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SALVATORE GIACCHETTI
(Presidente di Sezione del Consiglio di Stato)
La risarcibilità degli interessi legittimi è "in coltivazione" (*)
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SOMMARIO: 1. - La svolta operata dalla sentenza delle Sezioni unite 22 luglio 1999 n. 500. - 2. - I motivi del ritardo della svolta. - 3. - L'asserita risarcibilità in linea teorica della lesione di interessi legittimi. - 4. - L'asserita risarcibilità in linea pratica della lesione di interessi legittimi. - 5. - L'asserita non necessità del previo accertamento dell'illegittimità da parte dei giudice amministrativo. - 6. - La risarcibilità da provvedimenti illegittimi e da comportamenti illegittimi. I nuovi «valori» frutto della mondializzazione. - 7. - La necessità di completare il rinnovamento in atto.
1. - La svolta operata dalla sentenza delle Sezioni unite 22 luglio 1999 n. 500.
Il 23 luglio scorso tutti i mass media hanno dato con grande risalto la lieta novella: con sentenza 22 luglio 1999 n. 500 le Sezioni unite della Cassazione, pronunciando in sede di regolamento preventivo di giurisdizione in una controversia risarcitoria insorta tra un comune ed un privato al quale il primo aveva illegittimamente impedito la realizzazione di una lottizzazione convenzionata, hanno finalmente riconosciuto la risarcibilità degli interessi legittimi. Finalmente - si è detto - è stato riconosciuto che il principio di civiltà giuridica «chi danneggia paga» vale anche per la Pubblica amministrazione; finalmente anche l'Italia è veramente uno stato di diritto.
La notizia è stata accolta con entusiasmo da tutti; anche da quelli, che poi erano i più, che non avevano idea di cosa fosse un interesse legittimo.
A distanza di qualche mese è possibile fare un'analisi più meditata di questa sentenza, molto ampia e complessa, i cui punti qualificanti sono le affermazioni:
a) che il sistema del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo è «caratterizzato dall'attribuzione ai due giudici di diverse tecniche di tutela (il giudice amministrativo, che conosce degli interessi legittimi, può soltanto annullare l'atto lesivo dell'interesse legittimo, ma non può pronunciare condanna al risarcimento in relazione alle eventuali conseguenze patrimoniali dannose dell'esercizio illegittimo della funzione pubblica, mentre il giudice ordinario, che pur dispone del potere di pronunciare sentenze di condanna al risarcimento dei danni, non può conoscere degli interessi legittimi)»;
b) che «sono maturi i tempi per una radicale revisione» della giurisprudenza negativa della risarcibilità, definita dalla dottrina «monolitica» o addirittura «pietrificata», superando così i confini di una «isola di immunità e di privilegio» che «mal si concilia con le più elementari esigenze di giustizia»;
c) che il principio della irrisarcibilità, pur affermato in linea generale, era già stato parzialmente svuotato di contenuto concreto, dal momento che le Sezioni unite avevano già compiuto una lunga marcia:
- ampliando l'area dell'art. 2043 Cod. civ. dalla lesione dei diritti assoluti alla lesione dei diritti relativi, delle aspettative legittime, delle chances, del cosiddetto diritto all'integrità del patrimonio (o alla libera determinazione negoziale), dei cosiddetti limiti esterni della discrezionalità e dei cosiddetti diritti affievoliti;
- tutelando ampie aree di interessi legittimi oppositivi «grazie ad operazioni di trasfigurazione di alcune figure di interesse legittimo in diritti soggettivi»;
d) che sino ad allora la tutela degli interessi legittimi pretensivi era stata però limitata a quelli lesi da fatto-reato;
e) che peraltro, sulla base sia del principio dell'atipicità dell'illecito e della prevalente concezione del «danno ingiusto» come «danno inferto in difetto di una causa di giustificazione» sia delle indicazioni più recenti dell'ordinamento (artt. 33 e 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998) e della Corte costituzionale (sentenza n. 135 del 1980; ordinanza n. 165 del 1998) sia della spinta dell'ordinamento comunitario (in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture), risulta «compiuta dal Legislatore una decisa scelta nel senso del superamento del tradizionale sistema del riparto della giurisdizione in riferimento alla dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo, a favore della previsione di un riparto affidato al criterio della materia», con conseguente attribuzione al giudice amministrativo - nell'area della sua giurisdizione esclusiva - di una giurisdizione piena, «comprensiva del potere di disporre il risarcimento del «danno ingiusto»», con conseguente «sensibile attenuazione della generale rilevanza tra le due figure del diritto soggettivo e dell'interesse legittimo (che pur permane nei settori non coperti dalla giurisdizione esclusiva)»;
f) che pertanto anche la lesione di interessi pretensivi, se afferente ad un bene della vita, può essere ritenuto risarcibile dal giudice ordinario, purché il fatto dannoso sia imputabile a dolo o colpa della Pubblica amministrazione, senza che sia invocabile il principio della colpa in re ipsa, applicabile soltanto alle ipotesi di attività penalmente illecita che leda un diritto soggettivo;
g) che l'eventuale colpa è «non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia) ma della P.A. intesa come apparato... che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione»;
h) che «la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 cod. civ., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo»;
i) che, ai fini del risarcimento, «non sembra ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio amministrativo di annullamento»;
l) che la contestazione circa la risarcibilità degli interessi legittimi non dà luogo a questione di giurisdizione ma attiene al merito;
m) che nella fattispecie concreta esaminata dalla sentenza, relativa a controversia sorta prima nel decreto legislativo n. 80 dei 1998, l'azione di risarcimento del danno bene era stata proposta dinanzi al giudice ordinario «quale giudice al quale spetta, in linea di principio (secondo il previgente ordinamento), la competenza giurisdizionale a conoscere di questioni di diritto soggettivo, Poiché tale natura esibisce il diritto al risarcimento del danno, che è diritto distinto dalla posizione giuridica soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto (che può avere, indifferentemente, natura di diritto soggettivo, di interesse legittimo, nelle sue varie configurazioni correlate alle diverse forme di protezione, o di interesse comunque rilevante per l'ordinamento».
Queste affermazioni inducono a formulare alcuni interrogativi.
Dal momento che l'Italia vanta un'indubbia civiltà giuridica, perché c'è voluto un secolo per ammettere una risarcibilità sino a quel momento esclusa in violazione «delle più elementari esigenze di giustizia»?
La sentenza n. 500 del 1999 riconosce davvero, in teoria, la risarcibilità degli interessi legittimi? e consente davvero, in pratica, l'asserita risarcibilità?
