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Articoli e note

n. 7-8/2003 - copyright

LUIGI OLIVERI

Il problema della configurabilità del
recesso ad nutum per la dirigenza degli enti locali

 

Uno tra i tanti nodi irrisolti lasciati dalla contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche è l’applicabilità, ai dirigenti, del recesso ad nutum.

Sul tema la dottrina si è profusa nel tentativo di comprendere se esista o meno, in concreto, la possibilità di applicare tale istituto, senza per la verità riuscire a dare una risposta definitiva.

Scopo del presente lavoro non è fornire tale risposta, in quanto mancano ancora sicuri elementi di valutazione. Proprio per questa ragione, comunque, si intende porre in maniera problematica il tema dell’applicazione secca ed incondizionata dell’articolo 2118 del codice civile alla dirigenza, al fine di fornire argomentazioni contrarie alle posizioni radicalmente inclini alla sussistenza del potere di recesso ad nutum delle amministrazioni nei confronti dei dirigenti pubblici [1].

Il dato di partenza dell’analisi non può che essere, al contrario, l’estrema difficoltà di affermare in modo reciso se il recesso ad nutum possa essere applicato alla dirigenza.

A ben vedere, il problema riguarda la stessa sussistenza, nell’ordinamento attuale, di un potere così ampio di recesso dal contratto di lavoro da parte del datore.

Il recesso unilaterale disciplinato dall’articolo 2118 è il frutto di una concezione liberistica del rapporto di lavoro, mirante tutelare la libertà contrattuale delle parti e ad allineare la risoluzione del contratto alla disciplina di ogni altro contratto a tempo indeterminato, sul presupposto, oggettivamente non accettabile, di un’eguaglianza della posizione delle parti in causa.

L’articolo 2118, dunque, consente al datore di lavoro di risolvere il contratto senza l’obbligo di fornire alcuna motivazione, prevedendo il solo onere procedurale di dare al lavoratore il preavviso.

Ecco perché si parla di recesso ad nutum, letteralmente derivante dal semplice “cenno del capo” del datore: la risoluzione del rapporto di lavoro dipende esclusivamente dall’intenzione di avvalersi del potere incondizionato di interrompere il sinallagma. Per l’articolo 2118 basta la sola prova della volontà di recedere: al giudice è preclusa ogni indagine rispetto alle motivazioni poste alla base della risoluzione del contratto.

Ora, è vero che ai dirigenti privati non si applica né l’articolo 18 della legge 300/1970, né la disciplina di tutela dei licenziamenti contenuta nella legge 604/1966. Così come è vero che si sia in presenza di una tendenziale assimilazione del rapporto di lavoro pubblico a quello privato, sicchè, in linea di principio la disciplina del rapporto di lavoro della dirigenza privata dovrebbe coincidere con quella propria della dirigenza pubblica.

Pertanto, poiché caratteristica fondamentale del rapporto di lavoro dei dirigenti privati è il rapporto di fiducia con l’imprenditore, l’interruzione di tale rapporto, che evidentemente non è possibile ricondurre a specifiche motivazioni tecniche, postula il recesso ad nutum. Dunque, altrettanto dovrebbe prevedersi per la dirigenza pubblica. Anche perché, l’articolo 2, comma 2, del D.lgs 165/2001 stabilisce che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V, del codice civile.

Resta il fatto, però, che lo “slancio” liberista dell’articolo 2118 è stato profondamente rivisto. Per i dipendenti non in possesso della qualifica, a mente dell’articolo 1 della legge 604/1966 il licenziamento non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile, o per giustificato motivo. Dunque, si è esclusa radicalmente la possibilità della risoluzione unilaterale ed immotivata.

