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Articoli e note


Quantunque la sotto riportata relazione del Pres. Salvatore Giacchetti non sia nuova nè recente (fu pubblicata oltre 11 anni addietro tra l'altro in Giur. amm. sic. 1988, II, p. 36 ss.), tuttavia ho pensato di pubblicarla nuovamente in questa rivista Internet, perché ritengo che tale relazione sia ancora attuale ed offra spunti ricostruttivi di notevole interesse. Costituisce, a suo modo, un classico scritto da uno dei maggiori conoscitori del giudizio di ottemperanza, redatto con l'usuale stile brillante che contraddistingue tutta la produzione dello stesso Autore e con un piglio che rende accattivanti anche gli argomenti più ostici (e tale indubbiamente è tuttora, nel campo amministrativo, il giudizio di ottemperanza). La sua lettura (o rilettura) può quindi essere di ausilio sia per gli studiosi che per i studenti.  Internet, infatti, può costituire non solo un mezzo di tempestiva informazione e di dibattito, ma anche uno strumento di approfondimento e studio (G.V.)

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Salvatore Giacchetti
(Presidente di Sezione del Consiglio di Stato)

Il giudizio d'ottemperanza nella giurisprudenza 
del Consiglio di giustizia amministrativa (*).

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Sommario: 1. La problematica generale. 2. La genesi storica. 3. L'allargamento dell'area del giudicato "ottemperabile" e l'inquadramento nella giurisdizione esclusiva. 4. Il concetto di inottemperanza. 5. Il commissario ad acta. 6. Il commissario ad acta "organo dimidiato". 7. La natura paritetica dell'attività del commissario ad acta. 8. Punti d'arrivo dell'attuale giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa. 9. Gli attuali progetti di riforma del giudizio amministrativo. 10. Considerazioni conclusive.

 

1.- Il mio tema è il giudizio di ottemperanza, e cioè il giudizio preordinato ad ottenere dal giudice amministrativo l'esecuzione o l'attuazione - ritornerò più tardi su questi due termini - di una sentenza passata in giudicato; preordinato cioè ad ottenere dal giudice amministrativo quelle modificazioni della realtà che la sentenza non abbia operato direttamente, ma abbia rimesso alla successiva azione dell'Amministrazione, e che l'Amministrazione per una qualsiasi ragione non abbia poi effettuato (1).

E' questo un tema, per me, stimolante e imbarazzante insieme.

E' un tema stimolante perché, in ultima analisi, è proprio il giudizio di ottemperanza a dare la misura dell'effettività, della reale efficienza della giurisdizione amministrativa. La giurisdizione amministrativa senza giudizio d'ottemperanza rischierebbe di risultare un'arma caricata a salve, una grida manzoniana; per dirla in termini attuali, rischierebbe di risultare un condono edilizio qualsiasi.

E' un tema, però, anche imbarazzante; perché se dovessi rispondere con totale sincerità alla domanda "cos'è il giudizio di ottemperanza?" forse dovrei dire "non lo so". E dovrei dirlo non perché, mancando gravemente nei confronti dei signori presenti, non mi sia preparato su questo argomento, che anzi studio da anni e che ho cercato di approfondire in alcune delle sentenze con cui il Consiglio di giustizia amministrativa ha voluto porsi all'avanguardia della giurisprudenza in materia; ma perché il tema è tuttora irto di difficoltà concettuali e sistematiche che lo rendono quanto mai ambiguo e perplesso, tanto che quasi nessun aspetto di questo giudizio può dirsi pacifico in dottrina ed in giurisprudenza.

Tali difficoltà di approccio derivano essenzialmente da tre ordini di cause.