Ed infine la domanda evangelica: sei tu quello che doveva venire o dobbiamo aspettarne un altro?
2. - I motivi del ritardo della svolta.
Il perché del ritardo è abbastanza noto; ma non è inutile ricordarlo per determinate implicazioni alle quali accennerò dopo.
Sappiamo tutti che il problema è sorto a causa di una sorta di peccato originale che l'interesse legittimo per lungo tempo si è portato appresso: e cioè a causa della scelta ideologica posta alla base della nascita della giurisdizione amministrativa, quale risulta dalla legge del 1889, istitutiva della Quarta sezione del Consiglio di Stato, e dal concordato giurisprudenziale che - secondo la tradizione - sarebbe intervenuto nel 1929 tra Mariano D'Amelio e Santi Romano, vertici rispettivamente della magistratura ordinaria e di quella amministrativa; scelta ideologica in base alla quale il riparto tra le due giurisdizioni venne effettuato secondo il criterio della situazione soggettiva tutelata (interesse, poi qualificato legittimo, o diritto soggettivo) e non secondo il criterio della materia oggetto della controversia.
Ora questa nuova situazione soggettiva era largamente anomala; era - secondo la concezione dell'epoca - un interesse «indirettamente protetto» o «occasionalmente protetto» (e cioè, secondo l'arguta osservazione di Giuseppe Guarino, «protetto da norme che istituzionalmente non se ne occupano»); era azionabile in un breve termine di decadenza anziché nell'usuale lungo termine di prescrizione; era tutelabile di fronte ad un collegio - la Quarta sezione del Consiglio di Stato - di cui in origine era dubbia la natura giurisdizionale (donde la denominazione neutra di «decisioni» e non di «sentenze» attribuita alle determinazioni delle sezioni giurisdizionali del Consiglio e - incongruamente - tuttora vigente); era, insomma, un «diverso».
Fu quindi inevitabile il confronto della situazione soggettiva nuova, tutta da costruire, con la vecchia, sulla cui bi-millenaria esperienza si erano formate l'ideologia e la mentalità giuridica e che vantava una (almeno apparente) capacità di tutela molto più spiccata; e così l'ombra del diritto soggettivo, del grande fratello, si stese soffocante sul nuovo nato e lo compresse nell'angusto confine di diritto soggettivo «degradato» o «sottosviluppato».
In un contesto ideologico del genere la giurisprudenza, allora di esclusiva formazione civilistica, operò una sorta di denegazione di paternità; e non potendo gettare senz'altro il nuovo nato dalla rupe Tarpea ne decretò quanto meno l'irrisarcibilità nel caso di lesione. Ciò sulla base di una nota lettura prima della disposizione dell'art. 1151 del Codice civile del 1865 (che faceva generico riferimento al «danno») e poi del corrispondente art. 2043 del Codice civile attuale (che fa specifico riferimento al «danno ingiusto»), secondo cui l'ingiustizia del danno andava sdoppiata nel non iure (mancanza oggettiva di giustificazione) e nel contra jus (lesione di una situazione soggettiva protetta, qualità che - incomprensibilmente - non veniva riconosciuta al pur neoprotetto interesse legittimo che così risultava protetto a metà e cioè solo in sede di giurisdizione amministrativa e non anche in sede di giurisdizione civile).
Non veniva considerato che l'art. 30 del testo unico del Consiglio di Stato n. 1054 del 1924 continuava a riservare all'autorità giudiziaria ordinaria «le questioni attinenti a diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di legittimità dell'atto o provvedimento contro cui si ricorre»; e che in base alla citata lettura dell'art. 2043 questi diritti consequenziali (tra cui, appunto, il risarcimento dei danno) non avrebbero mai potuto sorgere.
Sembra incredibile: ma se il nuovo nato invece che interesse legittimo fosse stato denominato - ad esempio - diritto soggettivo pubblico (secondo la corrente denominazione tedesca) il problema della irrisarcibilità è probabile che non sarebbe mai nato.
La conseguenza paradossale era che si ammetteva la risarcibilità del danno di poche lire determinato dal morso di un cane e non si ammetteva la risarcibilità di un danno di milioni determinato dall'illegittimo diniego di aggiudicazione di una gara d'appalto pubblico; atteggiamento tenacemente mantenuto anche quando l'ordinamento aveva offerto su un piatto d'argento un ottimo motivo per assumere l'indirizzo opposto (è il caso, ricordato dalla sentenza, dell'art. 13 della legge n. 142 del 1992, che non limitava alla lesione di diritti soggettivi il risarcimento del danno in materia di appalti comunitari; norma però dichiarata dalla Cassazione eccezionale e quindi non estensibile al resto dell'ordinamento).
Che poi tutto questo desse luogo, in linea pratica, ad «un'isola di immunità e di privilegio» che «mal si concilia con le più elementari esigenze di giustizia», ad una sorta di licenza di uccidere, era evidentemente ritenuto di secondaria importanza di fronte all'esigenza di tutelare, in linea teorica, il ruolo preminente del diritto soggettivo.
Di questa singolare situazione veniva di solito data una giustificazione di politica finanziaria e giudiziaria: ammettere la risarcibilità degli interessi legittimi avrebbe potuto portare da una parte ad un notevole aggravio per l'erario e dall'altra ad un'esplosione del contenzioso; ma era una spiegazione che chiaramente non convinceva, perché in contrasto con il principio fondamentale «la legge è uguale per tutti».
E' stata quindi necessaria una ricostruzione del sistema vigente nei termini correttamente operati dalla sentenza n. 500 del 1999 per poter superare finalmente questa assurda impasse.
Ma ormai quello che è stato è stato; è storia. Ed è inutile indugiare sul passato. Il regno dell'operatore concreto è il presente e il futuro. E quindi può passarsi senz'altro all'esame degli interrogativi sull'effettiva risarcibilità, in teoria e in pratica, degli interessi legittimi.
3. - L'asserita risarcibilità in linea teorica della lesione di interessi legittimi.
Sulla base della sentenza in esame l'interrogativo sull'asserita risarcibilità, in linea teorica, della lesione di interessi legittimi dovrebbe trovare una risposta negativa, per considerazioni di ordine sia testuale che sistematico; con una precisazione preliminare.
3.1. - Precisazione preliminare. La sentenza 500 scorre lungo il binario logico di questo sillogismo: la naturale cognizione dei diritti spetta al giudice ordinario; ma il risarcimento del danno è un diritto in ogni caso; ergo la naturale cognizione del risarcimento del danno spetta, anche se la situazione lesa è di interesse legittimo, al giudice ordinario.
