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Articoli e note

n. 7-8/2003

LUIGI OLIVERI

La rivendicazione delle fonti normative locali come fonti esclusive di produzione dell’ordinamento e dei controlli dopo la legge 131/2003– Conseguenze sulla figura del segretario comunale

 

Va verso una direzione tutta da scoprire l’attuazione della legge 131/2003, in particolare per quel che concerne la portata della potestà normativa degli enti locali.

La previsione contenuta nell’articolo 4, comma 6, della legge La Loggia, unita alla chiara volontà espressa dalla legge costituzionale 3/2001 di attribuire un maggior rilievo alla potestà normativa degli enti locali ha portato l’Anci e l’Upi, che difendono e cercano di esaltare il ruolo e le funzioni dei comuni e delle province, ad alzare di molto la posta dell’autonomia normativa.

Il 24 luglio scorso, le due associazioni hanno presentato alla Conferenza Stato-città ed autonomie locali una nota relativa all’articolo 2 della legge 131/2003, nella quale si descrive il punto di vista degli enti locali rispetto all’attuazione della delega legislativa ivi contenuta.

Nella sostanza, Anci ed Upi sostengono che le fonti normative locali dispongano di una vera e propria sfera di competenza normativa riservata, tale da escludere l’operatività delle leggi.

La posizione è espressa in due passaggi della nota. Nel primo, si sostiene che i controlli finalizzati alla garanzia della conformità dell’esercizio delle competenze degli enti territoriali alle leggi ed ai regolamenti “rientra nella competenza delle fonti normative locali” e non della legge. Il che comporta, poi, conseguenze inevitabili sulla posizione del segretario comunale, che si esamineranno nella seconda parte di questo studio.

Nel secondo e più chiaro passaggio, Anci ed Upi sostengono che “deve restare fermo che laddove gli enti territoriali sono dotati di una autonomia normativa nuova rispetto all’ordinamento costituzionale precedente, essi possono comunque esercitarla, anche quando questo conduce all’abrogazione o alla modificazione della normativa statale in vigore […] La normativa statale in vigore è già diventata normativa “cedevole” in tutti quei casi in cui le nuove fonti di autonomia normativa riconosciuta agli enti territoriali possano già oggi determinare la loro modifica o abrogazione”.

Il messaggio è chiaro. Comuni e province leggono nella novella costituzionale una potestà normativa nuova e diversa rispetto a quella ante legge costituzionale 3/2001. E chiedono che tale potestà sia piena ed esclusiva, sostanzialmente equiparata a quella legislativa, tanto da ritenere sussistente un rapporto di cedevolezza tra leggi e statuti e regolamenti, o, perfino, da considerare possibile la modifica o l’abrogazione delle leggi da parte dell’autonomia normativa locale.

E’ chiaro che qui si gioca una partita fondamentale per il futuro dell’assetto giuridico del Paese.

La posizione di Anci ed Upi non è isolata e trova notevoli sostegni in autorevoli interpreti. E’ probabile che tale interpretazione risulterà quella prevalente e vincente, che il Governo, nell’esercizio della delega legislativa, ascolti le sollecitazioni dei governi locali e costruisca un sistema giuridico basato su una serie di fonti poste sullo stesso piano, in posizione di competenza tra loro, oppure impostate sul principio della cedevolezza.

Già fin d’ora si registrano posizioni interpretative [1] che ritengono possibile per gli statuti locali disapplicare il principio della separazione delle competenze degli organi di governo da quelle degli organi di gestione (su questo tema si tornerà nella parte conclusiva del presente studio).

Tuttavia, le interpretazioni, pur rivelandosi in prospettiva maggioritarie e maggiormente seguite anche grazie alla carica di suggestione che portano con sé, desteranno comunque fortissime perplessità di legittimità, anche dal punto di vista costituzionale.

Sembra da escludere, infatti, che la novella alla Costituzione abbia determinato il venire in essere di una potestà normativa locale “nuova” o, comunque, dotata del potere di abrogare o modificare le leggi, o da determinare una condizione di cedevolezza della legge.

