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Articoli e note

n. 9/2004

MICHELE ORICCHIO
(Procuratore regionale della Corte dei Conti)

Federalismo: cui prodest?

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Mentre sono ancora vivi gli echi della sentenza del 28 giugno 2004 n. 196 con cui la Corte costituzionale è intervenuta (contestualmente ad altre decisioni) sulle complesse questioni poste dal cosiddetto condono edilizio, è iniziata nell’aula di Montecitorio in data 3 agosto la discussione (subito rinviata a settembre) del disegno di legge di riforma di numerose norme della seconda parte della Costituzione.

Tale data coincide, peraltro, con il decennale della morte del senatore Giovanni Spadolini, insigne studioso di storia patria, che in fin di vita ebbe ad affermare di temere per l’Italia, con evidente riferimento ai segnali di degenerazione etico-istituzionale che allora iniziavano a manifestarsi.

E’ dunque opportuno fare il punto su di un decennio di riforme istituzionali, che non sembra avere stancato (o soddisfatto) la classe politica, e sugli insegnamenti che nel frattempo sono venuti dalla Corte costituzionale e che ben dovrebbero essere tenuti presente in questa ennesima sessione costituente che, per le materie che si propone di affrontare, va attentamente seguita dai cultori del diritto pubblico e dai mezzi di informazione, poiché le decisioni che in tale contesto verranno assunte peseranno sulla pelle e sulle tasche di tutti i cittadini italiani.

Non può negarsi l’evidenza costituita dal crescente stato di confusione istituzionale in cui le riforme già varate ci hanno condotto: sin dalle leggi c.d. "Bassanini" (dalla n. 59 del 1997 in poi) si è assistito ad un costante aumento delle competenze amministrative trasferite agli enti locali senza alcuna adeguata ponderazione della concreta possibilità che la generalità degli stessi ha di esercitarle efficacemente; inoltre, non solo sono rimasti in vita tutti gli enti preesistenti in barba ad ogni intento semplificatorio (ad esempio il migliaio di comuni con poche centinaia di abitanti, o le comunità montane includenti comuni marini!), ma si sono dovuti creare nuovi organismi intermedi e conferenze di ogni sorta al fine di realizzare un improbabile e costoso coordinamento di funzioni amministrative vivisezionate e spalmate demagogicamente fra una pluralità di enti (istruttiva è, a tal proposito la lettura del d.lgs. n. 112 del 1998, attuativo dei principi delle leggi "Bassanini").

La pletora di dirigenti che ha poi invaso tutti gli enti pubblici territoriali, sovente non adeguatamente monitorata dai nuclei di valutazione e dagli organi di controllo interno, ha finito spesso solo per appesantire i bilanci degli enti stessi, mentre l’accentuazione delle logiche fiduciarie e l’esternalizzazione di numerosi servizi ha comportato un aumento enorme delle sfere di discrezionalità dei detentori del potere politico e dei vertici burocratici a scapito del rispetto dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento della P.A. che costituiscono dei capisaldi della nostra Costituzione, ai sensi degli artt.97 e 98.

Non sembra, insomma, che posa dirsi raggiunto l’intento semplificatorio che aveva animato le riforme della seconda metà degli anni novanta e che si è essenzialmente concretizzato nella valorizzazione delle autocertificazioni, nell’accorpamento di alcuni ministeri e nell’abolizione dei controlli di legittimità sugli atti: oggi - peraltro - tali riforme stanno formando oggetto in dottrina di discussioni e critiche essendosi, ad esempio, evidenziato che la rigorosa osservanza della legge ad opera della P.A. è garanzia di "par condicio" per tutti i cittadini e non può essere garantita - anche nei momenti patologici - dal solo intervento della Magistratura.

Peraltro la Corte Costituzionale, che ha registrato un’impennata dei conflitti di attribuzione fra Stato e regioni proprio a seguito delle riforme Bassanini, ha con l’importantissima sentenza n. 204 del 2004 ribadito, seppure ai fini del riparto di giurisdizione, la persistente rilevanza costituzionale dell’interesse legittimo.

Nonostante tali evidenti disfunzioni è sopravvenuta sul finire della scorsa legislatura la riforma del titolo V° della Costituzione che è andata ad incidere, tra l’altro, sul riparto del potere legislativo fra Stato e regioni, sovvertendo l’originaria impostazione che prevedeva l’attribuzione alle regioni di una competenza legislativa ben definita nell’ambito dei principi stabiliti dalle norme statali ed in un novero limitato di materie di rilievo locale: la nuova stesura dell’art. 117 prevede infatti che sia lo Stato a poter legiferare in via esclusiva in un novero preciso di materie, individuandone altre in cui residua un suo potere di dettare norme di principio (legislazione concorrente) e lasciando tutto il resto alla potestà legislativa esclusiva delle regioni.