Ma una tale costruzione dà adito a perplessità.
3.1.1. - In primo luogo non mi sembra esatta la premessa maggiore, e cioè che la naturale cognizione dei diritti spetta al giudice ordinario. In realtà gli artt. 24, 103 e 113 dell'ancora vigente Costituzione affermano qualcosa di diverso e di più: e cioè che al giudice ordinario spetta non la cognizione ma la tutela dei diritti, così come al giudice amministrativo spetta non la cognizione ma la tutela degli interessi legittimi.
Il problema reale è quindi di stabilire se il risarcimento derivante dalla lesione di una situazione soggettiva attenga alla cognizione o alla tutela della situazione soggettiva stessa.
3.1.2. - Passando alla premessa minore, il risarcimento del danno è proprio un «diritto»? Dobbiamo considerare che per una sorta di povertà di linguaggio il termine «diritto» è come un grande contenitore in cui vengono commassate entità fortemente disomogenee: non solo situazioni soggettive sostanziali, che attengono in modo immediato e diretto a conseguire o a utilizzare un bene della vita (quali i tradizionali diritti soggettivi e gli altri interessi di varia natura e denominazione che, come riconosce la sentenza, la giurisprudenza ha «trasfigurato» in diritti) ma anche situazioni soggettive strumentali, che hanno solo la funzione accessoria e complementare dì tutelare, mediante mezzi inibitori o reintegratori (in forma specifica o per equivalente), un bene della vita già oggetto di una situazione sostanziale preesistente. Si pensi ai poteri - omogenei a quelli di ottenere il risarcimento del danno e anch'essi correntemente denominati «diritti» - di ottenere la rescissione o la risoluzione o l'annullamento di un contratto ovvero di impugnare un provvedimento lesivo. In altre parole, non è corretto dire che il patrimonio è costituito da diritti reali, diritti di credito e diritti al risarcimento del danno: questi ultimi, infatti, sulla sola base dell'art. 2043 (e cioè prima della pronuncia costitutiva del giudice, che li trasforma in normali diritti di credito), non costituiscono un cespite patrimoniale nuovo e aggiuntivo ma solo la trasformazione per equivalente di un cespite patrimoniale preesistente.
La distinzione non è irrilevante: perché, mentre la cognizione della posizione sostanziale di diritto soggettivo o di interesse legittimo va di regola attribuita - rispettivamente - al giudice dei diritti e al giudice degli interessi, la cognizione della posizione strumentale andrebbe di regola attribuita al giudice della tutela della posizione sostanziale al quale la situazione strumentale accede, infatti è solo alle situazioni soggettive primarie e sostanziali che pensa la Costituzione quando parla di tutela dei diritti e degli interessi. Non bisogna infatti confondere tra risarcimento del danno come strumento dì tutela e diritto al risarcimento del danno come diritto di credito.
3.1.3. - Di conseguenza, dal momento che quello al risarcimento del danno è sicuramente un «diritto» strumentale, ritengo che la soluzione più corretta sarebbe stata non quella di affermare tout court la giurisdizione ordinaria, in base alla considerazione - necessaria ma non sufficiente - che sì tratta dì un diritto; ma semmai quella di sollevare questione di legittimità costituzionale delle attuali norme attributive di giurisdizione amministrativa nella parte in cui non prevedono che la tutela risarcitoria per equivalente degli interessi legittimi spetti al giudice amministrativo, così come ad esso già spetta la reintegrazione in forma specifica con lo strumento del giudizio d'ottemperanza.
3.2. - Considerazioni di ordine testuale ostative al riconoscimento della risarcibilità. - La sentenza n. 500 spiega ampiamente perché in base all'attuale ordinamento si debba riconoscere la risarcibilità degli interessi legittimi; ma non spiega come - in termini di fisica giuridica - dalla fissione di un nucleo dì interesse legittimo possa originarsi un diritto (al risarcimento).
Ora, premesso che il diritto al risarcimento del danno è un diritto accessorio e strumentale (è cioè nient'altro che un mezzo di tutela reintegratoria per equivalente di una distinta posizione sostanziale alla quale accede), le spiegazioni possibili sono due:
che questo diritto strumentale acceda direttamente alla posizione sostanziale di interesse legittimo, e quindi esista, almeno allo stato quiescente, all'interno del nucleo dell'interesse stesso, e venga liberato dal provvedimento lesivo; e quindi abbia per oggetto diretto il risarcimento della lesione di tale interesse;
e quindi abbia per oggetto diretto il risarcimento della lesione di tale interesse;
- che questo diritto strumentale acceda direttamente ad una diversa posizione sostanziale (che in questo caso dovrebbe essere il cosiddetto diritto all'integrità del patrimonio, che altro non è che la formulazione in termini positivi del principio del neminem laedere), e quindi esista all'esterno del nucleo dell'interesse legittimo, con la conseguenza che la lesione dell'interesse non sia oggetto diretto di tutela ma semplicemente l'occasione, il motivo, per la tutela risarcitoria di quest'altra posizione sostanziale, tutela risarcitoria che soltanto in via indiretta e riflessa è riconducibile alla lesione dell'interesse.
La prima possibilità sembra estranea alla logica civilistica, che permea il pensiero della Cassazione e che è stata sempre ferma nel ritenere il diritto un maius rispetto all'interesse; il che farebbe escludere l'ipotesi teorica che dall'interesse possa nascere un diritto, e cioè l'ipotesi inversa a quella della sia pur mitica «degradazione». Sarebbe come ammettere che dalla rottura di un uovo di gallina possa nascere uno struzzo.
La sentenza sembra invece aver seguito la seconda possibilità. La scelta ideologica della sentenza è costante in tutta la lunga motivazione; ed in particolare risulta:
- dall'obiter dictum iniziale (punto 2) in cui si afferma: «Il ricorso ripropone la questione della risarcibilità degli interessi legittimi, o meglio il problema della responsabilità civile, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., della P.A, per il risarcimento dei danni derivanti ai soggetti privati dalla emanazione di atti o di provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi di situazioni di interesse legittimo», così distinguendo tra «danni derivanti dall'emanazione dell'atto» e «lesione dell'interesse legittimo» derivante dall'emanazione dell'atto stesso;
- dalla successiva affermazione (punto 5) che l'interesse legittimo «si correla ad un interesse mater termini di sacrificio o di insoddisfazione) può concretizzare danno»-,
- dall'affermazione conclusiva (punto 9) secondo cui ai fini della tutela risarcitoria «la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria ma non sufficiente, ... poiché occorre altresì che risulti leso... l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo».
