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Articoli e note

n. 6/2005 - © copyright

MAURIZIO LUCCA*

Il c.d. preavviso di rigetto tra buona fede
e legittima aspettativa del privato

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Il procedimento amministrativo delineato dalla legge generale n. 241 del 1990 segna in parte una rivisitazione del principio di consequenzialità (per la quale un atto non può essere compiuto se non viene adottato un atto che nella sequenza normativa necessariamente precede) che concerne l’obbligo, da parte della Pubblica Amministrazione, di adottare atti e decisioni coerenti con quanto contenuto sia con gli altri atti del procedimento stesso, sia con le circolari e le direttive contenenti indicazioni a tale riguardo, in piena esecuzione degli elementi di fatto e di diritto che reggono il provvedimento e che costituiscono le basi giuridiche affinché l’atto stesso venga ad esistenza, con la conseguenza che l’esistenza dell’atto amministrativo (in assonanza con la consequenzialità delle fasi procedimentali) deve essere sostenuta (ex articolo 21 septies) da un minimum di elementi indispensabili perché un atto possa considerarsi valido, e questi elementi sono ricadenti nella piena individuazione del soggetto legittimato, nell’oggetto idoneo (che rappresenta il termine attivo e quello passivo dell’atto), nella forma, nel contenuto e nelle finalità (che devono sempre tendere al raggiungimento del pubblico interesse o della sua finalizzazione) [1].

Si può subito sostenere che procedimento amministrativo e provvedimento amministrativo sono intimamente legati da meccanismi formali e procedurali che devono essere rispettati pena la nullità (annullabilità) dell’atto, dovendo rilevare che sia la carenza di un elemento essenziale che la presenza di una violazione alle regole del procedimento comporta sicura invalidità (da non confondere con la mera irregolarità, ex comma 2 dell’art.21 octies), invalidità che va connessa alla conformazione dell’atto alle ipotesi delineate astrattamente dall’ordinamento, e la mancanza di una formalità (ora sostanziale) prevista dalla legge (ci si riferisce all’articolo 10 bis) si proietta nell’incapacità dell’atto (rectius provvedimento) ad essere titolare di poteri incidenti sulla sfera giuridica del terzo, per il negato rispetto delle norme giuridiche che ne legittimano sia il potere che l’esistenza, costituendo motivo valido di caducazione per la violazione delle prescrizioni generali (come vedremo da una prima sentenza sul punto).

A questa lettura si deve ritenere che il rispetto delle forme sostanziali e il corretto uso del potere attribuito alla p.a. abilita il provvedimento a dispiegare gli effetti voluti dal legislatore, in relazione ai principi generali di tutela dell’affidamento e autolimitazione alla discrezionalità, attraverso i quali l’azione amministrativa (legittima) opera in seno alla società civile.

Questo per introdurre il tema del c.d. preavviso di rigetto, fase procedimentale prevista dall’articolo 10 bis della nuova legge 241 del 1990 (rivista dalla legge 15 del 2005), che ha una portata innovativa e generale dovendosi applicare alla totalità dei procedimenti amministrativi ad istanza di parte (rispondendo alla c.d. pretesa partecipativa), ed inoltre che esprime un valore cogente di trasparenza imponendo (obbligatoriamente) idonea motivazione prima di negare l’accoglimento di una richiesta, e più in generale per costituire una fase endoprocedimentale (autonoma) inserita nel procedimento destinato a sfociare (eventualmente) in un provvedimento amministrativo (fase decisionale), con l’intento di privilegiare la conservazione dell’atto (l’esito favorevole) piuttosto di rigettare automaticamente (e senza preinformazione) l’istanza [2].

Il c.d. preavviso di rigetto e/o diniego (o letteralmente “Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza”) per i procedimenti ad istanza di parte, impone - a fronte di un esito procedimentale negativo per il richiedente – che il responsabile del procedimento o l’autorità competente provveda (obbligatoriamente) ad informare preventivamente il soggetto istante dei motivi che ostano al rilascio del provvedimento, istante (“istanti”) che conserva (nel termine di dieci giorni dalla comunicazione) il diritto presentare (per iscritto) osservazioni (eventualmente corredate da documenti) al fine di rimuovere gli ostacoli (motivi) che impediscono l’esito positivo della richiesta, inducendo così la p.a. a rivisitare le proprie determinazioni negative in un corretto e qualificato contraddittorio tra le parti (giusto procedimento), con l’ulteriore corollario che i termini per concludere il procedimento vengono interrotti dal momento della comunicazione (il c.d. preavviso di rigetto) ed iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di dieci giorni [3].