Orbene gli effetti della filosofia marcatamente autonomista sottesa alla riforma costituzionale del 2001 non si sono fatti attendere e non certo in tema di migliore soddisfacimento dell’interesse pubblico: presidenti di giunte regionali definiti(si) "governatori", consigli regionali con la pretesa di erigersi a Parlamenti (salvo poi la generale incapacità di approvare più di una ventina di leggi l’anno!), improbabili rapporti diplomatici avviati con l’apertura di "sedi di rappresentanza" all’estero, previsione di complicati meccanismi di funzionamento degli organi rappresentativi, (bozze di) statuti regionali che assomigliano più alla Carta delle Nazioni unite che ad un norma di base regolante il funzionamento di un ente territoriale (qual è la regione) secondo quanto previsto dall’art. 123 della Costituzione riformata!

La Corte Costituzionale è già dovuta intervenire più volte per sanzionare tali eccessi dei legislatori regionali: da ultimo si ricorda la sentenza n. 2 del 2004 con cui ha dichiarato l’ illegittimità di alcune norme dello statuto regionale della Calabria regolanti il funzionamento degli organi elettivi; inoltre recentissimamente il Governo (la cui maggioranza contestualmente propugna l’ulteriore devoluzione di competenze legislative alle regioni!) ha rimesso all’alta Corte anche l’esame della legittimità di varie norme dello Statuto della Regione Toscana, il secondo fin ora approvato in base al nuovo disposto dell’art. 123 della Carta fondamentale nonostante gli oltre tre anni trascorsi dall’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001.

Solo grande scalpore sugli organi di informazione ha, invece, provocato l’approvazione ad opera della Regione Basilicata in data 12 agosto di una leggina con la quale all’unanimità il Consiglio ha ritenuto di porre a diretto carico dell’ ente l’indennità da corrispondersi agli assistenti dei Consiglieri regionali (che sono stati conseguentemente liberati da questo originario onere, senza alcuna decurtazione stipendiale, come sarebbe stato lecito attendersi): del resto il caso non è isolato e trattandosi di competenza legislativa esclusiva, nemmeno l’Alta Corte potrebbe "metterci il naso", giusta previsione contenuta nel nuovo art. 127 della Costituzione!

La rilevata proliferazione delle fonti di produzione legislativa, che finiscono necessariamente per entrare in rotta di collisione, contrasta poi in modo patente con la diffusa esigenza di creare un "diritto uniforme europeo" ed anche con ogni aspirazione alla certezza del diritto!

In tale contesto la Giurisprudenza costituzionale sta svolgendo un ruolo tanto importante quanto delicato: quello di arbitro unico di tutti i conflitti di competenza legislativa ed amministrativa insorgenti fra Stato e regioni; da ultimo in tal senso vanno segnalate le sentenze n. 303 del 2003, la n. 43 del 2004 e la n. 196 del 2004. Con la prima il Giudice delle leggi ha affrontato la raffica di eccezioni di legittimità costituzionale sollevate da varie regioni nei confronti della c.d. "legge obiettivo" e ha ribadito – tra l’altro- l’esistenza nell’ordinamento Giuridico-costitruzionale (anche riformato) di principi e valori trasversali legittimanti una sussidiarietà legislativa verso l’alto, cioè verso lo Stato, quale unico portatore degli interessi dell’intera comunità nazionale; tali concetti sono stati ulteriormente sviluppati nella sentenza n. 43 del 2004, che si è soffermata sul ruolo dell’art.120 - secondo comma del nuovo testo costituzionale.

Con la pronuncia n. 196 del 2004 – in tema di condono edilizio - la Corte ha svolto l’ingrato ed arduo compito di tracciare i confini della legislazione concorrente fra Stato e regioni evidenziando altresì, con tre coeve pronunce, come le regioni non possano emanare leggi (o, addirittura, disposizioni regolamentari) al solo scopo di escludere in toto l’applicabilità della normativa statale sul proprio territorio, potendo solo ricorrere alla Corte Costituzionale.

Certo, in questa come in tutte le altre materie a legislazione concorrente, i rapporti tra Stato e regioni dovrebbero ispirarsi al principio della "leale collaborazione" più volte richiamato dalla Corte stessa: ma ciò è più facile a dirsi che a farsi ove si tenga presente la caratteristica bipolare del nostro sistema che comporta una forte contrapposizione fra forze politiche con un sistema di competenze diarchiche estesamente previsto dopo la riforma del titolo V° della Costituzione.

Quest’ultima, infatti, si è sovrapposta a varie recenti riforme elettorali in senso maggioritario che hanno interessato tutti gli organi elettivi sicché in pochi anni è stato in gran parte snaturato il previgenete saggio sistema di contrappesi fra poteri pubblici e fra Stato ed autonomie: ne è risultato un meccanismo complicato e costoso che macina inutilmente risorse ad ogni livello di governo e che talvolta indulge a forme eccessive di assemblearismo, talaltra consente nuovi "autoritarismi", spesso crea artificiose contrapposizioni.