Si resta così nell'alveo del precedente di cui a Cass. civ., Sez. I, 3 maggio 1996 n. 4083, che aveva stigmatizzato l'inadeguatezza dell'indirizzo giurisprudenziale che individuava il danno ingiusto risarcibile in relazione alla situazione soggettiva lesa e non già m ragione degli effetti sfavorevoli «che comunque si realizzino nel patrimonio del soggetto leso in conseguenza di un comportamento non iure... cioè di un atto in contrasto con una norma giuridica anche di azione, oltreché di relazione».
Il risultato è che viene elaborato un complesso meccanismo in base al quale la lesione di un interesse rientrante nella giurisdizione amministrativa viene preso in considerazione non in quanto tale ma in quanto mero fatto che innesca una sorta dì reazione a catena in virtù della quale sorge un diritto rientrante nella giurisdizione ordinaria, nella quale - in pratica - viene così attratto ed assorbito il preesistente interesse. In altre parole - in sostanza - non si ipotizza la sequenza interesse legittimo-provvedimento lesivo dell'interesse legittimo-risarcimento del danno all'interesse legittimo ma la distinta sequenza diritto all'integrità dei patrimonio-interesse legittimo-provvedimento lesivo in via diretta dell'interesse legittimo e in via indiretta del diritto all'integrità del patrimonio-risarcimento del danno all'integrità del patrimonio, integrità che viene a costituire così il «bene della vita» oggetto immediato ed esclusivo della tutela risarcitoria.
3.3. - Considerazioni di ordine - sistematico ostative alla risarcibilità. - 3.3.1. - Emerge dalla sentenza una - quanto mai oscura - proliferazione di interessi protetti (all'interesse legittimo originario si aggiunge un distinto interesse al «bene della vita», al quale altra faccia non si riesce a dare che quella del diritto all'integrità del patrimonio, che peraltro la stessa sentenza in precedenza aveva qualificato «cosiddetto» o «preteso», senza che si comprenda bene perché mai l'interesse legittimo, in quanto figura soggettiva sostanziale ed autonomamente protetta, non possa essere in proprio un interesse ad un bene della vita, senza necessità di fare riferimento ad un fantomatico simbionte o Doppelänger o deus ex machina che dir si voglia, che sarebbe l'unico possibile oggetto di tutela risarcitoria; e tutto questo mentre la stessa sentenza riconosce: «Anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo l'interesse effettivo che l'ordinamento intende proteggere è pur sempre l'interesse ad un bene della vita: ciò che caratterizza l'interesse legittimo e lo distingue dal diritto soggettivo è soltanto il modo o la misura con cui l'interesse sostanziale ottiene protezione». E' quindi abbastanza evidente che, in una visione di questo genere, l'oggetto reale del risarcimento non è la lesione dell'interesse legittimo ma la lesione del diritto all'integrità del patrimonio; e che l'affermazione contenuta nella sentenza secondo cui anche l'interesse legittimo potrebbe avere ad oggetto un «bene della vita» resta priva di contenuto concreto.
Effetto secondario di questa prospettazione è l'implicita affermazione del principio che la giurisdizione sul risarcimento del danno spetta sempre al giudice ordinario, anche se la situazione lesa rientra nella giurisdizione di un altro giudice. Il giudice ordinario si riconosce così una sorta di giurisdizione esclusiva in materia di risarcimento del danno, in virtù della quale diventa una sorta di supergiudice, legittimato a valutare autonomamente - sia pure ai soli fini risarcitori - lesioni il cui accertamento spetta in via esclusiva ad altri ordini giurisdizionali.
3.3.2. - La citata affermazione secondo cui ai fini del risarcimento occorre che sia altresì leso «l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo», non è di univoca e agevole lettura.
Il sistema civilistico, che è quello in cui si muove la sentenza n. 500 del 1999, è fondato sui diritti; e su questo piano «beni della vita» sono sostanzialmente i beni dell'art. 810 Cod. civ., e cioè i beni che possono formare oggetto di diritti (sia pure nell'attuale concezione allargata comprensiva di possesso, potestà, status, aspettative, chances, etc.) e che hanno un contenuto patrimoniale. In questo scenario generale il risarcimento del danno è appunto un sistema di reintegrazione per equivalente della lesione subita da un bene sotto l'aspetto patrimoniale.
Il sistema amministrativistico, invece, è fondato sugli interessi legittimi, ritenendo per tali quelli rispondenti alla nota definizione di Mario Nigro, riportata al punto 5 della sentenza, e che in altra sede (v. L'interesse legittimo alle soglie del 2000, in Foro amm., 1990, 1907 ed in www.lexitalia.it ) ho proposto di esprimere più semplicemente con la formula «poteri di pretendere un'utilità derivante dal legittimo esercizio di una potestà»; e questa «utilità» è un concetto più ampio del «bene della vita» civilistico e non sempre può essere fatta rientrare in esso perché non può essere oggetto di reintegrazione patrimoniale (senza ricorrere al caso estremo dei cosiddetti «interessi illegittimi» si pensi - ad esempio - al pubblico dipendente che si dolga, per motivi soggettivi di prestigio, di essere stato assegnato alla sede A anziché alla sede - di pari livello - B).
Questo però non vuoi dire che la risarcibilità postuli una doppia lesione: quella della «utilità» in senso amministrativistico e quella del «bene della vita» in senso civilistico. Vuoi dire semplicemente che come non tutti i diritti hanno un contenuto patrimoniale così non tutti gli interessi legittimi hanno un contenuto patrimoniale. Ma, quando questo contenuto patrimoniale c'è, è direttamente la lesione del diritto soggettivo - o, rispettivamente, dell'interesse legittimo - a dover essere risarcita, non la lesione di una (inesistente) ulteriore situazione soggettiva di interesse al bene della vita correlato a tale contenuto patrimoniale.
3.3.3. - Infine l'indicato meccanismo risulta scoordinato rispetto a quello attribuito al giudice amministrativo nelle nuove aree di giurisdizione esclusiva di cui al decreto legislativo n. 80 dei 1998, in cui già adesso rientra la maggior parte dell'area della giurisdizione amministrativa e che sono destinate ad ampliarsi ulteriormente dall'attuale disegno di legge di riforma del processo amministrativo (v. art. 5, comma 1, dell'atto Senato n. 2934, che attribuisce al giudice amministrativo la cognizione dell'eventuale risarcimento del danno e degli altri diritti patrimoniali consequenziali «nelle materie deferite alla sua giurisdizione», in generale, e quindi non solo nelle specifiche materie oggi rientranti nella sua giurisdizione esclusiva), aree in cui invece è la lesione dell'interesse legittimo che costituisca «bene della vita» ad essere l'oggetto immediato e diretto della tutela risarcitoria.