Questa appare una lettura forzata delle norme (scritte, tuttavia, in particolare la legge 131/2003, in modo da non privare la tesi di fascino e supporti interpretativi) che espone l’attuazione del “federalismo all’italiana” ad un concreto rischio: la perdita, in amplissimi ambiti amministrativi, di quel minimo di coerenza che pure appare necessaria ai fini di un’ordinata regolamentazione della vita civile.

In sostanza, si sostiene che la nova normativa avrebbe creato, tra comuni, province, unioni di comuni, comunità montane e comunità isolane, oltre 10.000 mini parlamentini sovrani, tante “Repubbliche di S. Marino” in scala (quanto ad ampiezza della sovranità) o enti locali dotati di speciale potestà normativa, di rango legislativo.

Non è da escludere che simile sistema possa anche funzionare senza problemi e portare a forti miglioramenti della vita di ogni giorno. Qualche lecita prudenza, tuttavia, è d’obbligo.

Soprattutto perché le basi di questo ragionamento non appaiono del tutto fondate.

E’ incontestabile che dalla riforma della Costituzione l’autonomia normativa locale sia uscita rafforzata. Altrettanto incontestabile che tale rafforzamento sia il frutto di un precetto costituzionale che impone al legislatore nelle materie concernenti l’autonomia locale di legiferare per principi, senza esaurire la disciplina della materia anche con norme di concreta attuazione e dettaglio.

Sostenere, però, che la normativa locale possa abrogare le leggi, appare affermazione non condivisibile.

Non lo è, anche se si ammettesse la sussistenza, tra norme locali e leggi, di un rapporto di competenza.

Infatti, poiché il rapporto di competenza si fonda su una reciproca riserva di materie di competenza delle fonti, nessuna fonte è legittimata ad intervenire nella materia riservata ad altra fonte.

L’abrogazione è istituto tipico della regolamentazione dei rapporti tra norme che operano dettando una disciplina giuridica nel medesimo ambito di competenza, fondato in particolare sul principio della successione nel tempo, sì da privilegiare la fonte successiva rispetto a quella più antica. E’ del tutto evidente che norme che si pongono su piani di competenza distinti e riservati tra loro, non possono vicendevolmente abrogarsi.

La norma che travalica il proprio ambito di competenza è semplicemente illegittima (in quanto viola la Costituzione o la legge) e non applicabile. La fonte che interviene, esercitando legittimamente il proprio potere normativo, ripristinando l’ordine delle competenze violato dalla fonte incompetente non la abroga. Semplicemente, adempie alla propria funzione di regolamentazione della fattispecie, attuando il principio di inesauribilità della normazione.

Lo stesso vale per la modifica. La modifica di una fonte da parte di un’altra fonte non è altro, in fondo, che una parziale abrogazione, per sostituzione di parte della disciplina, con una disciplina nuova e aggiornata. Così anche per l’integrazione, che pur non cambiando parti della fonte integrata, tuttavia la innova.

Non è ammissibile, ancora, sostenere che la legge risulti “cedevole” rispetto alla normativa locale [2].

Il principio di cedevolezza, elaborato dalla giurisprudenza della Consulta, non può che operare tra fonti pari ordinate. In un rapporto di concorrenza, in sostanza, nell’ambito del quale più fonti concorrono, con ruoli diversi, alla regolamentazione di una disciplina, ad una fonte si consente di andare anche oltre i confini della propria competenza concorrente. La fonte competente può riappropriarsi dell’ambito normativo di sua pertinenza esercitando quel potere che ha esplicato l’altra fonte, la quale, dunque, cede, alla nuova.

Ma se non v’è la concorrenza, non può esservi cedevolezza. La concorrenza, infatti, è alla base del legittimo esercizio, da parte delle due fonti, di una potestà normativa comune. Ma se le due fonti non sono in rapporto di concorrenza tra loro e, di conseguenza, non sono allineare nella medesima posizione nella gerarchia delle fonti, parlare di cedevolezza significa confondere questo istituto con quello della deroga.