Alla stregua di ciò, è del tutto conferente con l’impianto complessivo della legge 241/90 (soprattutto dopo l’introduzione delle modifiche operata dalla legge 80/2005) abilitare tutti i soggetti interessati a partecipare - con le osservazioni – al procedimento amministrativo per contrastare la fase postistruttoria e predecisionale con ulteriori elementi valutativi di giudizio, e l’ulteriore ingresso della parte (di tutte le parti) può far maturare la coltivazione di un diverso esito procedimentale che da sfavorevole all’istante (con una nuova valutazione documentale o solamente fattuale) si trasfonde in favorevole, prevenendo una soluzione finale senza rimedio [4].

Il dominus del procedimento, ovvero il titolare della competenza, al termine della procedura se riterrà di non accogliere le osservazione dovrà darne motivazione nel provvedimento di rigetto finale (provvedimento che potrà essere di accoglimento in adesione alle osservazioni presentate dall’istante, o di rigetto motivato per l’inutilità delle controdeduzioni, o solamente per la mancato integrazione del contraddittorio).

Fatte queste brevi osservazioni sul tenore dell’articolo 10 bis della legge 241, e appurato che tale fase partecipativa (in linea con la ratio della legge) “serve alla salvaguardia dello Stato di diritto nell’esecuzione della legge, all’emanazione concreta e razionale di decisioni materialmente corrette da parte della p.a., all’ordinata partecipazione di coloro che vengono colpiti dall’azione amministrativa, alla preparazione delle decisioni”, ed inoltre “tale disposizione è tesa ad introdurre un istituto procedimentale attraverso il quale ci si propone di limitare il contenzioso tra cittadino e pubblica amministrazione mediante la previsione di un ulteriore canale di comunicazione tra le parti precedente alla decisione finale” (effetto deflattivo) [5], non si può non constatare che questa nuova fase procedimentale risponde ad un più stretto dovere di correttezza e buona fede che dovrebbe presidiare lo svolgimento del rapporto tra la p.a. e il cittadino (come clausola generale aperta che non si dovrebbe esaurire in singoli richiami normativi, ma che necessariamente dovrebbe trovare un proprio collocamento sostanziale tra le fonti primarie del procedimento).

Questa affermazione permette di introdurre alcune precisazioni metodologiche e dire che nell’azione amministrativa può trovare applicazione il dovere di buona fede (ex art. 1366 c.c.) e di conservazione del procedimento (ex art. 1367 c.c.), coniugando le regole della correttezza nelle trattative tra le parti (mutuabile dalla disciplina codicistica) sia in fase predecisionale (ergo precontrattuale) che in quella riferita all’esecuzione del rapporto, che coincide con l’adempimento degli obblighi provvedimentali, nella consapevolezza che il provvedimento amministrativo (diversamente dall’atto) è portatore di interessi dispositivi in grado di limitare la sfere giuridica del privato (ex art. 21 bis della legge 241).

Diverrebbe naturale, di conseguenza, aprire la strada ad una serie di considerazioni pragmatiche se nel diritto civile la correttezza comporterebbe meri obblighi negativi e la buona fede imporrebbe più penetranti obblighi positivi in relazione al principio di solidarietà che regola i rapporti intersoggettivi (ex art.2 Cost.), non vi è motivo di dubitare che la disciplina sul procedimento ha lo scopo di chiarire la portata di ogni singola fase procedimentale per consentire al suo destinatario di comprendere la portata precettiva di ogni singola fase, e la mancata trasparenza (ovvero l’obbligo di agire secondo le citate norme) può ingenerare (e ingenera) responsabilità precontrattuale (imputabile alla p.a.) perché il comportamento del soggetto pubblico non è conforme alla disciplina prevista per il caso concreto (vi è, in altri termini, un affidamento da parte del privato affinché la p.a. operi secondo criteri di legge e di conformità alle disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti, ex art.1 della legge 241) [6].