Sicché è poco comprensibile perché debba sussistere, sia pure ad esaurimento, una parziale giurisdizione esclusiva del giudice ordinario in materia; e per di più una parziale giurisdizione esclusiva affermata in articulo mortis, perché ormai il sistema - come riconosce la sentenza - è nel senso di attribuire al giudice amministrativo la cognizione del risarcimento in questione, tenuto anche conto che la questione di risarcibilità attiene al merito e non alla giurisdizione, e quindi spetta comunque al giudice amministrativo (evidentemente le Sezioni unite hanno voluto stabilire che spetta ad esse stabilire la tutelabilità in astratto - e quindi la risarcibilità in astratto - della situazione sostanziale e al giudice di merito la risarcibilità in concreto; ma la linea di confine sembra molto esigua).
Oltre tutto dall'impostazione della sentenza discenderebbe che, poiché la determinazione delle situazioni soggettive risarcibili spetta alle Sezioni unite, e poiché - come si è visto - le Sezioni unite ammettono di fatto solo il risarcimento della lesione al diritto all'integrità del patrimonio, anche il giudice amministrativo quando pronuncerà in materia di risarcimento del danno dovrebbe pronunziare sulla lesione del diritto all'integrità dei patrimonio e non sulla lesione di interessi legittimi; il che, mi sembra, porterebbe ad estendere la giurisdizione amministrativa al di là degli stessi limiti posti dal Legislatore, potendosi ad esempio ipotizzare la giurisdizione amministrativa anche nel caso - di recente deciso dalle Sezioni unite - di comportamenti persecutori degli Uffici delle imposte.
In ogni caso - va ribadito - nel quadro sistematico delineato dalla sentenza n. 500 del 1999 beneficiari reali dell'ampliamento dell'art. 2043 non sono gli interessi legittimi. Beneficiario reale, diretto ed esclusivo è soltanto il cosiddetto diritto all'integrità del patrimonio, anche se la migliore dottrina ritiene che questo preteso diritto sia un semplice escamotage verbale, o meglio una scatola vuota, un semplice contenitore privo di un autonomo e specifico contenuto. Si resta nell'ambito della «trasfigurazione degli interessi in diritti» di cui parla la sentenza. Il risultato apparentemente paradossale di tutto ciò è la contemporanea affermazione del principio teorico della risarcibilità degli interessi legittimi e dei principio concreto che gli interessi legittimi non sono risarcibili mai.
4. - L'asserita risarcibilità in linea pratica della lesione di interessi legittimi.
Ma anche la domanda sulla possibilità concreta di risarcire la lesione di interessi legittimi (sia pure con il suindicato meccanismo indiretto di tutela del diritto all'integrità del patrimonio) deve avere una risposta negativa.
Come sopra indicato la sentenza, muovendosi lungo il binario dell'art. 2043, subordina la risarcibilità all'esistenza di una volontà colposa o dolosa; e non del funzionario agente ma dell'Amministrazione intesa come «apparato».
Ora messo in questi termini il risarcimento rischia di non esserci mai.
In primo luogo, come da tempo avvertito dalla dottrina amministrativistica ed in particolare da M.S. Giannini, la volontà di una Pubblica amministrazione è solo quella procedimentale; la volontà in senso civilistico è «inafferrabile», in quanto ripartita tra vari livelli di programmazione, direzione, esecuzione, controllo, etc. Non a caso la giurisprudenza amministrativa ha sin dall'inizio abbandonato il criterio civilistico soggettivo legato alla volontà per adottare il criterio dell'eccesso di potere, con cui ha riformulato in chiave oggettiva il contenuto dei tradizionali vizi della volontà in senso civilistico. In un contesto del genere come si fa a stabilire la colpa dell'apparato? Si fa una media semplice delle volontà espresse da tutti i funzionari intervenuti nel procedimento? Si fa una media ponderata?
In secondo luogo nella realtà concreta quasi mai l'illegittimità è frutto di dolo o di colpa per imprudenza o imperizia in senso civilistico. La quasi totalità delle lesioni di interessi legittimi è frutto di un ordinamento caotico, alluvionale e in stato di rivoluzione permanente, che non consente agli operatori di sapere con certezza quale sia il diritto prima che si sia formato un orientamento interpretativo sufficientemente consolidato. In una situazione del genere come si fa a parlare di colpa? Ci si rende conto che si pretende dal danneggiato una probatio diabolica e dal giudice una demonstratio altrettanto diabolica? E se si pretende una colpa effettiva cosa resta di risarcibile?
Questo dovrebbe portare a due conseguenze.
Va preliminarmente tenuto presente:
- che ai sensi della norma derogatoria di cui all'art. 3 comma 1 lett. a) del D.L. 23 ottobre 1996 n. 543, come convertito dalla L. 20 dicembre 1996 n. 639 (norma ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con sentenza 20 novembre 1998 n. 371), gli amministratori e dipendenti pubblici rispondono soltanto per colpa grave;
- che, in mancanza di un'analoga norma derogatoria, la Pubblica amministrazione in quanto «apparato» dovrebbe invece continuare a rispondere solo per colpa lieve;
- che il confine tra colpa grave e colpa lieve è opinabile, essendo frutto di un apprezzamento soggettivo;
- che, data l'immedesimazione organica tra apparato e i soggetti che ad esso imputano la loro attività, nel caso che il comportamento di questi ultimi abbia dato luogo ad un evento lesivo appare estremamente problematico riuscire a separare e a differenziare, nel caso concreto, la responsabilità (per colpa lieve) del primo dalla responsabilità (per colpa grave) dei secondi.
Conseguenza pratica di ciò sarà che il giudice ordinario, chiamato a pronunciarsi sul risarcimento, si troverà schiacciato tra la teoria della sentenza n. 500, che afferma l'avvento del risarcimento previo accertamento della colpa o del dolo (da effettuare con una «più penetrante indagine», sottolinea la sentenza), e la pratica della realtà operativa della Pubblica amministrazione, in cui la colpa in senso soggettivo - come ho detto - è inafferrabile. E allora, per non mancare alla funzione di giustizia a lui affidata e all'attesa sociale che avverte riposta in lui, sarà indotto ad affermare l'esistenza della colpa grave o addirittura del dolo anche in casi in cui altrimenti non l'avrebbe fatto.