La contrattazione collettiva, inoltre, ha preso possesso della materia ed è intervenuta a disciplinare la materia della risoluzione del rapporto di lavoro anche dei dirigenti. Gran parte dei contratti collettivi hanno mitigato il potere di recesso unilaterale del datore di lavoro, creando la possibilità di presentare ricorso ad un collegio di conciliazione, dotato del potere di verificare la giustificatezza del licenziamento, la cui carenza è sanzionata con penalità economiche anche molto rilevanti.

I contratti non hanno, in tal modo, disapplicato l’articolo 2118 del codice civile, la cui conformità alla Costituzione è stata più volte affermata dalla Consulta, né previsto l’estensione ai dirigenti delle tutele previste per i gli altri lavoratori dipendenti dalla legge 604/1966 e dall’articolo 18 della legge 300/1970. Tuttavia, certamente hanno indirettamente modificato la “natura” del recesso del datore di lavoro, che non può considerarsi unilaterale e privo della necessità di una motivazione.

Infatti, se un contratto collettivo consente di verificare in concreto se i motivi addotti per il licenziamento siano o meno giustificati, ci significa che non basta più la semplice espressione di volontà del datore. Pertanto, pur vigendo ancora l’articolo 2118, il recesso non è più considerabile ad nutum, dal momento che esiste un soggetto dotato del potere di ingerire nel merito della decisione del datore di lavoro.

Se questo, allora, è per la dirigenza privata, per il conclamato fenomeno della convergenza del lavoro pubblico verso quello privato non può non essere anche per la dirigenza pubblica.

Ma, a ben vedere, analizzando la normativa sulla dirigenza pubblica si riscontrano altri e ben più rilevanti elementi che mettono seriamente in crisi la teoria del licenziamento ad nutum del dirigente pubblico e del dirigente dell’ente locale, nello specifico.

Appare necessario riferirsi ad una fondamentale affermazione in proposito espressa dalla Corte costituzionale, con la sentenza 313/1996, specificamente rivolta alla dirigenza pubblica: “è appena il caso di rammentare che l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile comporta non già che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma semplicemente che la valutazione dell'idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo - assistite da un'ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio -, a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso”.

Il quadro normativo preso in considerazione dalla Consulta era il D.lgs 29/1993. Ma esso, sostanzialmente, non è cambiato nemmeno a seguito del riordino compiuto col D.lgs 165/2001 e la riforma della legge 145/2002.

La Consulta afferma, in sostanza:

1)      l’articolo 2118 mantiene la sua vigenza;

2)      esso è, in linea teorica soltanto, applicabile alla dirigenza pubblica;

3)      in realtà, la pubblica amministrazione non dispone di un potere di recesso unilaterale;

4)      al contrario, la P.A. dispone di un potere di valutazione sui dirigenti, riguardante la loro idoneità professionale, sia al momento del conferimento degli incarichi dirigenziali, sia nel momento di esprimere un giudizio in merito alla capacità di svolgere con la capacità richiesta la funzione gestionale prevista;

5)      il potere di valutazione sulla capacità gestionale dei dirigenti si esplica in base alle procedure, pubbliche ed in contraddittorio, previste dalle norme legislative e contrattuali;

6)      solo a conclusione di tali procedure è possibile esercitare il recesso.

Difficile, alla luce della ricostruzione della Corte costituzionale, ritenere che la risoluzione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici possa essere configurata alla stregua del recesso ad nutum.

Tale difficoltà è, per altro, accentuata dalla verifica del dettato normativo dell’articolo 21 del D.lgs 165/2001 e delle disposizioni contrattuali sul recesso dal rapporto di lavoro contenute nella contrattazione collettiva dell’area dirigenza del comparto enti locali (ma considerazioni analoghe potrebbero essere svolte anche per i Ccnl delle altre aree dirigenziali).

L’articolo 21 del testo unico sul pubblico impiego stabilisce che “Il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie di cui all'articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, comportano, ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può, inoltre, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”.

La norma gradua, a ben vedere, gli interventi sanzionatori che possono condurre fino al licenziamento.

