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n. 9/2005 - ©
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LUIGI OLIVERI
Un caso concreto di “eccesso” di autonomia statutaria
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Il convegno di studi su rapporti tra leggi, statuti e regolamenti locali dopo la riforma della Costituzione, tenutosi a Brescia per iniziativa dell’Amministrazione provinciale, i cui atti sono riportati nel numero 11-12/2005 di “Nuova Rassegna” ha ridestato l’attenzione sul tema strategico dell’esercizio dell’autonomia normativa negli enti locali.
A distanza di un lasso di tempo ormai rilevante, le posizioni dottrinali sulle relazioni tra Costituzione, leggi, statuti e regolamenti appaiono meno “emotive”, più meditate, più attente al sistema.
Esemplare è la “razionalizzazione” che di detti rapporti dà dottrina [1] da sempre attentissima nel descrivere con sapienza “geometrie” e “confini” dei rapporti tra fonti normative. Dopo aver mosso condivisibili critiche alle tesi della pariordinazione tra legge ordinaria e statuti, tale dottrina traccia in modo estremamente chiaro le modalità con le quali gli statuti locali possono appropriarsi degli spazi che il nuovo Titolo V della Costituzione pure lascia loro.
Escluse “fughe” verso teorie che riconoscendo agli statuti natura di fonte primaria porterebbero ad un federalismo tra stati sovrani, invece che ad un modello di stato unitario che ripartisce le funzioni normative ed amministrative in una rete policentrica (quale pare possa definirsi quello disegnato dalla legge 3/2001, sebbene tale disegno non sia esente da confusione e velleitarismo) la cosiddetta “equiparazione” tra statuti le leggi statali può operare in quei casi “esplicitamente stabiliti dalle leggi, che consentono che in certi punti la disciplina normativa sia stabilita dalla norma statutaria e non dalla norma legislativa [2]”.
Si tratta di una definizione di inconsueta semplicità e straordinaria efficacia, che potrebbe di per sé chiudere ogni dibattito ulteriore.
La valorizzazione degli statuti locali, dunque, non deve intendersi operante nel senso della trasformazione della principale fonte normativa locale in fonte di livello primario; lo statuto rimane pur sempre norma “locale”, che come tale non può che fissare una differenziazione nelle regole generali dell’organizzazione solo nell’ambito locale, senza creare differenziazioni di livello superiore, che potrebbero determinare non differenze, ma “disparità”. Compito di una norma primaria, invece, è dettare norme generali ed astratte, valevoli per tutta la comunità di uno Stato sovrano.
Lo statuto, dunque, incontra pur sempre limiti alla sua operatività. Tali limiti consistono in tre livelli di vincolo:
a)
vincoli
dispositivi: si tratta dei limiti più rilevanti, che impediscono sostanzialmente
agli statuti di fissare una normativa anche solo parzialmente difforme (pur se
coerente) dalla legge, perché questa, mediante disposizioni che esauriscono la
materia, elide ogni possibile spazio di ulteriore normazione, con le ristrette
eccezioni di interventi “specificativi”.
Si tratta di quei vincoli che la riforma della Costituzione intende eliminare:
il futuro legislatore della materia degli enti locali dovrebbe seguire la strada
dell’effettiva valorizzazione della norma locale, rinunciando a determinare
regole esaustive, limitandosi a fissare solo principi ampi. Tuttavia, finchè il
d.lgs 267/2000 non venga modificato, tali vincoli, molto presenti nel testo
unico, rimarranno vigenti, visto che la riforma della Costituzione non ha inciso
sulla citata norma, se non nella parte relativa ai controlli dei Co.Re.Co.,
ormai abrogati.