Questo evidentemente porterebbe ad una maggiore esposizione dei funzionari sul versante della responsabilità civile, amministrativa, disciplinare o addirittura penale; il rischio di paralisi della Pubblica amministrazione diventerebbe quindi molto forte; rischio che non sussisterebbe se il risarcimento del danno prescindesse dall'elemento psicologico, come già ne prescinde l'eccesso di potere, e quindi l'eventuale giudizio sulla responsabilità del singolo potesse risultare logicamente autonomo rispetto al giudizio sul risarcimento.
In secondo luogo non dimentichiamo che nelle materie previste dal decreto legislativo n. 80 del 1998 è il giudice amministrativo a pronunciare sul risarcimento del danno; e questo giudice, in base alla sua diversa formazione, non dovrebbe subordinare il risarcimento all'esistenza della colpa o del dolo; e ciò perché «la violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buon andamento», che la sentenza richiede per il risarcimento, è stata da sempre compresa dal giudice amministrativo nell'area dell'eccesso di potere, che - com'è noto - prescinde completamente da qualsiasi profilo di ordine psicologico.
Ma a questo punto sorgerebbe, con ogni probabilità, una disparità normativa di trattamento tra danneggiati, i quali sarebbero tenuti all'onere della prova dinanzi al giudice ordinario e non dinanzi al giudice amministrativo; e il Legislatore o la Corte costituzionale, se investiti della questione, la risolverebbero con ogni probabilità nel senso della non necessità dell'elemento psicologico in quanto più coerente con l'effettività della pretesa risarcitoria.
C'è allora da domandarsi se non sia il caso che le Sezioni unite valutino l'opportunità di anticipare quella che appare una soluzione obbligata, e quindi di completare la loro coraggiosa svolta nel senso di renderla uno strumento effettivo di giustizia. A tal fine potrebbero essere utilmente tenuti presenti sia gli attuali orientamenti nazionali che, in un'ottica solidaristica discendente dall'art. 2 della Costituzione, tendono a ricostruire in termini oggettivi di imputabilità civile la nozione soggettiva di responsabilità civile, sia le esperienze di ordinamenti simili al nostro, come quello francese, in cui da oltre un secolo (in base ad un orientamento iniziato nel 1873 con l'arrêt Blanco) è ammessa la responsabilità obbiettiva dell'Amministrazione che viene realisticamente fondata su principi diversi da quelli della responsabilità aquiliana del Codice civile, sul presupposto che essa risponda non tanto a fini di giustizia commutativa (come invece il risarcimento del danno in senso strettamente civilistico) quanto a fini di giustizia distributiva (come il cosiddetto danno per fatti legittimi, costruito in Italia sulla base dell'art. 46 della legge sulle espropriazioni n. 2359 del 1865).
Una possibile via di conciliare il rispetto della normativa civilistica con la giustizia distributiva potrebbe essere quella di riconoscere che alla Pubblica amministrazione si applica non la norma generale dell'art. 2043 ma la norma speciale dell'art. 2049, relativa alla responsabilità dei padroni e committenti. E forse non sarebbe un'eresia estendere all'illecito amministrativo fonte di responsabilità civile il principio della culpa in re ipsa sancito dall'art. 185, comma 2, per il danno da reato, tenendo presente che sia l'illecito contrattuale sia l'illecito aquiliano sia l'illecito penale hanno tutti in comune il tratto di essere causa di danno non iure e contra jus.
E non sarebbe un'eresia neppure cominciare a tener presente che, nella nuova prospettiva di una Pubblica amministrazione privatizzata e fondata sulla concertazione e sul consenso, la «violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione» tende a trasformarsi da violazione di un dovere generico a contenuto negativo (correlato cioè al divieto del neminem laedere) in violazione di un obbligo specifico a contenuto positivo assunto nei confronti degli amministratori (= controparti); sicché la violazione di quest'obbligo tende ad uscire dall'arca dell'illecito aquiliano per entrare in quella dell'inadempimento di cui all'art. 1218 Cod. civ., con tutto ciò che ne consegue sul piano della prova e dell'estensione del danno risarcibile.
5. - L'asserita non necessità del previo accertamento dell'illegittimità da parte del giudice amministrativo.
Ma la parte più discutibile della sentenza è quella secondo cui ai fini del risarcimento da parte del giudice ordinario «non sembra ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento da parte del giudice amministrativo...qualora...l'illegittimità dell'azione amministrativa non sia stata previamente accertata e dichiarata» da parte del giudice stesso; ciò in quanto «il giudice ordinario ben potrà svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 cod. civ.». Viene così configurata un'evenienza analoga ad urla ulteriore forma di disapplicazione.
Ma questa evenienza fa sorgere evidenti difficoltà sistematiche.
5. 1. - Preliminarmente va osservato che sul piano generale la disapplicazione - come è emerso in un convegno tenutosi lo scorso anno presso il Consiglio di Stato - costituisce un'extrema ratio, un tentativo disperato di assicurare l'unicità dell'ordinamento; perché, non operando sulla validità formale del provvedimento disapplicato né essendo assistita da alcun mezzo di conoscenza o di conoscibilità legale, lascia in circolazione atti amministrativi di cui a quel punto non solo non si sa più ma neppure può sapersi più se siano legittimi o no, con conseguente disorientamento degli operatori. L'unicità dell'ordinamento viene cioè ottenuta a spese dell'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che peraltro costituisce un valore costituzionalmente protetto (Corte cost., sentenza 27 ottobre - 4 novembre 1999 n. 416). E non sembra che la situazione richieda necessariamente un mezzo estremo del genere.
5.2. - Il giudizio sull'illegittimità, e quindi nell'ingiustizia del danno, non investe però una questione pregiudiziale che il giudice possa decidere incidenter tantum e senza valore di giudicato; costituisce invece un elemento essenziale del thema decidendum («uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 Cod. civ.», riconosce la sentenza), perché il giudice - salvo casi del tutto eccezionali - non può disporre il risarcimento di un danno la cui ingiustizia egli stesso (od altro giudice eventualmente competente) non abbia previamente accertato. Sull'ingiustizia del danno si forma quindi il giudicato. Ora come può il giudice ordinario accertare con valore di giudicato una questione di legittimità amministrativa che pacificamente esula dalla sua giurisdizione e rientra in quella del giudice amministrativo?