E’ principio assestato e noto che una fonte di rango inferiore non può abrogare una fonte di rango superiore nella gerarchia delle fonti [3]. Ciò non avviene nemmeno nel caso dei regolamenti delegati di delegificazione di cui all’articolo 17 della legge 400/1988. L’effetto abrogativo, infatti, è da ricondurre alla legge di delega che individua le fonti da abrogare, rinviando all’entrata in vigore del regolamento delegato l’effetto dell’abrogazione e della sostituzione delle fonti abrogate ad altra normativa di natura regolamentare (delegificazione).

Ritenere, dunque, che fonti regolamentari o statutarie possano abrogare leggi, come richiesto da Anci ed Upi, significa introdurre una fattispecie del tutto nuova nel rapporto tra fonti nell’ordinamento italiano, non prevista dalla Costituzione.

La quale, contrariamente all’avviso espresso dalle due associazioni, non ha, a ben vedere, introdotto “nuove” fonti normative locali, ma ha dato corso ad un riconoscimento implicito delle stesse, dando vita ad un principio implicito di valorizzazione, che è reso esplicito dall’articolo 2, comma 4, lettera d), della legge 131/2003.

Statuti e regolamenti restano collocati ad un livello normativo più basso rispetto alla legge. Gli enti locali, lo ha spiegato la recente sentenza della Consulta 274/2003, non dispongono di potestà legislativa. I poteri normativi di Stato, regioni ed enti locali sono e restano, secondo la Corte costituzionale, diversi per estensione, intensità, competenza, qualità.

Non si vede, allora, come possano statuti e regolamenti locali abrogare le leggi, né come queste possano “cedere” ai primi. Soprattutto, poi, se per cedevolezza si intenda una totale perdita, da parte della legge del potere di reintervenire sulla materia disciplinata per regolamento. Perché, più che di cedevolezza, si tratterebbe di un potere comunque abrogativo. L’abrogazione consiste nella totale e perenne disapplicazione di una norma.

Tuttavia, nell’ambito del rapporto di cedevolezza tra leggi statali quadro e leggi regionali individuato dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel precedente regime costituzionale, non si dubitava [4] che in relazione ad una forza comunque prevalente della legge statale rispetto a quella regionale, la prima potesse in ogni caso nuovamente normare sulla materia disciplinata dalla seconda con effetto di cedevolezza. Sicchè allo Stato rimaneva in ogni caso il potere di ampliare la sfera di intervento della propria potestà legislativa, anche in quegli ambiti nei quali essa aveva ceduto ad una disciplina regionale.

Se ciò valeva, nel precedente regime, tra fonti pari ordinate, non si vede perché non possa valere nel precedente regime tra fonti che non sono poste in una posizione di equivalenza nella gerarchia delle fonti.

L’articolo 4, comma 6, della legge 131/2003, allora, non può che essere interpretato nel senso che esso consente la “deroga” delle fonti regolamentari locali rispetto alle leggi che disciplinano la materia dell’organizzazione delle funzioni locali. Chiarendo che la deroga riguarda solo le parti delle leggi che non dispongono precetti o principi, ma che abbiano un contenuto di specificazione ed attuazione di natura regolamentare.

Solo l’istituto della deroga appare compatibile con un assetto costituzionale che non ha riservato in via esclusiva materie alla normazione locale, non dando luogo, dunque, al rapporto di competenza tra leggi e statuti e regolamenti.

La deroga, infatti, non comporta, al contrario dell’abrogazione o della cedevolezza, la definitiva disapplicazione della norma, ma una disciplina, da parte della norma di rango inferiore, della normativa stabilita dalla fonte di rango superiore parzialmente diversa da questa, ma, comunque, compatibile con essa. L’abrogazione, invece, postula di per sé l’incompatibilità tra fonti. Se queste, però, operano su piano diversi, è chiaro che quella posta su un piano più elevato prevale su quella inferiore, sicchè quest’ultima non può abrogare la prima.

L’articolo 4, comma 6, della legge 131/2003, dunque, va inteso come norma che autorizza i regolamenti locali a derogare alle leggi, per quei contenuti di dettaglio regolamentare che eventualmente le connoti.

