda della diversa autorità giurisdizionale presso la quale esercita la sua funzione.
Sotto questo profilo sono state ormai superate le diverse qualificazioni assunte nelle varie epoche storiche e nei diversi ordinamenti; giacché l’ordinamento repubblicano ha realizzato quella che viene indicata come "concezione italiana" del Pubblico Ministro.
A tale proposito la Corte Costituzionale ha precisato che esso "è un magistrato appartenente all’ordine giudiziario, collocato come tale in una posizione di istituzionale indipendenza da ogni altro potere" il quale "non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge: persegue, come si usa dire, fini di giustizia". E’ così venuta meno ogni diversa concezione; certamente quella che riteneva il P.M. rappresentante del potere esecutivo o della pubblica amministrazione presso l’autorità giudiziaria, ma altresì, ritengo, quella di tutore di interessi particolari della pubblica amministrazione formulata con particolare riferimento al Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti. Il massimo della soggettivizzazione compatibile con l’ordinamento vigente non potrebbe spingersi oltre la formula di rappresentante della collettività organizzata.
La rilevanza dei vantaggi comunque conseguiti dalla "collettività amministrata" prima richiamati quale criterio di quantificazione del danno risarcibile, esprimono in termini concreti, il prioritario fine del giudizio e dell’azione del Pubblico Ministero contabile; la tutela, appunto, dei vantaggi della comunità in coerenza con l’emergere di un sostanziale mutamento istituzionale, prodotto della cultura contemporanea, che colloca in posizione di centralità, nel sistema, "la comunità dei cittadini".
Ciò tuttavia, ripeto, non esclude che la sua azione sia diversamente strutturata nei diversi giudizi nell’ambito di un impianto processuale finalizzato alla tutela giudiziaria di interessi differenziati.
E’, così, ineludibile una rivisitazione della posizione processuale attribuita al Pubblico Ministero nel regolamento di procedura per i giudizi davanti alla Corte dei conti integrato, ai sensi dell’art. 26, dalle norme del c.p.c. in quanto applicabili e compatibili.
Sono certamente da tenere presenti le disposizioni riguardanti il Pubblico Ministero nel giudizio per resa di conto, nel giudizio di conto, nei giudizi ad istanza di parte, ma è prevalente e determinante, ai nostri fini, la sua posizione nel giudizio di responsabilità che è sempre e necessariamente iniziato, su denuncia o in base alla conoscenza, comunque acquisita, di fatti comportanti responsabilità, ad istanza del Procuratore regionale con atto di citazione a comparire davanti alla Sezione competente.
L’atto di citazione deve contenere tutti gli elementi di identificazione del giudizio ed, in particolare "la esposizione dei fatti e la qualità nella quale furono compiuti, l’oggetto della domanda e l’indicazione dei titoli su cui è fondata".
Con il deposito della citazione viene attivato il pieno dominio del giudizio da parte della Sezione giacché l’atto di citazione deve, anche contenere l’istanza, al Presidente, di fissazione della udienza per la discussione della causa.
Tale potere di iniziativa è preceduto da un potere istruttorio pieno, anzi, il giudizio inizia con l’istruttoria già definita giusta le prove allegate dal P.M., salva la facoltà del convenuto di dedurre prove contrarie ed il potere del collegio di integrarle.
Il giudizio davanti alla Corte conosce una fase istruttoria solo "eventuale" ed "integrativa" giacché comincia con l’udienza di discussione che nel giudizio civile presuppone precisate le conclusioni ed esaurita l’attività probatoria.
Il più incisivo chiarimento della posizione del Pubblico Ministero nel giudizio di responsabilità viene dalla Corte Costituzionale (sent. N. 104 del 22 febbraio-9 marzo 1989):" Il Procuratore Generale – ora Procuratore regionale - della Corte dei conti, nella promozione dei giudizi, agisce nell’esercizio di una funzione obiettiva e neutrale.