Occorre, comunque, rilevare che l’assegnazione allo Stato della potestà
legislativa esclusiva in tema di elezioni, funzioni fondamentali ed organi di
governo degli enti locali, prevista dall’articolo 117, comma 2, lettera p),
della Costituzione, lascia capire che in questo ambito riservato allo Stato, lo
statuto rimarrà privo di significativi poteri normativi, a meno che non sia la
legge a consentirlo espressamente;
b)
vincoli dei
principi: si tratta di limiti molto meno pregnanti all’autonomia statutaria (e
regolamentare), la quale quando può agire nell’ambito di principi generali, può
porre in essere una disciplina diversa, adattativa, puirchèp compatibile, di
quella generale. Ad esempio, l’articolo 147 del d.lgs 267/2000, nel disciplinare
i controlli interni degli enti locali, richiama i principi del d.lgs 286/1999,
qualificandoli in parte come espressamente derogabili, sì che il modello dei
controlli interni di ciascun ente può essere fortemente differenziato.
La riforma della Costituzione imporrebbe al legislatore, al di fuori delle
materie indicate nella precedente lettera a), di normare la disciplina degli
enti locali con poche norme, agili e generali. Tuttavia, lo spazio
dell’autonomia statutaria può risultare maggiormente complesso, laddove la legge
qualifichi i principi come inderogabili;
c) spazi normativi lasciati aperti dalla legge: il legislatore primario può, infine, presentare il vincolo della “volontarietà” dell’azione normativa statutaria, con due modalità. Attribuendo, in primo luogo, agli statuti la facoltà di disciplinare una certa materia, limitandosi a descriverla ed astenendosi dal prevederne gli aspetti concreti (si pensi, ad esempio, alla libertà di azione lasciata agli statuti nella materia dei referendum locali). In secondo luogo, consentendo non solo una deroga alle disposizioni di principio, ma addirittura assegnando direttamente allo statuto un ruolo di fonte primaria, in quanto la legge stessa, disponendo di se stessa, fissa una disposizione dichiaratamente “sussidiaria”, applicabile ed operante solo nella misura in cui lo statuto non introduca una sua specifica disciplina, che, così, prevale sulla legge.
Applicazione concreta di quest’ultimo modello di relazione tra legge e statuto è la materia della rappresentanza in giudizio. Proprio in questo ambito, la legge, disponendo di se stessa, ha intenzionalmente lasciato alla fonte statutaria la possibilità di fissare le regole per l’esercizio della rappresentanza legale anche in giudizio, come ha finalmente riconosciuto anche la giurisprudenza [3]. E’ l’esempio concreto di come lo statuto possa stabilire in via primaria la disciplina normativa, proprio in quanto la legge agisce in via esclusivamente eventuale e sussidiaria [4].
Nell’ambito del medesimo convegno, a più riprese è stato affrontato il tema dell’organizzazione degli enti, in relazione all’individuazione delle fonti di disciplina, con specifico riferimento alla previsione delle regole per l’accesso alla dirigenza [5].
Si tratta di un tema estremamente importante e decisivo per la fissazione dei confini di operatività dell’autonomia statutaria ed anche regolamentare degli enti locali, dal momento che in questo campo, in apparenza, gli spazi normativi sono più ampi, in quanto:
a) l’articolo 117, comma 6, della Costituzione assegna ai regolamenti locali una potestà regolamentare “riservata” in ordine proprio alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite;
b) l’articolo 4, comma 4, della legge 131/2003 stabilisce che “la disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei comuni, delle province e delle città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell’ente, nell’ambito della legislazione dello Stato o della regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità […]”.
Ed, infatti, il problema che si pone è: esiste, dunque, una riserva di competenze normative, esercitabili con lo statuto ed il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, attribuita alla potestà normativa locale, che, dunque, in questo ambito prevarrebbe sulla legge?