Se si parla, invece, di abrogazione, poiché i confini della competenza in merito all’organizzazione dell’ente ed all’organizzazione della disciplina delle funzioni non sono oggettivamente chiari, si può indirettamente ammettere un’operazione di “disboscamento” delle leggi a macchia di leopardo da parte degli enti locali. Il tutto, per altro, in carenza, negli enti locali, di un’abitudine a disciplinare normativamente ambiti più ampli di quelli sin qui di propria competenza e, soprattutto, in mancanza, spesso, di professionalità adeguate al difficile compito normativo di rango legislativo che si rivendica, testimoniato dalla qualità oggettivamente non sempre elevata degli atti normativi locali.

Poiché la materia della disciplina dello svolgimento delle funzioni amministrative locali non può non riguardare, in qualche modo, le modalità di conduzione dell’attività amministrativa, l’affermarsi della teoria del potere abrogativo dei regolamenti locali sulla legge, potrebbe condurre, ad esempio, all’ammissibilità dell’abrogazione della legge 241/1990 da parte degli enti locali. Il che, oggettivamente, non può non preoccupare, in presenza di una rilevantissima quantità di regolamenti locali e, soprattutto, di prassi applicative fortemente limitanti, ad esempio, del diritto di accesso o della pubblicità degli atti. La creazione di cittadini distinti in varie serie, dalla “A” alla “B”, sarebbe inevitabile. Ed il proliferare di sentenze che decretano il passaggio di ciascun cittadino (nella rivendicazione di diritti quali la trasparenza, la pubblicità, l’accesso) da una serie all’altra o la permanenza in una serie piuttosto della retrocessione, agendo sulla normazione locale, sarebbe all’ordine del giorno.

La ricostruzione della potestà normativa locale proposta da Anci ed Upi, inoltre, potrebbe essere foriera di conseguenze di natura difficilmente decifrabile, ma non necessariamente positive, sui segretari comunali.

Tornando al punto della nota fornita alla Conferenza Stato-città ed autonomie locali in cui le due associazioni si soffermano sui controlli, in relazione all’articolo 2, comma 4, lettera m), della legge 131/2003, ivi si afferma che la revisione del testo unico sull’ordinamento locale:

1) può mantenere ferma una disciplina legislativa statale sui controlli sugli organi;

2) può mantenere ferma una disciplina legislativa statale sulla vigilanza sui servizi statali attribuiti al sindaco quale ufficiale di governo;

3)  può mantenere ferma una disciplina legislativa statale sulla vigilanza in ordine ai procedimenti preordinati alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica;

4) può mantenere ferma una disciplina legislativa statale sul controllo della conformità amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti in merito alle leggi statali nelle materie della giustizia penale, civile e amministrativa;

5) deve attribuire alla competenza esclusiva delle fonti locali il controllo finalizzato a garantire la conformità a leggi, statuti e regolamenti nell’azione amministrativa degli enti locali.

Non appare difficile leggere in questa parte della nota una rivendicazione ad un totale affrancamento dai controlli di regolarità amministrativa e di legittimità. Difficilmente uno statuto od un regolamento locale darebbe vita a controlli penetranti e, soprattutto, “terzi”. La voglia di “mano libera” appare piuttosto evidente.

Occorre chiedersi se si ritenga che controlli sulla conformità a leggi, statuti e regolamenti non concernano anche le altre materie di competenza della legislazione dello Stato, dalla tutela della concorrenza, alla tutela dell’ambiente, dall’ordinamento civile e penale, alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. E delle materie di legislazione concorrente Stato-regioni, cosa ne avviene? E delle materie di competenza esclusiva della potestà legislativa regionale?

Sembra assolutamente evidente che la legge, statale e regionale, di potestà legislativa esclusiva o concorrente, mantenga tutto intero il potere di fissare una disciplina per il controllo della conformità amministrativa, che altro non è che un controllo sull’obbligo delle autorità amministrative di applicare e rispettare le leggi, in applicazione del principio di legalità che continua a rappresentare un limite all’azione amministrativa, ma anche un orientamento alla stessa. Ciò proprio perché la Costituzione non ha riservato materie alla competenza normativa locale.