Sono questi principi di diritto che obbligano la p.a. a motivare ogni provvedimento amministrativo, perché attraverso un’adeguata motivazione il privato è messo nelle condizioni di verificare la compatibilità tra l’interesse pubblico perseguito e l’azione concretamente operata nel raggiungere tale scopo, ma sopratutto la motivazione risponde in termini di sostanziale pubblicità, intesa come espressione di partecipazione e accessibilità al procedimento e agli atti amministrativi, rapportabili al principio costituzionale del buon andamento e di imparzialità, sempre verificabili non in astratto ma nel concreto esercizio dell’agire pubblico attraverso il contraddittorio delle parti, che altro non è se non l’obbligo di agire secondo le regole della correttezza e della buona fede (pena il lento naufragare del giusto procedimento) [7].

Si spiega così l’affermazione secondo cui le fasi procedimentali trovano una collocazione normativa del Capo II della legge 241, e l’articolo 10 bis va inserito in questo contesto di allargata partecipazione, dando una visione diversa e più marcatamente civilistica al procedimento amministrativo, procedimento amministrativo che apre al diritto civile quando la p.a. non utilizza il proprio potere autoritativo, definendo un nuovo arretramento del diritto amministrativo rispetto al diritto comune, per privilegiare il modulo contrattuale – partecipativo rispetto al provvedimento (imperativo), segno che l’agire pubblico può essere perseguito anche attraverso modelli codicistici (vedi, l’articolo 11 della legge 241), e più in avanti si può sostenere ugualmente che la p.a. agendo nel (con il) diritto privato può operare con discipline pubblicistiche, salvo che la legge non disponga diversamente (la norma del comma 1 bis può essere letta in più modi).

Ma ritorniamo al significato di questa nuova fase introdotta dall’articolo 10 bis, fase che (ad avviso sommesso) si configura come la creazione amministrativa (sostanziale) del legittimo affidamento creato nella controparte a seguito di un procedimento non ancora deciso, e allora se vi è stata partecipazione attiva del privato come poteva non ricomprendersi una fase interlocutoria (obbligatoria) che contemperasse l’affidamento rispetto ad un recesso ingiustificato nelle trattative con il rigetto dell’istanza senza un chiaro e qualificato (motivato) contraddittorio.

In questa obbligatorietà del contraddittorio, imposta dall’articolo 10 bis, si può giustificare il rispetto delle regole della buona fede, della correttezza, del legittimo affidamento che presuppongono un rapporto istaurato tra le parti, obbligando una parte (la p.a.) a interrompere le trattative (negare l’istanza) solo dopo una valida manifestazione (la comunicazione tempestiva agli istanti) con la quale si enunciano le intenzioni (i motivi ostativi) a non concludere positivamente il rapporto, e questa comunicazione per essere formalmente valida non può ingenerare incertezze o dubbi interpretativi (sull’istante) ma deve contenere concretamente le cause invalidanti dell’istanza, deve esprimere in modo inequivocabile le regioni normative che impediscono un esito positivo al (del) procedimento.

La buona fede ritorna nella sua piena valorizzazione motivazionale, la comunicazione del responsabile del procedimento o dell’autorità competente non può quindi essere vaga, indeterminata, apodittica ridotta ad una formula standardizzata, teoricamente valevole in tutti i casi ma che non rende comprensibile, in concreto e nel caso specifico, l’iter logico seguito dall’Amministrazione nella propria valutazione negativa [8], proprio perché la buona fede è posta a presidio dell’aspettativa alla positiva conclusione del procedimento (e non può presentarsi - la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza – reticente – silente, tacendo di informazioni rilevanti per il buon fine del provvedimento) ma prima ancora alla correttezza e alla lealtà delle trattative, che corrisponde alla regola generale di buona amministrazione (alias giusto procedimento).

Nella nemesi giuridica si potrebbe trattare di un criterio di valutazione obiettivo, che non può essere visto come un appesantimento del procedimento (una colpa per un giudizio ex ante negativo), ma che deve essere filtrato come una fase di valorizzazione del rapporto collaborativo, della partecipazione che assicura la decantata imparzialità e trasparenza riprendendo un orientamento comune che il codice civile associa alla diligenza dell’uomo medio (il c.d. buon padre di famiglia, ex art.1179 c.c.) per esprimere un dovere di usare un comportamento capace di soddisfare l’interesse del creditore, cioè il dovere del debitore di prestare con esattezza la propria obbligazione conducendo un adempimento esatto improntato a correttezza, secondo i principi che vincolano entrambe le parti del rapporto obbligatorio (“il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”, ex art. 1175 c.c, o “le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”, ex art.1337 c.c.).