Una prima causa è di ordine logico; e si ricollega alla perplessità di fondo che grava sul giudizio d'ottemperanza costruito come giudizio preordinato ad eseguire le statuizioni della sentenza conclusiva di un giudizio precedente. Infatti, nei confronti di una costruzione del genere viene spontanea un'osservazione: ma se c'è bisogno d'un altro giudizio e quindi di un'altra sentenza, allora la sentenza conclusiva del giudizio precedente che cosa ha dato: un parere? una raccomandazione? Perché, premesso che sentenza da ottemperare e sentenza di ottemperanza sono formalmente omogenee secondo i normali canoni della logica aristotelica sembrerebbe corretto ragionare così: o la prima sentenza ha già in sé, astrattamente, l'intrinseca capacità di attuare le sue statuizioni, e allora non si vede quale bisogno vi sia di una sentenza supplementare in sede d'ottemperanza; o la prima sentenza questa capacità non ce l'ha, e allora una qualsiasi sentenza ulteriore non potrebbe aggiungere nulla all'incapacità iniziale, dal momento che in diritto, così come in matematica, una somma di zeri è pur sempre zero.

Una seconda causa di difficoltà è di ordine storico-evolutivo; e si ricollega al fatto che il giudizio di ottemperanza, nato per far fronte a determinate esigenze concrete (e cioè l'inadempimento del giudicato del giudice ordinario), ha finito con l'essere utilizzato quasi esclusivamente per far fronte a esigenze concrete molto diverse (e cioè l'inadempimento del giudicato del giudice amministrativo), pur restando formalmente inalterato l'originario disposto legislativo; il che significa che tale disposto ha oggi un contenuto precettivo reale molto diverso da quello che il legislatore aveva pensato in origine.

Una terza causa di difficoltà è di ordine sistematico; e si ricollega al fatto che la costruzione dogmatica del giudizio di ottemperanza presuppone la soluzione di alcuni problemi di fondo di teoria generale (ruolo del giudice e ruolo dell'amministrazione; oggetto del giudizio amministrativo; dialettica autorità-libertà; ruolo del provvedimento amministrativo e ruolo della sentenza del giudice amministrativo), problemi nei cui confronti l'atteggiamento della scienza giuridica si è radicalmente modificato per effetto della accelerazione della storia di questi ultimi decenni. 

Basti pensare solo a questo: ancora nel 1951 un amministrativista di prima grandezza come Ranelletti poteva tranquillamente affermare (e non si trattava certo di una voce isolata né in dottrina né - purtroppo - in giurisprudenza) che l'obbligo dell'Amministrazione di dare esecuzione alla sentenze "non può essere un obbligo assoluto" dal momento che l'Amministrazione stessa "può sempre giudicare, nel suo apprezzamento discrezionale, se l'adempimento specifico di quell'obbligo possa essere eventualmente di nocumento all'interesse pubblico" (2); cioè, in buona sostanza, che l'obbligo di eseguire un giudicato non era un obbligo ma una semplice facoltà; una sorta di optional che si poteva - indifferentemente - volere o no. E' un'affermazione questa che oggi può far sorridere, o rabbrividire; ma che allora costituiva jus receptum. E sto parlando di trentacinque anni fa; non della preistoria del diritto.

Tale orientamento dottrinario e giurisprudenziale ormai tramontato, in macroscopico e - direi - esemplare contrasto con secoli di teoria generale del processo e del giudicato in particolare, era spiegabile solo con l'ambiguità di fondo che aveva accompagnato nel 1889 la creazione della quarta Sezione del Consiglio di Stato, la prima che avesse avuto attribuite funzioni non consultive ma decisorie. Infatti il legislatore di allora non seppe - o non volle - esprimere con chiarezza il principio che la Sezione svolgeva funzioni giurisdizionali, e non amministrative (tanto che le pronunzie della Sezione vennero qualificate col termine neutro di "decisioni", e non con quello tecnico di "sentenze" recepito solo dalla legge del 1971 istitutiva dei tribunali amministrativi regionali); e questa ambiguità iniziale si è trascinata a lungo, alimentata anche dal particolare clima politico e ideologico precostituzionale, che favoriva l'affermarsi di una concezione autoritaria e totalizzante dello Stato; fino a che nell'ultimo trentennio lo sforzo congiunto di dottrina e giurisprudenza ha fatto finalmente assumere al processo amministrativo il suo vero aspetto giurisdizionale, liberandolo di gran parte della zavorra di falsi problemi che aveva accumulato nei suoi primi sessanta anni di vita.