Egli rappresenta l’interesse generale al corretto esercizio, da parte dei pubblici dipendenti, delle funzioni amministrative e contabili, e cioè un interesse direttamente riconducibile al rispetto dell’ordinamento giuridico nei suoi aspetti generali ed indifferenziati; non l’interesse particolare e concreto dello Stato in ciascuno dei settori in cui si articola o degli altri enti pubblici in relazione agli scopi specifici che ciascuno di essi persegue, siano pure essi convergenti con il primo." Prosegue la stessa sentenza rilevando che " il giudizio di responsabilità mutua le sue forme dal processo civile per quanto applicabile, con la vigenza, però, relativamente all’aspetto istruttorio, sia del principio dispositivo che di quello inquisitorio, con ampia possibilità di produzione di prove consentita a tutte le parti del giudizio e con la possibilità per il giudice di integrare il materiale probatorio anche al di là delle allegazioni delle parti. La commistione è da porsi in relazione all’interesse che si persegue e alla finalità che il giudizio è diretto a realizzare …Ma indipendentemente ed anche prima della citazione e anteriormente al giudizio il Procuratore Generale può chiedere in comunicazione atti e documenti in possesso di autorità amministrative e giudiziarie… il potere che si esercita deve, tuttavia ed in ogni caso, essere ispirato ad un criterio di obiettività, di imparzialità e neutralità specie perché ha un fondamento di discrezionalità.
La discrezionalità richiede cautele e remore maggiori se sia diretta ad un interesse giurisdizionale, cioè alla acquisizione di elementi necessari ad una eventuale pronuncia del giudice.
Deve essere determinata da elementi specifici e concreti e non da mere supposizioni."
Di fronte a tanta chiarezza non ci resta che trarre dei corollari.
Il Pubblico Ministero nel giudizio di responsabilità davanti alla Corte dei conti svolge, certamente, una funzione di stimolo e di attivazione ma, altresì, una funzione di collaborazione giurisdizionale giacché è il portatore di quello stesso interesse che troverà compiuta realizzazione nella decisione del giudice, cioè, la realizzazione dell’ordinamento giuridico, secondo la espressione della Corte Costituzionale, "nei suoi aspetti generali ed indifferenziati".
Esaltando l’interesse perseguito si potrebbe indulgere alla tentazione di individuare nel Pubblico Ministero un organo di giurisdizione; ma non si può omettere di rilevare che la giurisdizione è sempre "decisione super partes" e, invece, l’attività del pubblico ministero si esaurisce nel chiedere e nel sollecitare. Mi sembra, pertanto, che esso possa, ragionevolmente, essere considerato "organo di giustizia" nell’ambito di una tecnica processuale che, svolgendosi nel rispetto dello schema tripolare –attore convenuto e giudice-, consente di rendere effettiva la dialettica fra le parti delle quali una rappresenta ed introduce nel giudizio l’interesse alla osservanza della legge.
Tale schema mentre garantisce al giudice la sua terziarietà ed estraneità alle domande proposte dalle parti, consente l’ingresso in giudizio di quella esigenza di tutela dell’interesse generale alla esatta applicazione della legge che, in alternativa, potrebbe essere garantita solo attraverso l’estensione di poteri inquisitori che consentano al giudice di decidere e provvedere oltre e a prescindere dalle domande delle parti.
Ma se il fine per il quale il Pubblico Ministero deve operare è costituito dalla esatta applicazione dell’ordinamento giuridico e, in definitiva, dalla realizzazione della giustizia, il suo comportamento processuale e, prima, istruttorio deve essere caratterizzato, non solo da lealtà e probità, come prescrive l’art. 88 del c.p.c. per le parti, ma da imparzialità, obiettività e, oso dire, "sincerità".
Ritengo che non sia compatibile con la sua funzione neanche il silenzio su fatti, circostanze e valutazioni anche di carattere tecnico giuridico che, per quanto favorevoli al convenuto, possano comunque essere rilevanti per il corretto svolgimento del giudizio e per la "giusta" sentenza.