Ha fornito risposta positiva al quesito il comune di Ladispoli, che ha riformato il proprio regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, applicando i principi dell’asserita riserva normativa regolamentare, diversificando notevolmente la disciplina regolamentare, da quelle prevista dalle leggi. Proprio l’esempio del comune di Ladispoli, ed in particolare la normativa regolamentare che consente l’accesso alla dirigenza dei dipendenti interni del comune medesimo anche non laureati, è stato oggetto di attenzione, sottolineando[6]:
a) i dubbi sulla rispondenza della disciplina regolamentare del comune di Ladispoli al vigente sistema delle fonti;
b) l’opportunità di applicare il “nuovo” sistema delle fonti, senza sminuire la rivoluzione che del rapporto tra fonti ha compiuto la riforma del Titolo V della Costituzione.
La norma del comune di Ladispoli, che qui si cita in quanto “archetipo” e senza alcuna intenzione di esprimere giudizi sull’operato di un ente, che legittimamente ha ritenuto di esercitare come meglio ha ritenuto la propria autonomia normativa, appare, tuttavia, esemplare del pericolo di un eccesso di autonomia statutaria, come vizio di legittimità costituzionale delle fonti normative locali.
Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi di quel comune, “rompendo” in modo evidente con disposizioni normative vigenti, ha previsto in merito all’accesso ai posti di qualifica dirigenziale:
a) la riserva del 50% dei posti da coprire al personale interno;
b) la possibilità che detto personale interno possa concorrere a mezzo di concorso per titoli ed “esame-colloquio”, col solo possesso di un titolo di studio di scuola secondaria superiore idoneo all’ammissione ai corsi di laurea, inquadrato nella categoria D con un’anzianità di servizio di almeno 9 anni.
Si è in presenza di una deroga molto evidente alle disposizioni contenute nell’articolo 28 del d.lgs 165/2001, a mente del quale, esattamente al contrario:
a) ai posti di ruolo di dirigente pubblico si accede esclusivamente per concorso per esami (concorso, per altro, da intendere pubblico, con esclusione di riserve o concorsi interni);
b) a tali concorsi può accedere esclusivamente chi disponga del titolo di studio della laurea.
Gli statuti locali, nella specifica materia della disciplina delle modalità di accesso agli impieghi, dispongono di un potere normativo di carattere “primario”?
Solo la risposta positiva a tale quesito, consente di considerare norme simili esenti da qualsiasi vizio di legittimità costituzionale.
Per rispondere al quesito, tuttavia, occorre chiedersi se le norme vigenti in materia di accesso alla dirigenza abbiano o meno carattere di norme di principio e se sì di principio derogabile o inderogabile. Bisogna, pertanto, stabilire se:
a) sia ammesso il concorso interno o riservato per accedere alla dirigenza e, dunque, se il concorso pubblico costituisca “principio”;
b) sia ammesso accedere alla dirigenza a dipendenti privi cella laurea e, dunque, se il possesso della laurea costituisca a sua volta “principio”.
Inoltre, occorre verificare se tali principi sono fissati dalla Costituzione o dalle leggi; oppure se siano solo “desunti” da tali fonti normative.
Partendo da questi ultimi quesiti, è evidente che solo i principi “fissati”, cioè esplicitamente enunciati dalle norme, costituiscono vincolo chiaro alla potestà normativa locale, visto che quelli semplicemente desumibili sono di per sé lasciati alle diverse interpretazioni degli operatori.
Tuttavia, al quesito se la disciplina dell’accesso alla dirigenza sia vincolato dal principio del concorso pubblico, si può rispondere con facilità in senso affermativo. Infatti, stabilisce l’articolo 97, comma 3, della Costituzione che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.
Si può obiettare che tale norma non qualifica espressamente il concorso come “pubblico”. Tuttavia, la lettura coordinata con gli articoli 3 e 51 della medesima Costituzione, nonché con il comma 1 del medesimo articolo 97, che enuncia i principi del buon andamento e dell’imparzialità, creano un nucleo unico di principi, tali da configurare il principio onnicomprensivo del concorso “pubblico” come regola generale per l’accesso agli impieghi. E, del resto, su questa linea d’onda è la giurisprudenza largamente maggioritaria costituzionale, ordinaria ed amministrativa.