Occorre, in primo luogo, la valutazione del mancato raggiungimento degli obiettivi (ed i contratti dovrebbero stabilire una graduazione per chiarire in cosa consista il mancato raggiungimento, in coerenza col sistema di valutazione permanente dell’ente), o dell’inosservanza delle direttive.

Accertato quanto sopra, la prima conseguenza è l’impossibilità del rinnovo dell’incarico. Il che implica lo spostamento verso un altro incarico. Ricordiamo che contrariamente a quanto avviene nell’impiego privato, per la dirigenza pubblica di ruolo la qualifica dirigenziale è diretta conseguenza dell’accesso ai ruoli dirigenziali a seguito dei concorsi previsti dall’articolo 28 del D.lgs 165/2001. L’esercizio delle funzioni dirigenziali, dunque, è intimamente connesso al possesso della qualifica, tanto è vero che non possono esistere dirigenti privi di incarico dirigenziale, a meno che non siano incorsi proprio nelle sanzioni previste dall’articolo 21. Dunque, non è che la perdita dell’incarico comporta perdita dello status di dirigente; a questo scopo occorre proprio il licenziamento.

Solo in presenza di casi gravi, la cui specificazione appare rimessa alla contrattazione collettiva, l’amministrazione invece di spostare il dirigente ad altro incarico può privarlo di uncarico e collocarlo a disposizione, oppure, per casi ancora più gravi, recedere dal rapporto, ma nel rispetto delle disposizioni del contratto collettivo.

Allora, occorre verificare quanto dispone, allo scopo, l’articolo 27 del Ccn il data 10.4.1996 dell’area dirigenza del comparto enti locali, a mente del quale “1. Nel caso di recesso dell'amministrazione, quest'ultima deve comunicarlo per iscritto all' interessato, indicandone contestualmente i motivi e rispettando, salvo che nel caso del comma 2, i termini di preavviso.

2. In caso di recesso per giusta causa si applica l'art. 2119 del codice civile. La giusta causa consiste in fatti e comportamenti, anche estranei alla prestazione lavorativa, di gravità tale da essere ostativi alla prosecuzione, sia pure provvisoria, del rapporto di lavoro.

3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2, l'amministrazione prima di adottare l'atto di recesso, contesta per iscritto l'addebito all'interessato convocandolo, non prima che siano trascorsi cinque giorni dal ricevimento della contestazione, per sentirlo a sua difesa. Il dirigente può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un legale di sua fiducia. Se l'amministrazione lo ritenga necessario, in concomitanza con la contestazione, può disporre la sospensione dal lavoro del dirigente, per un periodo non superiore a trenta giorni, con la corresponsione del trattamento economico complessivo in godimento e conservazione dell'anzianità di servizio.

4. La responsabilità particolarmente grave e reiterata, accertata secondo le procedure di cui all'art. 20 del D. lgs. n. 29 del 1993, costituisce giusta causa di recesso. In tale caso non si applicano i commi 1, 2 e 3 dell'art. 30. Costituisce condizione risolutiva del recesso l'annullamento della procedura di accertamento della responsabilità del dirigente disciplinata dall'art. 20 del D.Lgs. n. 29 del 1993”.

Si nota che il contratto, nella sostanza, riprende tutti i passaggi indicati dalla Consulta. Il recesso non può essere considerato ad nutum, in quanto si richiede una procedura in contraddittorio, la cui violazione può anche implicare la reintegrazione.

E’ vero che il comma 2 richiama il recesso per giusta causa, differenziando, così, la propria disciplina da quella del comma 1, il quale è, in sostanza, assimilabile all’articolo 2118 del codice civile.

Tuttavia, non si può con assoluta certezza ricondurre il comma 1 dell’articolo 27 alla disciplina di diritto comune. Anzi, vi sono pronunce giurisprudenziali di segno del tutto contrario.