E’, ad esempio, dato di comune esperienza delle Procure regionali della Corte dei Conti quello per cui subentrando un’amministrazione locale ad un’altra di diverso colore politico ben difficilmente si prosegue lungo un percorso amministrativo intrapreso essendo portati a respingere comunque tutto ciò che proviene da chi c’era in precedenza, con soluzioni di continuità dell’attività amministrativa spesso traumatiche e comunque onerose per le collettività locali.

Insomma una sorta di novella e costosa tela di Penelope!

In tale contesto, il 5 giugno 2003 è stata approvata dal Parlamento la legge n. 131 recante norme di attuazione della riforma del titolo V°, parte seconda della Costituzione che però ha essenzialmente demandato ad una molteplicità di decreti legislativi - in gran parte tutti ancora da emanare - il compito di "far quadrare il cerchio" cioè di mettere ordine nell’assetto istituzionale sconvolto dalla riforma.

Enormi sono poi i problemi connessi all’attuazione del nuovo sistema fiscale delineato nell’art. 119 della Carta, demandati allo studio di un’apposita "Alta Commissione".

Il problema però è che, nonostante l’evidenza dei danni sin qui prodotti da incauti o incompetenti riformatori (in ordine ai quali si è ancora in attesa di prova contraria), il Parlamento sta esaminando l’ ennesimo disegno di legge di riforma della Costituzione, prospettandosi tempi ristretti per la sua approvazione, quasi come se si avesse paura di una definitiva presa di coscienza sui detti argomenti da parte dell’opinione pubblica e dei singoli parlamentari.

Il rimedio proposto – manco a dirlo– è ancora una volta peggiore del male: ulteriore attribuzione di sfere di competenza legislativa esclusiva alle regioni (balzano agli occhi la sanità, la pubblica istruzione e la polizia locale) da controbilanciarsi – secondo alcune forze politiche- con il richiamo all’interesse nazionale o alla supremazia della legge statale.

Un federalismo all’italiana condito con un "premierato forte" in grado di complicare la vita a tutti i livelli istituzionali e ai cittadini che degli stessi ne sopportano l’onere economico: i tempi – tuttavia sembrano fortunatamente cambiati – e voci dissenzienti si alzano in maniera sempre più autorevole e sempre meno isolata: dal Presidente della Confindustria al Ragioniere generale dello Stato, dal Governatore della Banca d’Italia ai rappresentanti sindacali, i quali tutti hanno posto l’accento sugli effetti destabilizzanti per la società italiana e per la finanza pubblica della paventata riforma.

Infatti il prevalere del bieco ed anacronistico localismo produrrà necessariamente un proliferare di conflitti legislativi ed amministrativi che non potrà essere composto né da una Camera delle regioni o da un Senato federale né da una Corte Costituzionale assurgente sempre più al ruolo di arbitro assoluto.

Il pericolo è tanto più attuale ove si tenga presente che ormai vige in Italia un generalizzato sistema elettorale maggioritario che esaspera le contrapposizioni anche fra i differenti livelli di governo.

La questione del recente condono edilizio, come ha saggiamente affermato il Prof. Giovanni Virga, dovrebbe (solo buon ultima) spingere tutti a riflettere sul futuro della riforma in senso federale dello Stato italiano e soprattutto a chiedersi se l’attuale sistema bipolare, che comporta inevitabilmente forti contrapposizioni politiche, sia compatibile con una competenza legislativa diarchica in materie di grande rilievo che comunque non verrebbe eliminata da alcuna ulteriore riforma essendo prevista la potestà statale di emanare norme generali, del resto consustanziale all’esistenza della stessa idea nazionale.

Altro che treno da cui non è possibile scendere ! Qui bisogna azionare il freno d’emergenza!

In tal senso si è autorevolmente espresso anche il Prof. Sartori in alcuni articoli pubblicati in questi giorni sul Corriere della Sera in cui, richiamando serissimi studi delle massime istituzioni economiche del Paese ha evidenziato che "il federalismo avviato da noi nel 1997 ha comportato un aggravio per i conti dello Stato di almeno 61 miliardi di euro", mentre ulteriori devoluzioni di competenze comporteranno costi aggiuntivi non più sostenibili a fronte di benefici da taluni fideisticamente sbandierati senza alcun serio supporto scientifico o controprova empirica.

Il federalismo che ci viene proposto potrebbe forse funzionare in una utopica "città del sole" ma non nel nostro Paese ove vi è una realtà socio-politico-culturale ben precisa in cui i localismi e l’eccessiva vicinanza fra amministratori e amministrati producono dappertutto abusi, sprechi e conflitti di interesse, figurarsi l’ulteriore frammentazione dell’alta funzione legislativa ridotta a palestra di esercizio di dialetti regionali: essa finirebbe solo per trascinarci nella condizione descrittaci da Tacito "corruptissima in repubblica, plurimae leges" (Annali: 3, 27).


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