Si può, ancora, obiettare che l’accesso alla dirigenza sfugga alle regole indicate prime. In questo caso, tuttavia, pur dovendosi sottolineare l’unanime consenso giurisprudenziale e dottrinario in merito alla configurazione dell’accesso alla dirigenza come accesso a nuovo impiego anche nei confronti di chi abbia già un rapporto di lavoro con un’amministrazione pubblica, sussiste una chiara disposizione di carattere primario e non costituzionale a stabilire l’accesso alla dirigenza per concorso. Si tratta del già citato articolo 28, comma 1, del d.lgs 165/2001. Norma che, essendo attuativa delle disposizioni costituzionali, non può che essere letta in armonia con esse, sicchè, sebbene anche tale articolo non menzioni l’aggettivo “pubblico”, deve necessariamente essere inteso come riferito alla disciplina dell’accesso alla dirigenza mediante concorso pubblico, non interno, né riservato.
Tuttavia, se l’articolo 117, comma 6, della Costituzione assegnasse realmente una riserva normativa ai regolamenti di organizzazione degli enti locali, si potrebbe in effetti immaginare una deroga forte all’articolo 28, sia con riferimento al concorso pubblico, sia con riferimento al titolo di studio della laurea.
Occorre, qui, verificare l’eventuale sussistenza di norme che enuncino chiaramente, per altro, al di là dell’articolo 28 citato, il principio inderogabile del possesso della laurea, come requisito per l’accesso alla dirigenza. Infatti, se si postula la riserva regolamentare, allora si può sostenere che il regolamento di organizzazione può derogare all’articolo 28 del d.lgs 165/2001. Anche perché, l’articolo 27 del medesimo decreto legislativo consente un adeguamento delle norme ivi contenute alle amministrazioni locali, tenendo conto delle specifiche loro peculiarità.
Dato per scontato, allora, che l’articolo 28 sia suscettibile di deroga, occorre verificare se il possesso della laurea sia, tuttavia, principio derogabile o meno.
La risposta appare negativa. Una prima motivazione la si ricava da quanto detto poco prima in merito alla relazione tra articolo 28 del d.lgs 165/2001 e norme costituzionali sull’accesso agli impieghi: poiché l’articolo 28 è attuazione concreta dei principi costituzionali, una deroga all’articolo 28 medesimo, implica anche deroga ai principi, in questo caso inderogabili, enunciati dalla Costituzione. Come spiega ancora la citata dottrina[7], “l’espressione dell’art. 114 [della Costituzione]: «secondo i principi fissati dalla Costituzione» non significa che se qualcosa non è stabilito nei principi fissati dalla Costituzione, lo statuto locale è libero di contenere tutto quello che vuole […] Nell’ipotesi che questi principi, pur fissati, stabiliti dal legislatore costituente […] rinviino ad una legge dello Stato, tali leggi costituiranno dei limiti per la potestà statutaria locale”.
In altre parole:
1) la soggezione degli statuti ai principi della Costituzione e non direttamente all’ambito delle leggi è una norma programmatica, che invita il legislatore a non emanare più leggi primarie di dettaglio;
2) gli statuti locali non dispongono di un campo di azione libero e riservato, dal momento che la Costituzione non ha loro assegnato alcuna riserva normativa, a differenza di quanto previsto per gli statuti regionali dall’articolo 123;
3) le leggi attuative dei principi costituzionali, fanno corpo unico con la Costituzione, sicchè i principi di tali leggi sono limitatitivi della potestà statutaria;
4) i regolamenti locali, nonostante l’articolo 117, comma 6, della Costituzione, non possono avere spazi normativi maggiori degli statuti, anche perché l’articolo 4, comma 3, della legge 131/2003 dispone espressamente che i regolamenti debbono rispettare le norme statutarie, sicchè i vincoli valevoli per queste, valgono allo stesso modo per quelli.
