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Articoli e note

n. 5/2004 - © copyright

ALESSANDRO PAGANO
(Consigliere del T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I)

Le Sezioni Unite della Cassazione ed il riparto nelle controversie in tema di pubblico impiego mobbizzato: alcune considerazioni sulla sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 8438/2004.

 

La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 4 maggio 2004 n. 8438 (in questa Rivista, n. 5/2004, pag. http://www.lexitalia.it/p/corte/casssu_2004-05-04.htm) ripartisce la giurisdizione in tema di lavoro presso una p.A. in una controversia che ha, sullo sfondo, una richiesta di tutela da mobbing (in generale, in argomento, cfr. Il mobbing di De Luise E., Finanze e Lavoro, 2003).

Lo scenario carico di malessere che questo triste fenomeno comporta, reca in sé delle “suggestioni” che tuttavia poco hanno a che fare con le regole di riparto fra G.O. e G.A.

Mi riferisco, in particolare, al titolo dato alla sentenza in esame nel numero 21 del 29 maggio 2004 da Guida al Diritto che segnala la decisione affermando: “Le cause sui risarcimenti per danno da mobbing sono devolute alla magistratura amministrativa”.

Evidentemente, la sentenza non afferma nulla di tutto questo né si radica alcuna giurisdizione esclusiva del G.A., per materia.

Le Sezioni Unite si limitano, pertanto, al riparto della giurisdizione secondo gli attuali infidi criteri in tema di lavoro preso le pubbliche amministrazioni.

Secondo uno schema già sperimentato, la Cassazione afferma dunque –verso la fine del suo dictum- che occorre datare gli atti “lesivi dei diritti del dipendente” e, riscontrato che nel caso in esame risultano “tutti riferiti ad epoca antecedente al 30 giugno 1998”, radica la giurisdizione presso il G.A. .

Dal testo pubblicato, non si evince se la domanda (che ha dato origine alla pronuncia della Cassazione) è stata avanzata prima o dopo il fatidico 15 settembre 2000: ciò che tuttavia è importante sottolineare è che, secondo la giurisprudenza della Corte, il superamento di tale data non determina il radicarsi della giurisdizione del giudice ordinario, ma trattandosi di termine decadenziale, comporta solo che, nell’ambito interno della giurisdizione del G.A., si ponga un problema di improponibilità assoluta della domanda e quindi l’assenza di ogni tutela.

Il punto è stato molto investigato in dottrina (R. Oriani, Sulla decadenza ex art. 69, 7° comma d.lg. 165/01 (ovvero come consentire alla Corte costituzionale di dichiararne l’incostituzionalità, Foro It., 2003, I; 2408 ss.) e costituisce buona base di partenza per la riflessione su alcuni profili problematici.

Innanzitutto, nella sentenza qui analizzata, la Corte laddove afferma “Il superamento della data del 15 settembre 2000, indicata dall’art. 45 comma 17 del dlgs 80/1998 (ed oggi dall’art. 69 settimo comma del dlgs n. 165 del 2001)..”, struttura una parentetica che è pregna di significato.

Come hanno rilevato le stesse Sezioni Unite (Ord. 24 gennaio 2003 n. 1124), al 15 settembre 2000 ha fatto riferimento l’art. 45, 17° comma dlgs 80 del 98 “ed ora [dal]l’art. 69, 7° comma, dlgs n. 165 del 2001, nel quale è stata usata una pressoché identica espressione letterale, divergente dalla precedente solo per effetto dell’avvenuto superamento, al momento della emanazione del provvedimento legislativo, della data presa in considerazione..”.

La ribadita precisazione ha una intensa portata ermeneutica poiché, ritenendo la variazione esclusivamente lessicale, come optano le SS. UU., si sbarra il passa a qualsivoglia tentativo di scorgere un eccesso di delega nel testo del Dlgs n. 165/2001, rispetto al Dlgs n. 80/1998: era stata questa la strada intrapresa dalla ordinanza del Tribunale di Napoli del 23 gennaio 2003 (Foro It. 2003, I, pg. 2491), ma che sembra destinata ad essere respinta dalla asseribile sussistenza di un diritto vivente della Suprema Corte in argomento, confortata da uguale indirizzo del Consiglio di Stato (CdS IV 5 aprile 2003 n. 1804).

Invero, la dottrina citata (Oriani R., op. cit., pg. 2413) aveva sollevato dubbi circa la spendibilità di un diritto vivente sulla interpretazione del combinato disposto dell’art. 69, 7° comma del Dlgs 165/2001, rispetto all’art. 45, 17° c. del Dlgs 80/1998 in chiave solo lessicale, osservando che “Per la verità, un tale indirizzo consolidato, da assurgere a diritto vivente, non risulta a chiare lettere dalle massime estratte dalle varie sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione al riguardo (comprese  Cass. nn. 8089, 8700, 9690 del 2002..”.

Sotto questo aspetto, la Cassazione in esame conferma che, per il massimo organo del sistema giudiziario, l’eccesso di delega sul punto non è riscontrabile, poiché si è in presenza, ripetesi, di un elementare rispetto legislativo della consecutio temporum.

Pari conferma giunge dalla sentenza n. 8438/04 circa il carattere decadenziale della data del 15 settembre 2000.

Si è al cospetto, per la Corte, di una decadenza sostanziale per la proponibilità della domanda, espressione questa che conferma, è il caso di dire, terminologicamente, la citata ordinanza della stessa Cassazione n. 1124/2003.