La nuova stesura della Costituzione esclude che si possano effettuare controlli preventivi di sola legittimità da parte di enti diversi da comuni e province. Non esclude i controlli in sé e per sé. Non esclude che il legislatore statale e regionale possa disciplinare i controlli interni, né i controlli esterni. E’ auspicabile, anche in questo caso, che il legislatore detti principi e non modalità, criteri e non strumenti. Ma né la Costituzione, né la legge La Loggia, hanno esautorato la legge da questo potere.

Anci ed Upi sono talmente coerenti con la loro rivendicazione di una riduzione forte della portata dei controlli che, in merito al ruolo dei segretari comunali, affermano: “ciò non esclude che la figura del segretario comunale, fatta salva dall’art. 2, comma 4, lettera m), per quanto attiene alle competenze esercitate in nome dello Stato, ma non per quelle esercitate dagli enti territoriali sulla base delle funzioni loro attribuite, possa egualmente trovare pieno apprezzamento e valorizzazione nell’ambito delle scelte normative, statutarie e regolamentari che ogni ente può e deve compiere”.

E’ un’affermazione di impatto fortissimo, un passo in là rispetto alla stessa legge 127/1997 che, se avesse seguito da parte del legislatore delegato, darebbe forse l’ultima spallata al segretario comunale come fin qui è stato conosciuto.

Con la speranza di non tradire il pensiero di Anci ed Upi, il passaggio relativo ai segretari comunali, pare possa essere riscritto in termini più diretti così: il nuovo modo di disciplinare i controlli, implica che il segretario comunale può svolgere la sua funzione di consulenza giuridica amministrativa propriamente solo sulle materie di competenza legislativa dello Stato, in quanto funzionario non locale, ma appartenente ad un’Agenzia statale. Il segretario, dunque, dovrebbe di regola essere escluso da funzioni di controllo di regolarità amministrativa su tutte le funzioni amministrative degli enti locali che non consistono in un’esplicazione di potestà legislativa statale. Ciò nonostante, statuti e regolamenti locali, depositari del potere esclusivo di disciplinare i controlli, possono comunque assegnare un ruolo di prestigio al segretario.

Le affermazioni contenute nella nota, che ci si è permessi di trasporre liberamente in prosa in altra forma, comunque portano a queste conclusioni.

A. Il segretario comunale pare visto dalle associazioni degli enti locali esclusivamente come funzionario preposto ad una funzione di controllo di legittimità.

In effetti, l’osservazione che l’articolo 4, comma 2, lettera m), della legge 131/2003 conservi la funzione di assicurazione della conformità dell’attività amministrativa alla legge, allo statuto ed ai regolamenti nella figura del segretario comunale, appare poco più che la riscoperta della ruota. Almeno finchè resta in vigore il D.lgs 267/2000 che prevede obbligatoriamente la figura del segretario comunale. A ben vedere, tuttavia, la citata norma della legge La Loggia si limita ad affermare l’indefettibilità della funzione, ma non l’obbligatorietà del funzionario che la deve svolgere. E ciò non è da poco [5].

Occorre, in ogni caso, capire se il segretario comunale sia deputato esclusivamente allo svolgimento di tale funzione, o se sia chiamato ad una funzione di direzione e coordinamento complessiva.

Una constatazione è evidente a tutti: il segretario attende esclusivamente alle funzioni di consulenza giuridico amministrativa e di assicurazione della conformità dell’attività amministrativa alla legge, allo statuto ed ai regolamenti solo laddove operi, al suo fianco, un direttore generale.

Negli enti in cui il direttore generale non sia diverso dal segretario comunale o dove il direttore generale non sia previsto, il segretario svolge funzioni ben più ampie di quelle evidenziate da Anci ed Upi.

Il tema che si può e deve porre, allora, è: si pensa ad un segretario comunale che torni alla funzione percepita come controllo preventivo di legittimità ante legge 127/1997, per attribuire ad altri soggetti funzioni direzionali?