Visto in questa prospettiva, si direbbe che sussiste in capo al soggetto pubblico un animus solvendi che rimarrebbe neutrale se non fosse sostenuto da una norma di natura sostanziale come quella dell’articolo 10 bis della legge del procedimento amministrativo, e questa volontà del solvens incontra gli istanti che possono sovvertire l’esito del procedimento imponendo (ora) un contraddittorio ulteriore, come nuovo momento essenziale dell’esercizio della potestà amministrativa (una nuova genesi) e come esercizio dell’interesse partecipativo del destinatario, in termini di an (se adottare o meno il provvedimento), quomodo (forma) e quando (momento di adozione) esprimibile in tutte le fasi del procedimento, con l’inevitabile corollario che l’agire amministrativo non può recedere dalle nuove regole sulla partecipazione, individuando i contenuti essenziali e minimi del rapporto in piena trasparenza (e con onere della motivazione), che deve corrispondere ad un leale e corretto esercizio del pubblico potere a tutela della posizione del privato (i c.d. criteri di ragionevolezza, proporzionalità, logicità ed adeguatezza) preclusivo al mero arbitrio (corrispondente ad un meccanico diniego senza preavviso).

Il corretto adempimento viene innovato con l’introduzione di questa una nuova fase procedimentale, che si inserisce all’interno del momento conclusivo e predecisionale del procedimento (sospendendolo in parte) che non potrà più avere esito negativo se prima non viene garantita la partecipazione degli istanti, partecipazione anticipante un’eventuale e potenziale fase contenziosa provocabile da un provvedimento negativo impugnabile dal privato per i potenziali motivi che con la fase dell’articolo 10 bis vengono già riassorbiti in sede amministrativa e non giurisdizionale di prime cure.

Per altro verso, si deve annotare che il preavviso di rigetto assorbe le tutele costituzionali individuate dall’articolo 24 della Costituzione, garantendo una fase di difesa “in ogni stato e grado del procedimento”, con una inevitabile parallelo all’articolo 415 bis del codice di procedura penale (Avviso all'indagato della conclusione delle indagini preliminari) dove il pubblico ministero “se non deve formulare richiesta di archiviazione… fa notificare alla persona sottoposta alle indagini e al difensore avviso della conclusione delle indagini preliminari. L'avviso contiene la sommaria enunciazione del fatto per il quale si procede, delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto, con l'avvertimento che la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata presso la segreteria del pubblico ministero e che l'indagato e il suo difensore hanno facoltà di prenderne visione ed estrarne copia. L'avviso contiene altresì l'avvertimento che l'indagato ha facoltà, entro il termine di venti giorni, di presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore, chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio. Se l'indagato chiede di essere sottoposto ad interrogatorio il pubblico ministero deve procedervi”, e come non si può vedere in queste attività di garanzia (se il parallelismo è lecito) se non l’espressione di una tutela rafforzata (e sostanziale) al fine di assicurare ogni onere di prova a favore della parte sottoposta ad indagine, ed inoltre il dispiegarsi di una partecipazione con la messa a disposizione di tutta la documentazione per formulare la propria linea di difesa in un leale contraddittorio con l’autorità pubblica (amministrativa)[9].

E come potrebbe esserci il contraddittorio tra le parti se la p.a. non formulasse una comunicazione fedele degli elementi ostativi all’accoglimento dell’istanza (rispondendo ad un effetto deflattivo, oltre a garantire la verifica dell’agire pubblico nel pieno confronto di tutti gli interessi coinvolti nel procedimento, allargando in progress il momento compositivo di tali interessi contrapposti, con l’effetto di ridurre l’alveo della discrezionalità amministrativa), ed inoltre non vi fosse il coinvolgimento di tutti gli interessati (i diretti destinatari e i controinteressati) che a vario titolo partecipano al procedimento (ex artt. 9 e 22, comma 1, lettera c), della legge 241, oltre all’inevitabile accostamento con l’articolo 21 nonies, comma 1).