I pubblici impiegati che non si siano attivati per tempo (15.9.2000) riguardo a situazioni da far valere anteriori al 30 giugno 1998, sono quindi destinati a rimanere “una sorta di kosovari del diritto perseguitati in nome della pulizia sistematica (così Giacchetti S., Contenzioso del pubblico impiego, l’incerto confine transitorio tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria in Rass. Cons. Stato, 1999, II, 965 ss.).

Tale linea interpretativa non è, tuttavia, negoziabile, posto che, come rileva realisticamente la stessa attenta dottrina citata (Oriani, cit., pg. 2420) anche il Consiglio di Stato (CdS 1804/2003 cit.) ritiene che il predetto termine è decadenziale e, soprattutto, razionalmente posto, atteso che per le questioni attinenti al periodo antecedente il 30 giugno 1998, è stato “concesso al dipendente un termine più che congruo per far valere i suoi diritti ed interessi, venendo in considerazione un termine di decadenza comunque non inferiore a due anni e settantasette giorni”.

L’altra affermazione che si ricava dalla pronuncia n. 8438/04 è che la Corte interpreta gli atti discriminatori subiti dall’istante, come atti di gestione del rapporto di lavoro, con la conseguenza che la domanda va riferita ad una azione di responsabilità contrattuale.

L'investigazione della Corte non sembra contestabile e si riscontra in fatto apprendendo, dalla parte espositiva della sentenza, che il pubblico impiegato mobbizzato era stato, in ottica vessatoria, privato delle funzioni già svolte, in sede di inquadramento: rispetto quindi a provvedimenti propri e tipici del lavoro presso la p.A.

Si profila qui uno spunto ricostruttivo di un qualche interesse.

Posta infatti la giurisdizione del G.A., trattandosi di atti lesivi riferiti ad epoca antecendente il 30 giugno 1998, da questa discendono due conseguenze di rilievo.

In primo luogo, sussistendo atti datoriali di una pubblica amministrazione, non può richiamarsi, nella sua interezza, la tematica della pregiudizialità amministrativa (cfr. Simeoli D., La Corte di Cassazione sulla pregiudiziale amministrativa commento a Cass. sez. Iª 27 marzo 2003 n. 4538 in Il Corriere Giuridico, n. 5/2004, pag. 647).

In altri termini, la pretesa del mobbizzato può ricevere tutela in assenza di previo annullamento degli atti amministrativi autoritativi che quelle vessazioni hanno realizzato?

Se la risposta è negativa, si adombra una ulteriore constatazione circa la dilatabilità del vizio di eccesso di potere che, attraverso le sue formule elastiche, continua a prestarsi a, recepimento, al suo interno, anche delle disfunzioni che hanno, quale ottica di lettura, la vessazione dell’impiegato.

Come allora le barriere mobili del danno aquilano e del danno non patrimoniale sono state in grado via via di fornire forme sempre nuove di tutela, così l’eccesso di potere manterrebbe quei connotati di estensibilità che lo hanno sempre positivamente caratterizzato quale strumentario proprio del giudice amministrativo.

Quest’ultima nota, ove fosse condivisa, sembra poi comportarne un’altra di più ampio spessore.

Se la tutela del mobbing si va a radicare in un ambiente lavorativo tendenzialmente privatizzato, per la sussunzione nel suo ambito anche dei lavoratori del c.d. pubblico impiego, si deve allora prendere atto che, in generale, le categorie investigative del giudice amministrativo in tema di funzioni pubblicistiche, mantengono una alta operatività, perché il disvelamento del carattere persecutorio potrebbe realisticamente abbisognare di quella analisi procedimentale di atti, di ponderazione fra situazioni analoghe, di allerta innanzi alla disparità di trattamento che ha connotato, da sempre, la giurisdizione amministrativa, specie con riferimento al pubblico impiego.

A dare concretezza a questa ultima affermazione, valgano le stesse parole della Corte Suprema (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 luglio 1994 n. 6448 in tema di trattamenti economici differenziati fra lavoratori svolgenti identiche mansioni): Orbene, legittimare il potere di fissare trattamenti economici differenziati tra lavoratori, non rispondenti ad alcuna ragione socialmente apprezzabile, finisce per tradursi in un riconoscimento di poteri privati svincolati da ogni regola e finisce così per introdurre nel sistema ordinamentale elementi di disarmonia con principi che, in significativi settori del mondo del lavoro (promozioni, trasferimenti, licenziamenti collettivi, cassa integrazione), sono stati di estesa applicazione a partire dalla sentenza delle sezioni unite, 2 novembre 1979, n. 5688, che ebbe ad affermare l’assoggettabilità dei poteri dell’imprenditore a regole d’azione a tutela dei dipendenti e la loro sindacabilità da parte del giudice «anche se (ed anzi proprio perché) aventi contenuto di discrezionalità», precisando al riguardo come il sindacato del giudice ordinario nell’area del rapporto di lavoro privato non possa «non atteggiarsi, per ragioni di efficienza, in modo analogo a quello in cui si atteggia il sindacato del giudice amministrativo sull’esercizio del potere pubblico» e pertanto non possa «non estendersi anche esso alla rilevazione di forme di eccesso di potere», come quando, ad esempio, si prospettino ipotesi «di arbitrarietà o iniquità manifesta».


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