B. Che nella nota dell’Anci e dell’Upi l’idea del ruolo del segretario comunale del dopo D.lgs 267/2000 appaia limitativa (sempre che ciò non sia esclusivamente un abbaglio di chi scrive, che ha mal compreso le affermazioni delle due associazioni, il che non si può a priori escludere) lo dimostra la stessa espressione letterale: “ciò non esclude che la figura del segretario […] possa egualmente trovare pieno apprezzamento […]”.

Perché “egualmente” apprezzamento? Perché, forse, in quadro dei controlli a competenza normativa esclusiva locale, si può dare corso ad un sistema di controlli “diseguale” rispetto a quello attuale, nel quale altri soggetti quanto meno concorrano alla verifica della conformità amministrativa a legge?

In effetti, la nota esclude che il segretario comunale possa estendere le sue competenze di “controllo” alle funzioni amministrative locali espletate al di fuori dell’ambito normativo di competenza esclusiva statale non ricompresso nel ristrettissimo novero sempre citato dalla nota. Insomma, il messaggio indiretto appare proprio rivolto a far sì che gli enti locali, nell’esercizio della propria potestà normativa creino figure che esercitino una quota parte delle funzioni tipicamente del segretario, connesse alle funzioni amministrative proprie dell’ente locale. In fin dei conti, una sorta di segretario comunale locale, non dipendente dall’Agenzia, ma direttamente dall’ente. Che si tratti del direttore generale? Di un altro funzionario individuato e descritto da statuti e regolamenti? Avevano, dunque, ragione i comuni di Castel di Tora e di Lauro?

Non sembri forzatura ritenere che questi sono gli scenari che la nota apre rispetto al ruolo dei segretari comunali, che oggettivamente non appare propriamente rafforzato.

Anche perché non viene affrontato il tema cruciale per l’espletamento di funzioni di direzione, oltre che di garanzia della conformità dell’azione amministrativa a legge, statuto e regolamenti, da chiunque esse siano svolte, ed in particolare dal segretario comunale: la collocazione in una posizione non precaria nell’ambito dell’ente.

La sussistenza di un rapporto costruito sul principio del simul stabunt, simul cadunt tra sindaco e segretario, costituisce un riconosciuto ed acclarato indebolimento della figura del segretario. Finchè non si risolve questo nodo, finchè il “controllore” dipenda così strettamente dal “controllato”, anche se oggetto delle verifiche di conformità non sarebbero, per lo più, gli atti degli organi di governo, il segretario potrà sempre “egualmente” trovare “apprezzamento”.

Forse, però, il vero problema consiste nell’attribuire al segretario ed alla dirigenza una posizione di autonomia e responsabilità legata ai risultati, non a rapporti di fiduciarietà spuri, non compatibili con un sistema amministrativo come quello italiano, nel quale la Costituzione vigente impedisce la creazione di uno spoils system di carattere anglosassone vero e proprio, al di là della necessità di una crescita delle competenze tecnico gestionali della dirigenza, parallela ad un abbandono di logiche troppo giuridiche.

Starà al legislatore delegato, ovviamente, dipanare la matassa non poco ingarbugliata, che si prefigura.

Non contribuiscono, in ogni caso, a risolvere il nodo interpretazioni favorevoli ad un’estensione tale della potestà normativa locale da consentire di rimediare, per volontà dei consigli comunali e provinciali, ad alcune scelte legislative che a ben vedere non sono mai state ben accettate.

Ci si riferisce, in particolare, alla separazione delle competenze. L’individuazione, nello statuto, di una fonte pari ordinata alla legge non può, in effetti, non tentare di sostenere la conclusione che esso possa, in conseguenza di ciò, modificare anche l’assetto non dell’organizzazione, ma istituzionale degli enti.

Tale interpretazione, per altro, troverebbe l’immediato gradimento e plauso da parte degli organi di governo, che approverebbero certo senza indugi una modifica statutaria in tal senso, sostenendola con le tesi dottrinali favorevoli.