La comunicazione - ex articolo 10 bis - va fatta ai diretti destinatari, ma anche ai controinteressati che potrebbero avere un pregiudizio diretto, concreto e attuale dal mancato accoglimento o dall’accoglimento dell’istanza (vedi, per es. il diritto di accesso ai dati sensibili) non vedendo ragione per ritenere che tale eventuale omissione sia conforme ai criteri di concentrazione, se per concentrazione si ritiene giustificabile la mancata partecipazione necessaria allora si priverebbe la stessa funzione dell’articolo 10 bis che è quella di valutare - con tutti gli interessati - i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (la norma in modo inequivocabile prescrive che la comunicazione va effettuata agli “istanti”, intendendo per “istanti” tutti i partecipanti al procedimento, desumibile tale interpretazione dalla lettura sistematica degli artt. 10 e 10 bis della legge 241/90).

La norma rafforza il procedimento a favore della parte privata, in linea con il nuovo assetto procedimentale tendenzialmente proiettato a un disvalore verso le istanze negative o gli inadempimenti della p.a. (vedi il silenzio – assenso, o nuovo silenzio significativo di accoglimento) per la volontà del legislatore di riassorbire ogni causa di inerzia amministrativa che possa fermare lo sviluppo, oltre a inibire la regola partecipativa, con la conseguenza (oltretutto) di scongiurare che si possa pervenire al rimedio processuale (con costi aggiuntivi) in presenza di elementi negativi che possono essere eliminati già in fase istruttoria e predecisionale, anticipando la tutela (ex post) della parte richiedente derivanti dall’illegittimo rigetto dell’istanza, in presenza di ulteriori profili esaustivi resi dalla parte all’amministrazione in questa nuova fase procedimentale, cementando ancor più il nuovo modello procedimentale proteso a favorire gli esiti positivi delle istanze per rilanciare la competitività (in ogni settore economico e amministrativo).

Il preavviso di rigetto autorizza, entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti a promuovere una riverifica del procedimento per meglio definire - in positivo - gli assetti degli interessi contrapposti, sospendendo il giudizio della p.a. che non potrà esprimersi se non dopo il decorso del termine definendo l’azione amministrativa illegittima se tale modalità procedimentale non viene svolta nel concreto del procedimento.

A supporto di ciò, la seconda sezione bis del T.A.R. Lazio – Roma, con la sentenza 18 maggio 2005 n. 3921, definisce illegittimo il diniego di rilascio di un permesso di costruire “nel caso in cui, prima di esprimere detto diniego, l’Amministrazione non abbia osservato quanto previsto dall’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005”, confermando il carattere precettivo e immediatamente applicativo della norma giacché, come rilevato dal Collegio giudicante, in tal caso infatti “deve ritenersi che alla parte interessata sia stata sostanzialmente preclusa la partecipazione al procedimento amministrativo conclusosi con l’impugnato diniego di assenso edilizio”, dovendo ritenere che tale fase predecisionale (ex post prima istruttoria) non possa essere sostituita con la fattispecie della informazione aliunde acquisita, per l’obbligo partecipativo che investe la p.a. prima di chiudere definitivamente l’istruttoria in presenza di elementi negativi (anche sopraggiunti alla normale fase partecipativa).

L’opzione interpretativa surriferita appare confermare la conclusione (oltre a ribadire che la legge 241 del 1990 novellata è una legge non “sul” procedimento ma “del” procedimento) che l’articolo 10 bis è applicabile a tutte le procedure amministrative ad istanza di parte (non è applicabile expressis verbis alle procedure concorsuali, ovvero non necessariamente ai solo concorsi pubblici ma anche alle procedure di gara, e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale, per ragioni di stretta funzionalità legate alla celerità degli esiti procedimentali), inducendo l’operatore pubblico a conformarsi alle nuove regole sostanziali della partecipazione che rispondono sempre più alle regole comuni dell’agire civile, dove la buona fede e la correttezza corrispondono al dovere di diligenza media e ai principi dell’affidamento ingenerato nella controparte del rapporto (paritario), segnando inesorabilmente il declino della potestas pubblica verso modelli procedimentali negoziati e concordati (con il privato), attribuendo nuovo significato al principio di legalità (ex art. 97 Cost.) che viene emarginato a favore del raggiungimento del risultato rispetto al rigido formalismo (ininfluente sul dato economico che è parametro di legalità formale, ex art. 1, comma 1 della legge 241): l’interesse pubblico può essere perseguito anche attraverso l’interesse privato (che tende a coincidere se sono garantite le regole della partecipazione), privato che si fa sempre più soggetto titolare di competenza pubblica, sostituendosi alla p.a. nell’adempimento della sua funzione istituzionale (D.I.A. e silenzio – assenso docet) [10].