5.3. - Per quanto riguarda in particolare la Pubblica amministrazione, cosa dovrebbe fare in caso di condanna al risarcimento del danno previa disapplicazione? Annullare d'ufficio il provvedimento? Sembrerebbe di no, perché il principio dell'art. 4 della legge del 1865 abolitiva del contenzioso, che obbliga le autorità amministrative a conformarsi al giudicato dei tribunali, la evidente riferimento solo agli accertamenti che costituiscono l'oggetto diretto del giudicato e non anche agli accertamenti effettuati incidenter tantum (come secondo la logica del riparto di giurisdizione, dovrebbe ritenersi quello sull'illegittimità del provvedimento; v. però il successivo punto c). Resterebbero così in vita provvedimenti dichiarati illegittimi sotto il profilo del risarcimento del danno e validi per tutto il resto.
Una situazione del genere sarebbe pienamente logica se si raccogliesse il suggerimento, da tempo avanzato dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, di un risarcimento alternativo all'annullamento. L'interessato in tal modo avrebbe la possibilità di ottenere o il risarcimento o l'annullamento; ed allora il risarcimento non avrebbe ulteriori incidenze sulla successiva vita amministrativa del provvedimento.
Ma in un sistema che come l'attuale non esclude la tutela cumulativa, risarcitoria e cassatoria, il rischio di contrasto di giudicati e di disorientamento degli operatori diventa troppo forte.
5.4. - Va considerato che la risarcibilità in questione interessa soprattutto gli interessi pretensivi (come rilevato nella sentenza), e cioè gli interessi a conseguire un bene della vita, e che gli aspiranti possono essere in numero maggiore dei beni disponibili presso la Pubblica amministrazione. Potrebbe allora accadere che nel caso di un bene assegnato ad A e preteso da B l'Amministrazione debba pagare due volte: una volta a titolo di risarcimento a B (se il giudice ordinario ritenga illegittima l'assegnazione ad A) ed una volta pleno iure ad A (se il giudice amministrativo ritenga invece il contrario).
5.5. - I controinteressati all'(eventuale) giudizio di annullamento dovrebbero essere considerati parti necessarie nel giudizio di risarcimento, in quanto la sentenza potrebbe avere anche per essi effetti lesivi diretti o indiretti. Questo però creerebbe ulteriori complicazioni, anche per le necessità di coordinare i tempi e i termini dei due processi.
5.6. - In ogni caso, perché limitare - come afferma la sentenza - l'accertamento da parte del giudice ordinario ai soli casi in cui il giudice amministrativo non si sia già pronunziato? Perché delle due l'una: o il giudice ordinario ha un potere autonomo di accertare l'illegittimità amministrativa, sia pure ai soli fini risarcitori, ed allora questo potere deve essere indifferente a qualsiasi altra valutazione di altri giudici; o questo potere autonomo non ce l'ha, e allora in nessun caso può pronunciare sul risarcimento di interessi, perché in nessun caso può accertarne l'eventuale lesione.
Con ogni probabilità le Sezioni unite hanno adottato il suddetto orientamento per due considerazioni: che stabilire un risarcimento subordinato alla pronunzia di due diversi ordini giurisdizionali, e cioè subordinato all'eventualità di due gradi di giudizio amministrativo e di tre gradi di giudizio civile (ovviamente, salvo complicazioni), comporterebbe la sicura denuncia dell'Italia al Tribunale dei diritti dell'uomo per diniego fraudolento di giustizia, perché - specie con gli attuali tempi della giustizia - nessuna persona sensata si imbarcherebbe in un'impresa del genere; e che il citato art. 13 della legge comunitaria del 1992, che prevedeva un meccanismo di questo tipo, è stato abrogato dal decreto legislativo n. 80 del 1998.
Ma a queste eventuali considerazioni potrebbe rispondersi che l'assurda previsione di una doppia corsia giurisdizionale da dover percorrere in tempi successivi andrebbe eliminata non già escludendo il giudice amministrativo, giudice naturale della tutela (v. prec. n. 3.1.3.), ma il giudice ordinario, secondo la generale previsione del decreto legislativo n. 80 del 1998; e che in ogni caso l'ipotizzato meccanismo di disapplicazione non elimina la doppia corsia giurisdizionale, perché la ricorribilità al giudice amministrativo resta sempre aperta: si limita a rinviarla nel tempo, con l'aggravante che è suscettibile di creare un inestricabile conflitto di giudicati.
6. - La risarcibilità da provvedimenti illegittimi e da comportamenti illegittimi. I nuovi «valori» frutto della mondializzazione.
C'è piuttosto una precisazione che sembra di dover fare.
Il nostro sistema amministrativo positivo tende sempre più a trasformarsi sotto la spinta di due forze il cui trend non sembra alla stato modificabile: quella esterna dei diritto comunitario e quella interna frutto dei mutamento dell'equilibrio autorità-libertà.
L'ordinamento comunitario, che costituisce ormai la stella polare e il metro di valutazione degli ordinamenti nazionali, ha un carattere largamente pragmatico e informale; e in particolare non si pone il problema di distinguere tra diritti soggettivi e interessi legittimi ma prevede un'unica situazione soggettiva indifferenziata, che si potrebbe definire «diritto soggettivo comunitario», tuttora essenzialmente finalizzata alla tutela commerciale degli operatori e cioè alla tutela del mercato come valore in sé. La tutela sociale e giuridico-politica, prevista da Maastricht, è tuttora marginale.
Dal canto suo l'ordinamento amministrativo interno per il crescente Pelo delle formazioni sociali intermedie tende a perdere sempre più il suo originario carattere autoritativo per assumere un nuovo carattere paritario, come da tempo rilevato da Feliciano Benvenuti; e quindi tende sempre più a costituire un sistema fondato su privatizzazioni, accordi, concertazioni, consensi etc. Come è stato rilevato dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza 15 set 1999 n. 14, l'innesto nel procedimento amministrativo della cultura della dialettica processuale ad opera della legge n. 241 del 1990, ed il conseguente sistema di partecipazione alla decisione e dell'accessibilità ai documenti amministrativi, hanno completamente modificato la tradizionale fisionomia autoritativa della funzione amministrativa.
Queste circostanze stanno determinando un vasto riflusso del diritto amministrativo su posizioni di diritto comune a pubblici e privati operatori, e cioè su posizioni oggettivamente civilistiche, la cui manifestazione più evidente sinora è costituita dal decreto legislativo n. 80 del 1998. PE ormai ius receptum che la funzione pubblica possa essere esercitata con strumenti di diritto privato (il che costituisce una novità perla nostra mentalità; ma nei paesi anglosassoni è stato fatto da sempre, senza nessuna meraviglia), e che quindi il giudice amministrativo, giudice naturale della funzione pubblica, possa tranquillamente conoscere anche di rapporti di natura privata o addirittura tra privati (quali sono di regola, ad esempio, i gestori di pubblici servizi).