Da parte di alcuni, dunque, già si sostiene che:

1) la operazione delle competenze tra organi politici ed amministrativi appare soltanto un principio indirettamente derivante dalla manifestazione indiretta dell’altro principio del buon andamento, ma non è espressamente posto dalla Costituzione;

2) l’espressa definizione del principio è contenuta in norme di legge ordinarie, il D.lgs 267/2000 e il D.lgs 165/2001;

3) tali norme, tuttavia, potevano costituire un limite alla normativa statutaria prima della sua elevazione di rango a fonte primaria;

4) oggi è venuta meno la subordinazione dello statuto alla legge;

5) dunque, un provvedimento che deroghi al principio di separazione, ma si riveli conforme ad uno statuto che strutturi le competenze tra organi in modo diverso da tale principio, non potrebbe essere considerato illegittimo.

Anche in questo caso, chi scrive non condivide la tesi esposta, in quanto essa appare pianamente confutabile.

Tuttavia, non ci si nasconde che essa potrà, di fatto, rivelarsi largamente seguita ed attuata, per altro con ottime possibilità di affermazione, non perché corretta, ma perché sarà molto difficile, in effetti, ottenere una rimozione di simili norme statutarie.

Andando al primo aspetto del problema, si può notare come l’impostazione di tale tesi si fondi da un lato sulla presunta, ma in realtà inesistente (come già visto prima), equiparazione tra legge e statuto.

In secondo luogo, sull’ulteriore spunto fornito dal vigente sistema, secondo il quale lo statuto deve rispettare solamente i principi fissati dalla Costituzione.

Tali assunti sono incompleti e non corretti. Bisogna, infatti, tenere conto dei seguenti elementi.

1) il D.lgs 267/2000 non risulta abrogato, né incompatibile con la Costituzione o con la legge 131/2003.

L’articolo 4, comma 2, di quest’ultima attribuisce allo statuto locale una serie di competenze, largamente più ristrette di quelle previste dal testo unico, precisando che esse vadano esercitate “in armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione”.

Per un verso, il fatto che il citato articolo 4, comma 2, citi un novero di competenze statutarie più ristrette, deve indurre a ritenere che esso non abroghi l’articolo 6 del testo unico, ma debba interagire con esso, completandolo. Se così non fosse, bisognerebbe concludere che lo statuto non potrebbe più disciplinare la specificazione delle attribuzioni degli organi, le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio, le forme di collaborazione tra comuni e province, della partecipazione popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi e quanto altro previsto dal testo unico stesso.

Se, allora, l’articolo 6, comma 2, del testo unico, finchè non sia attuata la delega legislativa contenuta nell’articolo 2 della legge 131/2003, rimane vigente, lo statuto esplica ancora la propria forza normativa “nell’ambito dei principi fissati dal presente testo unico”.

Il testo unico fissa il principio della separazione. Dunque, non è possibile che lo statuto disponga in modo da contrastare a tale principio.

2) Lo stesso avverrebbe anche a seguito della modifica del testo unico. Infatti, opererebbe comunque il dettato dell’articolo 4, comma 2, della legge 131/2003 il quale indica tre limiti alla potestà statutaria proprio in tema di organizzazione ed assetto istituzionale:

a) l’armonia alla Costituzione (del resto prevista anche dall’articolo 114, comma 2, della Costituzione stessa);

b) l’armonia con i principi generali in materia di organizzazione pubblica;

c) il rispetto delle materie di competenza esclusiva della legge statale in materia di ordinamento locale.

Ora, la Costituzione all’articolo 97 fissa il principio della riserva di legge in merito all’assetto delle competenze. Poiché lo statuto non è una legge (anche ammettendone la sua equiparazione alla legge come forza normativa), esso risulta impossibilitato a stabilire una disciplina di rapporti tra organi di governo e gestionali differente da quella fissata dalle leggi sull’organizzazione pubblica, in modo da risultarne incompatibile, in quanto violerebbe in un colpo solo legge e Costituzione.