Il corretto svolgimento del giudizio verrebbe certo compromesso dalla sottrazione alla cognizione del giudice di alcuni elementi di valutazione e di apprezzamento dei fatti eppertanto il comportamento processuale del Pubblico Ministero deve essere coerente con la sua funzione; potremmo dire che questa dà forma e, in certo senso, disciplina e regola il "modo di essere parte".
Se si vuole è questa una pozione processuale ambigua espressa nei broccardetti "parte solo formale", "parte imparziale" ecc; io personalmente vado sempre più affezionandomi alla espressione "organo promotore di giustizia". Certo conferma e, in certo senso, legittima tale ambiguità la collocazione nel c.p.c. dei vizi relativi all’intervento del Pubblico Ministero all’art. 158 assieme ai vizi derivanti dalla costituzione del giudice; questo consente di affermare che è una ambiguità, insieme, strutturale e funzionale.
La sentenza della Corte Costituzionale prima richiamata giustifica un ulteriore corollario. E’ quanto meno dubbio che l’azione del Pubblico Ministero presso la Corte dei conti possa essere considerata obbligatoria nel senso sancito dall’art. 112 della Costituzione per l’azione penale.
Dice la Corte che il potere esercitato dal Pubblico Ministero contabile "ha un fondamento di discrezionalità".
Il Pubblico Ministro contabile, a differenza di quello penale, valuta autonomamente i risultati della attività istruttoria svolta e decide se emettere l’atto di citazione in giudizio o il decreto di archiviazione. In particolare questo non è soggetto ad alcun procedimento di verifica e da ciò la giusta affermazione della Corte Costituzionale.
Non vi è motivo, in base all’ordinamento vigente, di negare al Pubblico Ministero contabile la facoltà di esprimere una autonoma valutazione di opportunità nell’assumere la iniziativa dell’azione, nel riassumere i giudizi interrotti o sospesi e nell’impugnare le sentenze sfavorevoli essendo solo tenuto a valutare se la specifica sentenza emessa soddisfi, comunque, l’interesse pubblico alla corretta applicazione della legge per la cui tutela è prevista la sua legittimazione. Il principio di obbligatorietà non è però assolutamente privo di rilevanza giacché, dopo l’attivazione del giudizio, questo procede di ufficio ed è preclusa una valida rinuncia in conseguenza della indisponibilità dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio.
La irretrattabilità dell’azione è stata in giurisprudenza collegata, al potere sindacatorio della Corte al quale si connette l’affermazione che, non solo la rinuncia, ma anche la richiesta di assoluzione non impedisce la definizione nel merito del giudizio. Credo che "l’interesse pubblico alla giustizia" costituisce il motivo unico che comporta sia la irretrattabilità dell’azione da parte del P.M. come il c.d. potere sindacatorio della Sezione.
Ciò posto non resta che trarre le conseguenze di tali principi.
Il Pubblico Ministero, nell’esercizio di una funzione obiettiva e neutrale, per la tutela dell’interesse generale al corretto esercizio delle funzioni amministrative e contabili, con criterio di imparzialità e neutralità, esprimendo una discrezionalità ricca di cautela può solo proporre domande e prospettare argomenti che vincolano il giudice solo in quanto costituiscono i limiti del giudizio anche in rapporto al contrapposto interesse del convenuto.
Quest’ultimo aspetto evidenzia l’esigenza di identificazione della domanda e quindi della sua corretta e completa formulazione nei suoi elementi costitutivi.
La stessa esprimendo, fondamentalmente, l’esigenza di tutela di uno specifico interesse che viene individuato anche attraverso una deduzione in negativo, nel senso che resta esclusa quella parte incompatibile con la domanda, deve essere formulata con riferimento al fatto il quale, poi, altro non è che il complesso degli accadimenti che riceveranno nella decisione del giudice la loro qualificazione giuridica
In altri e, forse, più chiari termini la esposizione del fatto nell’atto di citazione deve comprendere il comportamento umano e le circostanze che lo hanno accompagnato, l’effetto di pregiudizio che da esso è derivato, l’interesse giuridicamente qualificato che si chiede venga tutelato.