Il Consiglio di Stato, Sezione VI, con sentenza 9722/2002 riguardante il recesso ad nutum disposto dal C.N.R. nei confronti di un proprio dirigente, ha stabilito che l’ipotesi di recesso della amministrazione, disciplinato da norma contrattuale analoga a quella degli enti locali, pur essendo ricalcata sul “licenziamento ad nutum” disciplinato dall’art. 2118 del Codice Civile, se ne discosta in ogni caso per due aspetti essenziali:

- su un piano sostanziale, in quanto richiede una giustificazione, non essendo sufficiente la nuda manifestazione della volontà risolutoria (l’Amministrazione infatti è tenuta a dare… “specificazione dei motivi…”);

- su un piano procedimentale, in quanto anche all’ipotesi di recesso previsto dal 1° comma dell’art. 27 si applicano le formalità stabilite dal 3° comma, e segnatamente la formale “contestazione dell’addebito”.

Per tale ragione, secondo il Consiglio di stato, la decisione del C.N.R. (avvenuta prima dell’attribuzione al giudice ordinario della giurisdizione) è stata ritenuta censurabile. In particolare, con riguardo al profilo sostanziale, in quanto se è apparso vero che la risoluzione del rapporto di lavoro del dirigente disposta ai sensi dell’art. 2118 Cod. civ. fosse stata sufficientemente motivata con l’enunciazione delle ragioni atte ad evidenziare la rottura del rapporto fiduciario è, d’altra parte, anche necessario che tali ragioni siano effettivamente sussistenti. Secondo i giudici di Palazzo Spada, dunque, occorre che“il venir meno del rapporto fiduciario sia imputabile a cause obbiettive e non sia invece utilizzato come pretesto per “liberarsi” del dirigente”.

Questa interpretazione appare tanto più rilevante, quanto si ponga attenzione alla circostanza che il rapporto tra dirigente pubblico ed amministrazione è certamente differente da quello intercorrente tra il dirigente privato e l’imprenditore.

In questo ultimo ambito, il dirigente è, correttamente, considerato come alter ego dell’imprenditore. Il rapporto fiduciario è intensissimo, dal momento che il manager privato è, concretamente, la mano operativa dell’imprenditore, colui che gli garantisce il perseguimento dei propri interessi economici ed imprenditoriali. Coerentemente con questa impostazione, il venir meno di una coincidenza assoluta di pensiero ed azione, in sostanza il venir meno della fiducia, può portare ad una risoluzione del rapporto, comunque da motivare, in base ai già ricordati contratti collettivi privatistici.

Sebbene anche per la dirigenza privata si faccia un gran parlare di rapporto fiduciario, a ben vedere subentrano nel rapporto di lavoro della dirigenza pubblica altri elementi normativi ed organizzativi che differenziano in modo nettissimo tale disciplina da quella privatistica.

Ci si riferisce, evidentemente, ai principi rinvenienti dagli articoli 97 e 98 della Costituzione, per effetto dei quali, come ha ricordato il Tar Lazio, Sezione II Ter, 8 aprile 2003, n. 3276, l’apparato burocratico, ed in particolare quello dirigenziale che assume veste di vero e proprio organo amministrativo, ha caratteri di professionalità, produttività nel perseguimento dell’interesse pubblico, imparzialità, legalità ed indipendenza.

Pertanto, il dirigente privato assicura professionalità e “valore aggiunto” all’impresa, perseguendo l’interesse privato dell’imprenditore in una posizione di totale assimilazione col suo interesse e di intrinseca dipendenza piena.