Pertanto, l’articolo 28 costituisce norma di principio, che vincola gli enti locali, in quanto è da considerare “organica” ai principi costituzionali[8].
Non si vede, comunque, quale “peculiarità” possa caratterizzare il sistema degli enti locali, o il singolo ente locale, sì da consentire una deroga al requisito della laurea per l’accesso alla dirigenza.
La dirigenza pubblica è un complesso di funzionari per definizione altamente qualificati, per le rilevanti responsabilità gestionali cui vanno incontro, nell’assicurare l’attuazione concreta dei programmi politici.
E’ certamente di rilevante interesse generale, ai fini del buon andamento dell’azione amministrativa, che i dirigenti (oggi veri e propri “organi” pubblici, sia pure non di governo) dispongano della più elevata qualificazione professionale possibile, adeguata alla qualità delle prestazioni che ad essi sono richieste.
E’ certamente vero che il possesso della laurea di per sé non garantisce la professionalità. Altrettanto vero è che presso le aziende private accedono (per la verità, con sempre minore frequenza: è ormai regola scontata che l’accesso al lavoro privato in posti anche impiegatizi è fortemente favorito dalla laurea) a contratti dirigenziali anche dipendenti privi di laurea. Tuttavia, è banale sottolineare che l’imprenditore privato persegue un interesse particolare mediante tutti gli strumenti da lui ritenuti più opportuni per conseguire il profitto; l’amministrazione pubblica deve fissare modalità generali ed oggettive, per restringere il novero dei soggetti potenzialmente in grado di accedere ad incarichi di una certa rilevanza, sicchè il possesso della laurea appare requisito discriminante fondamentale, ai fini della professionalità della dirigenza, nelle amministrazioni pubbliche in generale e negli enti locali, in particolare, sì da negare che vi possa essere qualche particolarità specifica, tale da consentire una dirigenza senza titolo in detti enti.
Per altro, il titolo di studio oltre ad essere elemento preso in considerazione dalle leggi che regolano l’accesso agli impieghi (la materia è rimasta nella competenza legislative e non è stata devoluta alla contrattazione collettiva), è, comunque, elemento specifico descrittivo del livello di professionalità richiesto per l’esercizio delle mansioni, legate ai profili professionali. Dunque, il titolo di studio è punto di raccordo tra la legislazione in materia di accesso agli impieghi, e la contrattazione collettiva che disciplina il rapporto di lavoro.
Ora, l’allegato A al Ccnl del comparto regioni-autonomie locali 31.3.1999, contenente le declaratorie della professionalità dei dipendenti, in proposito della categoria D, nella quale sono inquadrati i profili “predirigenziali” dispone espressamente che “appartengono a questa categoria i lavoratori che svolgono attività caratterizzata da: elevate conoscenze pluri-specialistiche (la base teorica delle conoscenze è acquisibile con la laurea breve o il diploma di laurea) […]”. Dunque, se per i ruoli di funzionario la contrattazione collettiva richiede la laurea, come è immaginabile che per l’accesso alla dirigenza, la medesima laurea non sia necessaria? E chiaro che ogni norma tendente ad eliminare questo requisito va in rotta di collisione con troppe norme e principi enunciati, per resistere alle verifiche di compatibilità con l’ordinamento.
Si può osservare che il medesimo Ccnl 31.3.1999 nel disciplinare la progressione verticale consenta l’accesso alla categoria D anche di personale non laureato. Ma, questo risulta del tutto insufficiente a giustificare un ulteriore sviluppo verso la dirigenza per tale personale, non solo per quanto detto fin qui, ma, soprattutto, perché la progressione verticale tra le categorie D e la dirigenza non è radicalmente prevista.