E' dunque per tutti questi motivi che il giudizio di ottemperanza, pur avendo ormai quasi un secolo di vita e pur essendo di fondamentale importanza nell'ordinamento, è tuttora alla ricerca di una sua propria identità e di un suo proprio spazio operativo, e costituisce una sorta di oggetto misterioso nel modo della giustizia amministrativa. 

Un oggetto misterioso anche perché l'architettura reale di questo giudizio non ha - come dicevo - un punto di riferimento certo nella normazione positiva risalente al regolamento del 1907 ed al testo unico del 1924, che al riguardo contengono previsioni largamente incomplete, ed in cui galleggiano sempre più stancamente relitti storici e disposizioni superate dalla successiva evoluzione dell'ordinamento. Relitti storici come il tratto che il ricorso andrebbe indirizzato al presidente del collegio e non al collegio; ma oggi nessun giudice si sognerebbe di dichiarare inammissibile il ricorso perché indirizzato - erroneamente - al collegio. Disposizioni superate, come quella dell'art. 91 del regolamento, secondo cui il ricorso non andrebbe notificato ai controinteressati. 

In verità quest'ultima disposizione non è enunciata espressamente dall'art. 91, ma discende solo da una certa interpretazione tradizionale di questo articolo. Ora non c'è bisogno di essere professori di diritto costituzionale per rendersi conto di come non possa ritenersi ammissibile una interpretazione che ammette la configurabilità di un giudizio clandestino, e cioè istituzionalmente destinato a svolgersi all'insaputa dei controinteressati.

La costruzione reale, quindi, del giudizio di ottemperanza non è opera della normazione positiva; è opera, invece, della funzione cosiddetta pretoria (e cioè dell'interpretazione creatrice) della giurisprudenza amministrativa, che è venuta elaborando un quadro sistematico sempre più raffinato, ma che, proprio per la esigenza di doversi servire di strumenti vecchi per fini nuovi tenendo fermo il telaio normativo originario, non si è ancora stabilizzato ed oggi contiene sia vecchie formule ormai tralaticie sia intuizioni d'avanguardia.

Ora è proprio in questo settore che il contributo del Consiglio di giustizia amministrativa è stato particolarmente significativo; tanto che al congresso di Varenna del 1981, dedicato appunto al giudizio di ottemperanza, è stato autorevolmente riconosciuto che tale contributo costituisce la punta più avanzata della giurisprudenza del settore (3).

Ma prima di cercare di illustrare quale è stato questo contributo, desidero soffermarmi brevemente su quella che è stata l'origine storica del giudizio di ottemperanza; perché solo così ci si può rendere pienamente conto della sua attuale funzione, dei suoi attuali limiti, e delle sue attuali prospettive.

 

2.- La prima pietra del giudizio di ottemperanza è stata posta dalla riforma del 1865, quando il legislatore dell'epoca, sotto la pressione di confuse ideologie neogiacobine di rigida separazione dei poteri, secondo cui nessun giudice doveva ingerirsi degli affari dell'Amministrazione, decise di abolire gli allora operanti organi del contenzioso amministrativo, corrispondenti grosso modo agli attuali Consiglio di Stato, Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, e Tribunali amministrativi regionali. La rivoluzione francese aveva pensato di semplificare i processi escludendo la partecipazione degli avvocati; il neo Stato unitario fu ancora più radicale, e ritenne di semplificare le cose eliminando i giudici, e quindi lasciando - in pratica - che, per una certa fascia di controversie, le parti se la vedessero tra loro. In sostanza, era un'edizione riveduta e corretta del duello come giudizio di Dio; era un'idea alquanto bizzarra, e di cui non sono ancora del tutto chiare le effettive motivazioni. Comunque il legislatore, quali che fossero le sue ragioni, stabilì - come è noto - che per le controversie relative ai classici diritti civili e politici il cittadino dovesse adire il giudice ordinario; e che per gli interessi ad un certo comportamento di una pubblica Amministrazione che non raggiungessero l'intensità del diritto (è allora che comincia a farsi strada il concetto di interesse legittimo) fossero sufficienti i normali ricorsi amministrativi all'Amministrazione stessa. In ordine a tali interessi l'Amministrazione non doveva essere sottoposta a nessun giudice; e, come l'Innominato dal suo castellaccio, non doveva vedere nulla al di sopra di sé, né più in alto.