Tutto ciò comporta che il momento formale del provvedimento amministrativo tende sempre più a perdere valore di fronte al momento sostanziale del commento (v. art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, che per la prima volta attribuisce al giudice amministrativo la cognizione di controversie «aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i Comportamenti») in concreto tenuto da un'Amministrazione che soggettivamente continua a rimanere pubblica (nel senso che continua ad operare nell'interesse non proprio ma della collettività) ma che oggettivamente può ormai essere tiri normale operatore come tutti gli altri; comportamento che quindi può costituire anch'esso una fonte di lesione degli (attuali) interessi legittimi (si pensi, ad esempio, ad un silenzio).
Di conseguenza il problema della risarcibilità degli interessi legittimi va posto non solo con riferimento alla loro lesione ad opera di atti formali ma anche con riferimento alla loro lesione ad opera di semplici comportamenti dell'Amministrazione pubblica.
L'accenno ai comportamenti consente di formulare anche una considerazione di carattere più generale.
L'attuale mondializzazione dei rapporti sta avendo due principali effetti.
Sul piano economico, che è quello più visibile, ha innescato una competizione di tipo darwiniano, in cui il soggetto submarginale (stato o impresa che sia) è destinato fatalmente a soccombere o ad essere colonizzato. ú quindi quanto mai necessario curare la competitività dell'azienda Italia (come purtroppo non pare stia avvenendo in questo periodo), e quindi curare l'economicità e l'efficienza.
Sul piano giuridico, che è quello meno visibile ma più incisivo sulla struttura stessa della società, sta facendo evolvere gli ordinamenti generali verso un diverso approccio alla dialettica libertà-autorità; nel senso che al tradizionale approccio microgiuridico, fondato sulle situazioni dei singoli (diritti soggettivi, interessi legittimi, etc.), si va sostituendo un nuovo approccio macrogiuridico, fondato su determinate situazioni della collettività generalmente denominate «valori» e relative - di regola - a beni non patrimoniali d'interesse generale, quali l'ambiente, la dignità dell'uomo, il mercato, e simili. Il che a ben vedere, corrisponde ad un nuovo equilibrio dei rapporti di forza tra individuo e collettività: mentre nell'ottica tradizionale la posizione debole è quella dell'individuo, che quindi necessita di situazioni soggettive tutelate per realizzare o conservare le sue aspirazioni a beni della vita, nella nuova ottica mondializzata la posizione debole è quella degli ordinamenti giuridici (interno, comunitario, internazionale), che stentano ormai a far fronte alla colonizzazione economica (e, in seconda battuta, politica) da parte delle multinazionali o alla colonizzazione militare da parte di capi di stato in preda a delirio di grandezza.
In un recente convegno sull'ambiente svoltosi a Genova il 16 e 17 ottobre scorso è stato tra l'altro rilevato, dal senatore Pellegrino e dal professor Corso, che questi «valori» non sono suscettibili di essere ordinati gerarchicamente; sicché le loro eventuali antiteticità vanno composte non secondo criteri astratti e rigidi di prevalenza etico-politica ma secondo il criterio concreto, flessibile e antropocentrico della tutela per ciascuno di essi sostenibile, e cioè secondo il principio del minimo sacrificio globale per la collettività.
Ora poiché sia la giustizia sia l'efficienza e l'economicità della Pubblica amministrazione rientrano tra questi valori, da comporre secondo il criterio del minimo sacrificio globale, va tenuto conto che l'accoglimento di un ricorso dinanzi al giudice amministrativo può causare un utile 100 al vincitore ed un danno 1000 per la collettività (si pensi ad un soggetto che dopo aver ottenuto, a distanza di anni, l'annullamento di un concorso al quale avevano partecipato migliaia di concorrenti rinunci poi al posto così ottenuto, per avere trovato una sistemazione migliore), e può quindi determinare una complessiva caduta di competitività dell'azienda Italia. Quindi occorrerebbe forse cominciare a dimenticare storie edificanti quale quella di Traiano che ferma l'esercito in marcia per rendere giustizia ad una povera vedova e prevedere pragmaticamente un risarcimento alternativo all'annullamento, in funzione dei criterio del sacrificio minimo per la collettività. Questa sarebbe oltre tutto l'unica via per eliminare in partenza la possibilità che sullo stesso provvedimento si formino irresolubili conflitti tra giudicati civili di risarcimento (nel presupposto dell'illegittimità del provvedimento) e giudicati amministrativi di reiezione (nel presupposto della legittimità dei provvedimento stesso); possibilità che potrebbe avere effetti devastanti sulla coerenza e sulla credibilità dell'ordinamento.
7. - La necessità di completare il rinnovamento in atto.
Malgrado tutte le perplessità sopra indicate credo che la sentenza n. 500 del 1999 meriti di essere valutata positivamente.
In primo luogo perché le Sezioni unite hanno con essa riaffermato il loro impegno giuridico e civile, rinnegando coraggiosamente una giurisprudenza «pietrificata» ma ormai anacronistica al fine di assicurare a tutti una tutela giurisdizionale piena e non dimidiata.
In secondo luogo perché ormai non sarà più possibile, chiunque sia il giudice che debba provvedere al risarcimento, interpretare in senso restrittivo la locuzione «danno ingiusto» contenuta nell'art. 35 del D.L.vo n. 80 del 1998, come ancora parte della dottrina ritiene.
Ma l'effettivo riconoscimento in teoria della risarcibilità degli interessi legittimi e l'effettiva risarcibilità in pratica di tali interessi devono ritenersi, per usare un termine di moda in questi giorni, ancora «in coltivazione». Ancora non sembrano in grado di poter dare frutti. L'importanza maggiore della sentenza è quella prospettiva non quella del suo risultato immediato. L'attesa continua.
E' quindi augurabile che le Sezioni unite vogliano anticipare eventuali ulteriori interventi del Legislatore o della Corte costituzionale e completare l'opera di rinnovamento che hanno intrapreso ed alla quale dobbiamo essere tutti grati, come giuristi e come cittadini. Ed è anche augurabile che il giudice amministrativo sappia prontamente raccogliere e sviluppare, per quanto di competenza, le indicazioni della Corte regolatrice.
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(*) Testo dell’intervento svolto il 18 novembre 1999 nell’incontro di studi tenutosi presso il Consiglio di Stato sulla problematica aperta dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, 26 marzo-22 luglio 1999 n. 500.