In proposito, giurisprudenza che pure non ha (non condivisibilmente) eccepito l’illegittimità di concorsi riservati per l’accesso alla dirigenza locale, ha, tuttavia, sottolineato che “la partecipazione alla quota riservata sia consentita solo in presenza di presupposti più rigorosi, dovendosi compensare con una selezione più ristretta a monte il deficit di concorrenza ed, in definitiva, le minori garanzie offerte dal concorso riservato[9]”. Eliminare il requisito della laurea appare, dunque, non solo di dubbia legittimità costituzionale, ma oggettivamente poco razionale.
Tornando, poi, alla questione del concorso pubblico, la prospettiva sulle possibilità di una deroga alle disposizioni dell’ordinamento giuridico tale da eliminare o restringere i concorsi ai soli interni, è stata oggetto di un’esemplare sentenza della Consulta[10], che ha anche esaminato proprio i profili dei rapporti tra fonti ordinamentali.
La Corte costituzionale ha messo in rilievo, in maniera sia esplicita, sia indiretta:
1) che l’autonomia normativa degli enti locali è inferiore a quella dello Stato e delle regioni, potendo solo questi enti legiferare (e solo lo Stato dispone del potere di revisione costituzionale);
2) l’articolo 114 della Costituzione non comporta affatto una totale equiparazione (o, come si rileva spesso in dottrina, equiordinazione) fra gli enti in esso indicati, proprio a causa dei differenti poteri normativi (sicchè è più corretto considerare l’articolo 114 come fonte della pari dignità istituzionale, non certo come fonte di equiordinazione tra enti);
3) è incostituzionale l’articolo 4 della legge regionale della Sardegna 11/2002, per aver ampliato la deroga al principio del concorso pubblico per l’accesso alla dirigenza, laddove:
a. attribuisce il titolo alla qualifica di dirigente anche al personale apicale non laureato;
b. elimina del tutto la previsione del concorso pubblico per la copertura dei posti da dirigente.
Non pare possibile, nemmeno immaginando la sussistenza di una posizione di statuti e regolamenti locali paria quelle delle norme primarie (il che non è), che, comunque, uno statuto locale possa introdurre legittimamente disposizioni contrarie alla Costituzione, perché ciò significherebbe assegnare alla normativa locale spazi di autonomia non riconoscibili nemmeno alla potestà legislativa regionale.
Non si tratta, tuttavia, solo di problemi di legittimità costituzionale, ma anche di vero e propri dubbi del rispetto del principio di legalità al quale deve conformarsi comunque l’azione amministrativa. Stati e regolamenti debbono in ogni caso essere coerenti con le leggi. Anche laddove la legge disponendo di se stessa consenta la deroga alle proprie disposizioni, la deroga essendo una modalità di relazione tra fonti poste su livelli differenziati, implica che la norma in deroga debba comunque esse compatibile con la norma derogata. Pertanto, essa può contenere una disciplina parzialmente diversa da quella dettata dalla norma derogata. Non può, invece, contenere una disciplina assolutamente contraria.
Infine, sulla materia riguardante l’organizzazione e, specificamente, la regolamentazione dell’accesso ai posti di lavoro, dirigenziali o meno, occorre prendere atto che non può sussistere alcuna riserva regolamentare o statutaria in favore degli enti locali.
Si incorre in questo equivoco, qualora si guardi esclusivamente alle norme del Titolo V riformato della Costituzione, che prese isolate dal contesto della Costituzione stessa, paiono assegnare all’autonomia normativa locale un rilievo molto più ampio di quello, pur rilevante, che in effetti la riforma ha inteso assegnare. Occorre, invece, leggere la carta costituzionale nel suo complesso, in quanto le regole normative sui poteri delle fonti non si esauriscono nel Titolo V, ma si reperiscono anche altrove.
Proprio l’articolo 97 della Costituzione contiene una duplice riserva di legge:
a) al comma 1, laddove riserva alla legge l’organizzazione degli uffici;
b) al comma 3, laddove riserva alla legge le eccezioni al principio dell’accesso per concorso pubblico.