A tranquillizzare i benpensanti il legislatore stabilì il principio che l'Amministrazione - quanto meno - avrebbe dovuto conformarsi al giudicato del giudice ordinario; più precisamente stabilì che, quando sorgesse dinanzi al giudice ordinario una controversia sulla pretesa lesione di un diritto ad opera di un provvedimento amministrativo, il giudice si sarebbe dovuto limitare a stabilire se l'atto fosse o no conforme alla legge; e che in caso di verdetto negativo del giudice l'atto avrebbe potuto essere annullato - su ricorso degli interessati - esclusivamente dall'Amministrazione la quale avrebbe dovuto appunto conformarsi al giudicato. Però questo dovere di conformarsi, incombente all'Amministrazione, era sfornito di sanzione; e l'interessato non poteva pretenderne l'adempimento dinanzi a nessun giudice. Tutto il sistema quindi era fondato sulla buona volontà dell'Amministrazione; e, in pratica, poteva finire col risultare una dichiarazione di buone intenzioni priva di contenuto concreto.

Il legislatore s'accorse ben presto dell'errore commesso. E con la riforma del 1889, istitutiva - come ho detto - della IV sezione del Consiglio di Stato, creò un apposito ricorso giurisdizionale per ottenere che l'Amministrazione si conformasse al giudicato (sempre del giudice ordinario), e precisò che ciò per l'Amministrazione costituiva l'adempimento di un obbligo giuridico. La norma fu poi trasfusa, praticamente immutata, nell'art. 27, n. 4, del vigente testo unico del Consiglio di Stato del 1924. La procedura del ricorso e del giudizio venne stabilita negli artt. 90 e 91 del regolamento del 1907, anch'essi tuttora vigenti.

Era indubbiamente un grande passo avanti; ma che lasciava ancora irrisolti almeno tre interrogativi essenziali, e precisamente:

a) in primo luogo, per quale giudicato doveva ritenersi esperibile il giudizio di ottemperanza? Solo per quello del giudice ordinario - al quale faceva espresso riferimento l'art. 27, n. 4 - o anche per quello di un qualsiasi giudice, e - in particolare - per quello dello stesso giudice amministrativo?

b) in secondo luogo, quand'è che l'Amministrazione supera quella soglia di "non conformazione" al giudicato che legittima l'interessato ad esperire il giudizio di ottemperanza?

c) in terzo luogo, quali poteri ha il giudice amministrativo in sede di giudizio di ottemperanza?

 

3.- Il primo interrogativo - e cioè se si possa esperire il giudizio d'ottemperanza anche per ottenere l'adempimento dell'obbligo di conformarsi ad un giudicato di un giudice diverso da quello ordinario - è ormai risolto da tempo; e quindi mi limiterò a qualche breve accenno.

Sin dal 1928 (4) la giurisprudenza, con alcune sentenze garibaldine, ha esteso - in via interpretativa - il ricorso ex art. 27, n. 4, al giudicato del giudice amministrativo; e quasi 50 anni dopo il legislatore ha espressamente sanzionato tale estensione all'art. 37 della legge del 1971 istitutiva dei tribunali amministrativi regionali. In tempi recenti la giurisprudenza è andata ancora oltre; ed ha ritenuto il giudizio di ottemperanza ammissibile anche per la esecuzione del giudicato nascente da sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale (5), e da sentenze della Corte dei Conti (6). In pratica, oggi il giudizio di ottemperanza deve ritenersi esperibile in relazione a qualsiasi giudicato e addirittura per provvedimenti giudiziali diversi dalle sentenze, quali - ad esempio - i decreti ingiuntivi (7), con esclusione però dei provvedimenti cautelari emessi dal giudice amministrativo in sede di sospensiva (8); e prospettive particolarmente interessanti potrebbero aprirsi per l'esecuzione delle sentenze delle commissioni tributarie e di quelle della Corte di giustizia delle comunità europee.