Al contrario, il dirigente pubblico deve con professionalità e produttività (mancando le quali l’incarico può essere revocato o l’ente pubblico può recedere dal contratto) garantire il rispetto della legalità ed il perseguimento di un interesse che non è proprio della parte politica che occupa l’organo di governo, ma l’interesse pubblico, nel rispetto dell’imparzialità e dell’indipendenza di azione. Indipendenza che, secondo il Tar Lazio, esclude ogni legame gerarchico tra organi politici e dirigenti, in modo tale da non configurare, come insegna la Consulta, una garanzia costituzionale simile a quella di cui godono i giudici soggetti solo alla legge, ma, comunque, da permettere una libertà di azione nel rispetto dei limiti della “dipendenza funzionale” dall’organo di governo, che implica l’obbligo di rispettarne le politiche generale e gli atti di indirizzo, scegliendo i mezzi da utilizzare e sopportando la responsabilità gestionale di valutare l’idoneità di tali mezzi a conseguire i fini politico amministrativi posti, ma pur sempre nel rispetto della legalità e dell’imparzialità.

Così stando le cose, le particolari garanzie organizzative costituzionali a ben vedere impediscono di ritenere che l’articolo 2118 sia integralmente applicabile al recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale, se inteso come risoluzione unilaterale.

In realtà l’applicazione dell’articolo 2118 del codice civile è subordinata al previo esperimento delle procedure di garanzia previste dalla legge (articolo 21 del D.lgs 165/2001) e dai contratti ed alla verifica della motivazione alla base del recesso.

Appare, allora, più coerente con l’attuale impostazione normativa concludere che alla dirigenza pubblica non si applichino, come alla dirigenza privata, le norme della legge 604/1966, ma che, allo stesso modo, l’articolo 2118 del codice civile sia il riferimento per non limitare le ipotesi di licenziamento alla sola giusta causa.

Anche se occorre sottolineare che proprio l’articolo 21 del D.lgs 165/2001 in sostanza riconnette alla giusta causa la stragrande maggioranza dei casi di recesso, in quanto connessi per lo più alla responsabilità di non conseguire i risultati previsti dalla programmazione.

Sicchè, il riferimento sfumato al recesso unilaterale potrebbe essere considerato alla base del particolare tipo di recesso conseguente alla violazione delle direttive, fattispecie particolarmente grave per un dirigente, se implicante un sostanziale scostamento dagli obiettivi politico amministrativi fissati dall’amministrazione. Infatti, il dirigente è colui che con professionalità assume il compito di dare la concreta attuazione a tali direttive. La sistematica e consapevole violazione delle stesse, pur non portando necessariamente a risultati negativi, può, tuttavia, giungere a risultati politici del tutto diversi da quelli prefigurati dalle direttive politiche.

La fattispecie meriterebbe dal legislatore o dai contratti ulteriori specificazioni, in quanto le direttive non possono, per loro stessa natura, implicare ordini giuridici così intensi da vincolare l’azione dei dirigenti, a meno di non ricostruire surrettiziamente quel rapporto di gerarchia che la stessa giurisprudenza ammette non sussistere tra organi di governo e dirigenti.

Tuttavia, solo in rapporto all’articolo 2118 del codice civile de alle altre norme contrattuali in materia di recesso dal rapporto di lavoro è possibile fare riferimento a presupposti per il licenziamento ulteriori alla giusta causa, quale appunto la violazione delle direttive.

Pertanto, il recesso ad nutum come causa di licenziamento riconnessa alla sola volontà immotivata del datore pare non possa essere configurato per la dirigenza pubblica, fermo restando un ambito di recesso più ampio rispetto a quello caratterizzante il rapporto di lavoro degli altri dipendenti pubblici, riconducibile proprio alla capacità dei dirigenti di rispettare gli indirizzi, che potrebbe essere considerata come la definizione di quel rapporto di fiducia “spurio” proprio della dirigenza pubblica in rapporto con gli organi di governo.


 

[1] Vedasi G. PERDONÀ, Il licenziamento del dirigente pubblico in Risorse Umane, 1/2003, ed. Maggioli, pagg. 64 e 65, che in maniera eccessivamente diretta ritiene che il datore di lavoro pubblico “può recedere dal rapporto di lavoro intrattenuto con il dirigente in ogni tempo e per qualsivoglia motivo (purchè non illecito)”.


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