Dunque, l’articolo 117, comma 6, della Costituzione non può essere letto come devoluzione agli enti locali di una riserva regolamentare di organizzazione, in quanto ciò contrasterebbe con il chiaro contenuto del precedente articolo 97.
La riserva regolamentare di cui all’articolo 117, comma 6, non può operare nei confronti delle fonti legislative; infatti, si deve ritenere che dipani la propria efficacia nei confronti delle fonti regolamentari dello Stato e delle regioni, sicchè tali enti nelle materie attinenti all’organizzazione delle funzioni (da legge come un’endiadi) degli enti locali, non possono ingerire con propri regolamenti (ma potrebbero con legge).
Il vero problema, comunque, consiste nel fatto che non esiste nei confronti della potestà normativa locale un sistema di controlli esterni, sicchè eventuali violazioni ai principi ed alle norme posti dalla Costituzione e dalle leggi che la attuano o la completano non può essere oggetto di nessuna questione di legittimità costituzionale da porre in via immediata da altri enti. Tutto rimane rimesso alla casualità di un eventuale ricorso in via amministrativa, nell’ambito del quale rilevare l’illegittimità delle norme per violazione di legge o Costituzione.
Si tratta di una carenza molto forte al sistema della normazione “policentrica”, perché permette la permanenza dell’efficacia nell’ordinamento di norme incostituzionali o, comunque, lesive dei principi generali normativi, senza alcun rimedio.
Se l’abrogazione dei controlli preventivi di legittimità sugli atti degli enti locali da parte delle regioni è l’inevitabile conseguenza della pari dignità istituzionale, l’abbandono di qualsiasi forma istituzionale di controllo di coerenza della normativa statutaria e regolamentare appare in grado di mettere in crisi il sistema, sia perché effettivamente la legge costituzionale 3/2001 ha attribuito a dette fonti una rilevanza maggiore, sia, soprattutto, perché non vi sono garanzie contro l’eccesso di autonomia statutaria.
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[1] V. Italia, Le autonomie locali nel Titolo V della Costituzione. Posizione e contenuto dello statuto nel sistema delle fonti statali, in Nuova Rassegna 11-12/2005.
[2] Così testualmente V. Italia, op. cit., pag 1205.
[3] Corte di cassazione, Sezioni Unite civili 16 giugno 2005 n. 12868; si veda, in merito, L. Oliveri, La rappresentanza in giudizio è attività gestionale – Il revirement della Cassazione sulle competenze dirigenziali, in questa Rivista n. 6/2005.
[4] Ed è davvero singolare che proprio in questo ambito, tutto sommato così chiaro, di valorizzazione degli statuti la giurisprudenza abbia opposto e tutt’ora opponga (Tar Basilicata - sentenza 2 agosto 2005 n. 745) una resistenza all’applicazione di una regola dei rapporti tra legge e statuti che la legge costituzionale 3/2001 vorrebbe divenisse usuale.
[5] G. Ruggeri, I regolamenti degli uffici del personale, in Nuova Rassegna 11-12/2005, pag. 1306 e S. Glinianski, Regolamenti di organizzazione degli enti locali e riserva di amministrazione, ibidem, pag. 1331.
[6] S. Glinianski, op. cit., pag. 1334.
[7] V. Italia, op. cit., pag. 1208.
[8] A tacer del fatto, poi, che il vigente testo dell’articolo 88 del d.lgs 267/2000, attualmente con norma dispositiva (che nel nuovo regime normativo attuativo della riforma costituzionale necessiterà di una modifica) prevede la diretta ed immediata applicazione delle disposizioni del d.lgs 165/2001 sulla dirigenza agli enti locali, tale da configurare l’illegittimità di ogni norma regolamentare e statutaria contraria a tali norme.
[9] Tar Puglia - Bari, Sezione II, 10.5.2004, n. 2116.