Né la Costituzione, poi, né la legge 131/2003 stabiliscono che i principi fissati da Costituzione e leggi debbano essere espressi in forma esplicita. Occorre distinguere tra i principi “enunciati” o posti esplicitamente dalle norme, da quelli desumibili. Sebbene i primi siano più facilmente rinvenibili, essi hanno medesimo valore limitativo della potestà normativa dei secondi.

Il principio della separazione delle funzioni è desumibile, nell’interpretazione prevalente da ormai circa un ventennio, dal combinato disposto degli articoli 97 e 98 della Costituzione. Uno statuto che disponesse in senso inverso violerebbe, dunque, la Costituzione.

L’armonia con i principi generali in materia di organizzazione pubblica, in ogni caso, imporrebbe agli statuti il rispetto del principio di separazione, in quanto posto dal D.lgs 165/2001 (finchè resti vigente).

In rispetto delle materie di competenza esclusiva della legge statale in materia di ordinamento locale, impedisce radicalmente allo statuto, a meno che non sia questa legge a consentirlo, di modificare gli assetti delle competenze degli organi.

Infatti, la legge statale di cui all’articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione disciplinerà [6] gli organi di governo. Ciò sta a significare che ne traccerà anche le competenze. Lo statuto, allora, non potrà modificare l’assetto di tali competenze, a meno di violare la legge.

Per tutte queste ragioni, la tesi della derogabilità del principio di separazione da parte dello statuto si ritiene non condivisibile (come la tesi, che immancabilmente sarà affermata, della derogabilità del principio del concorso pubblico per l’accesso agli impieghi negli enti locali).

Tuttavia, è abbastanza facile presagire che queste tesi prevarranno. In primo luogo, perché l’eliminazione dei controlli negli enti locali sostanzialmente scongiura qualunque pericolo di eliminazione di simili norme alla radice. Non si potrà, infatti, contare su organi di controllo “interni”, come il segretario comunale, strettamente legati al rapporto con gli organi di governo: mancherebbe ogni seria autonomia e terzietà, oltre che potere.

In secondo luogo, la vigenza di norme statutarie di tal genere darebbe vita ad una vera e propria probatio diabolica in giudizio. Infatti, per ottenere la rimozione di simili norme statutarie, sarebbe necessario rinvenire il provvedimento amministrativo attuativo, da questo risalire all’atto presupposto, che sarebbe indubbiamente un regolamento, e da questo, ancora, risalire allo statuto. L’impresa, tecnicamente, risulterebbe oltre modo difficoltosa. Molto più facile sarebbe la previsione, allora, di un sindacato sugli statuti. Posto che essi sono da considerare parificati alle leggi, occorrerebbe prevedere nell’ordinamento un rimedio avverso statuti che violino la Costituzione e la legge molto più diretto, che attualmente non c’è e che rende, dunque, altamente probabile il proliferare ed il permanere di disposizioni statutarie non del tutto in linea con la Costituzione.


 

[1] M. Boffa, La rappresentanza processuale dell’ente locale, in Nuova Rassegna 11/2003, pag1245.

[2] Vedasi, più ampiamente, L. Oliveri, Organizzazione degli uffici degli enti locali e norme cedevoli alla luce della legge 3/2001, in www.giust.it.

[3] Così come, allo stesso modo, fonti poste tra loro in relazione di competenza non possono abrogarsi reciprocamente.

[4] L. Paladin, Diritto costituzionale, ed. Cedam, 1998, pag. 221 e 222.

[5] Vedasi, amplius, L. Oliveri, L'inconfigurabilità del segretario comunale come “organo necessario allo svolgimento delle funzioni fondamentali degli enti locali” dopo la riforma della Costituzione, in www.giust.it.

[6] Si utilizza il futuro perché tale legge, contrariamente sempre a quanto ritenuto dall’Anci, non può essere considerata il D.lgs 267/2000. Se si tratta di attuare l’articolo 117, comma 2, novellato della Costituzione, tale attuazione non può che avvenire con una legge successiva a detto articolo, e non precedente, come nel caso del testo unico.


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