 

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(*) Direttore Generale e Segretario Generale di fascia A del Comune di Vigonza.

[1] È in questo modo garantito il principio di legalità che deve sempre presiedere lo svolgersi dell’azione amministrativa richiedendo la costante presenza di una norma che conferisca in primis alla P.A. un determinato potere, e che ne disciplini poi, con sufficiente determinatezza, le modalità di esercizio, per cui, in sede di adozione di un determinato provvedimento, occorre che l’autorità amministrativa dia conto dell’esistenza e della corretta applicazione delle disposizioni da cui ha tratto la legittimazione ad adottare quel certo atto, vedi T.A.R. Puglia – Lecce, sez. II, 6 maggio 2005, n. 2697.

[2] Cfr. TARULLO, L’art.-10 bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in www.giustamm.it., 2005, che dovendo collocare tale fase del contraddittorio (eventuale) nell’ambito della classica tripartizione delle fasi procedimentali (di iniziativa, istruttoria, decisionale, integrativa dell’efficacia) la colloca “in virtù del principio inquisitorio, che implica l’obbligo di completezza dell’istruttoria (Giannini)” nella fase predicisionale che “trova così conferma l’idea che la fase decisoria in senso proprio debba necessariamente collocarsi in un momento successivo all’inoltro del preavviso, in quanto prima di decidere l’amministrazione deve sempre appurare la permanenza dei fattori ostativi prefigurati ponendo in essere un’attività ancora qualificabile come istruttoria”.

[3] La norma prescrive che la comunicazione “interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine” di dieci giorni, dovendo propendere per “una vera e propria ipotesi di “interruzione” del termine e non di mera “sospensione”, CHINELLO, Portata e limiti della partecipazione al procedimento amministrativo dopo la legge n. 15/2005, in www.LexItalia.it., 2005, n.5.

[4] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 febbraio 2003, n.1116; T.A.R. Trentino - A. Adige Trento, 11 giugno 2002, n.186.

[5] Relazione della I Commissione Permanente Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni, Relatore Bressa, 6 novembre 2003.

[6] Cfr. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, pag. 548.

[7] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 18 settembre 2003, n. 5309; sez. V, 4 aprile 2002, n. 1857; sez. IV, 23 gennaio 2002, n. 397; T.A.R. Veneto, sez. I, 5 ottobre 2001, n. 5983.

[8] Cfr. T.A.R. Veneto, sez.II, 20 maggio 2005, n. 2133.

[9] Cfr. LUCCA, Il preavviso di rigetto, in La Gazzetta degli enti locali, 1 giugno 2005, ove si segnala anche che “la ratio potrebbe apparire contraddittoria ove si limitasse alla comunicazione dei motivi ostativi in presenza di una parziale accoglibilità dell’istanza, viceversa sembra di comprendere che in presenza di elementi ostativi (indipendentemente dall’esisto dell’istruttoria) sia debba attivare il contraddittorio necessario segnalando (al richiedente) i motivi che impediscono l’accoglimento della domanda, garantendo sia una corretta partecipazione al procedimento che un onere di pubblicità e trasparenza del percorso decisionale (soprattutto se negativo)”.

[10] Un’altra lettura del principio di legalità - in senso sostanziale - è quella ispirata a criteri in base ai quali la decisione amministrativa venga a risultare non solo formalmente legittima, ma anche sostanzialmente adeguata ai parametri di ottimizzazione del risultato (economicità), che devono considerare tutti gli elementi che interessano il procedimento, compresi i costi per raggiungere quel risultato voluto: la partecipazione è funzionale all’interesse pubblico, e il rigore della forma non può minare la flessibilità delle metodologie procedimentali (vedi, il secondo comma dell’articolo 21 octies che si fonda sul principio della strumentalità delle forme, ex art. 156, comma 3, c.p.c.), dovendo ritenere l’atto amministrativo non conforme ai principi del procedimento se per il rispetto della forma (formalismo) non si cura la sostanza che è quella di non generare costi aggiuntivi o utilizzare procedure irrispettose della concentrazione che per garantire la (troppa) partecipazione non giungono ad una decisione (in tempi certi).


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