Quest’ultimo si identifica con il danno risarcibile, parte di quel più comprensivo effetto, cioè il pregiudizio economico, derivato dal comportamento dannoso attribuito al convenuto.
Questa domanda combinata con la difesa del convenuto determina l’oggetto e, quindi, i limiti del giudizio.
Entro questi limiti si sviluppa il processo nel suo profilo dispositivo di fondamentale rilievo per il convenuto il quale ha interesse a che il giudice non pronunci oltre i limiti della domanda, giacché certamente, la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato è un aspetto del principio del contraddittorio e quindi del diritto di difesa del convenuto.
L’interesse generale e, quindi, non disponibile, che il Pubblico Ministero introduce nel giudizio conferisce ad esso un profilo di inquisitorietà o , come si suole dire, un elemento sindacatorio che comporta, per il giudice, la necessità di indagare se nella domanda ci sia una componente di inesattezza o, comunque, di incompletezza.
La formulazione della domanda in termini tali che esprima una prospettazione del complessivo pregiudizio conseguente alla condotta del convenuto e di quella minore parte di esso che costituirebbe il danno risarcibile, non preclude al giudice la possibilità di valutare diversamente le circostanze esposte e le richieste "prospettate" dal Pubblico Ministero.
Ciò secondo il principio che solo il giudice ius dicit nel senso che egli soltanto è legittimato ad affermare la rispondenza della pretesa avanzata dall’attore, cioè, dal Pubblico Ministro, al diritto oggettivamente riconosciuto dalla legge.
La iudicatio importa il potere attribuito al giudice di decidere la controversia quale definita dalla diversa prospettazione dei fatti proposta dalle parti, ma se a questi fatti è connesso un interesse generale sottratto alla disponibilità delle stesse, il giudice deve indagare sulla veridicità dei fatti esposti ed il processo cessa di essere esclusivamente dispositivo e, ciò, anche per quanto attiene le prove del fatto dedotto.
La vigenza del principio iura novit curia, nel senso che appartiene esclusivamente al giudice la individuazione del "criterio" in base al quale valutare le opposte posizioni delle parti, riduce ad unità la funzione del giudice chiamato sia ad affermare la esistenza di una norma che preveda il fatto come fonte del diritto azionato, sia ad accertare la veridicità del fatto concreto e particolare che viene prospettato come rispondente a quello ipotizzato dalla norma che si assume debba essere applicata.
La domanda del Pubblico Ministero svolge, in questo contesto, più che un ruolo accusatorio, la funzione di consentire al convenuto una completa difesa prospettando l’ampio schermo nel quale potrà svolgersi l’azione di accertamento, di valutazione e di decisione del giudice.
Ritorna, così, all’evidenza il ruolo, nel quadro degli elementi strutturali dell’ordine giudiziario, che assume la figura del P.M.; pur essendo parte nella struttura dialettica del processo, egli trova giusta collocazione nell’ambito dell’ordine giudiziario solo in quanto, mi si consenta la debolezza della mia affezione terminologica, "promotore di giustizia"; in questo senso costituisce un ufficio che deve maturare nel suo interno un’azione coerente che, a sua volta, deve essere tradotta in una tecnica ed in una efficienza operativa affinata dalla convinzione del doveroso rispetto della dignità umana dei soggetti che, dalla attività istruttoria prima e dalla chiamata in giudizio, poi, sono raggiunti.
Ciò certamente, comporta scrupolo istruttorio e ponderatezza non disgiunte da continuo aggiornamento tecnico-giuridico ancorato alla evoluzione dei valori sociali normativamente riconosciuti e legittimati, ma, altresì, la convinzione maturata che la qualifica magistratuale impone di superare comode posizioni e di auspicare un giudizio che sia più autorevole per la sua struttura dialettica, più incisivo per la sua ricettività probatoria, più giusto per la pari tutela riconosciuta alla posizione di ciascuna parte, sempre attento al necessario equilibrio tra la esigenza di affermazione del diritto ed il rispetto della insopprimibile dignità umana dei soggetti convenuti.