Ma la continua dilatazione dell'area del giudicato "ottemperabile" ha creato notevoli problemi di ordine sistematico; e qui entriamo nel vivo del problema.

La giurisprudenza, quando nel 1928 estese il giudizio di ottemperanza al giudicato amministrativo, con ogni probabilità non si rese conto di avere operato non già una pura e semplice interpretazione estensiva, quanto una recezione trasformativa di un istituto che, sorto per determinate esigenze pratiche, veniva piegato ad altre esigenze, profondamente diverse: in quanto giudicato civile e giudicato amministrativo sono entità che hanno lo stesso nome e coabitano sotto lo stesso tetto giuridico, ma sono tra loro diversissime.

La questione è molto complessa, e non è facilmente sintetizzabile (9). Schematizzando a grandissime linee può dirsi che la sentenza del giudice ordinario si conclude - di regola - con una decisione di attribuzione o di qualificazione del bene controverso, e quindi con una decisione finale, idonea a soddisfare in modo immediato e diretto l'interesse concreto dell'attore. Sempre di regola, quindi, il giudice ordinario non ha alcun bisogno del braccio secolare del giudice amministrativo in sede di giudizio d'ottemperanza, in quanto non solo dicit ma anche facit ius, emettendo statuizioni di carattere costitutivo, che si autoeseguono. Di eventuale ottemperanza può parlarsi solo per le statuizioni che implicano un facere, e cioè per le statuizioni di condanna. E poiché le statuizioni del giudice ordinario sono contenute - di regola - nel dispositivo, l'esecuzione del giudicato ordinario da parte del giudice dell'ottemperanza copre - di regola - un'area molto esigua delimitata da una parte dalle statuizioni costitutive, che si sono già autoeseguite per conto loro, e dall'altra dalle statuizioni rese incidenter tantum, contenute in motivazione e che non costituiscono giudicato. In quest'area molto esigua rientrano, in pratica, solo i casi di condanna dell'Amministrazione al pagamento di una somma di denaro (o - più generalmente - ad un dare), qualora l'interessato non intenda avvalersi in via esclusiva della normale procedura civilistica di espropriazione forzata, ovvero i casi in cui l'Amministrazione abbia assunto come presupposto di un suo provvedimento una certa situazione di diritto (ad esempio: abbia adottato un provvedimento di concessione sul presupposto della demanialità di un fondo), tale situazione venga poi definita in modo diverso dal giudice ordinario (che stabilisca, ad esempio, che il fondo era di proprietà di un privato), e la sentenza venga ignorata dall'Amministrazione. Ma si tratta di casi rari, che statisticamente costituiscono una percentuale minima dei giudizi di ottemperanza.

Invece la sentenza di accoglimento del giudice amministrativo - quanto meno, in sede di giurisdizione generale di legittimità - ha un contenuto costitutivo estremamente povero, in quanto nel suo dispositivo non attribuisce o qualifica un bene, e quindi non soddisfa immediatamente (se non nella misura in cui annulla un provvedimento lesivo) un interesse concreto dell'attore. Il contenuto più ricco e più pregnante della sentenza amministrativa è invece quello ordinatorio: direttamente ordinatorio per quanto riguarda tutte quelle prescrizioni con cui si impone un certo comportamento all'Amministrazione; indirettamente ordinatorio per quanto riguarda tutte quelle enunciazioni che qualificano illegittimo un certo comportamento dell'Amministrazione, e quindi fanno sorgere in quest'ultima il dovere di non ricadere nella stessa illegittimità. E poiché le statuizioni di carattere ordinatorio (in particolare, quelle di carattere indirettamente ordinatorio) sono contenute - di regola - nella motivazione, eseguire la sentenza amministrativa significa - di regola - eseguire la sua motivazione, tutta la sua motivazione, senza che in concreto sia possibile distinguere tra statuizioni in via principale e statuizioni incidenter tantum. Di vere e proprie statuizioni incidenter tantum, estranee al giudicato e quindi non possibile oggetto di giudizio di ottemperanza, può parlarsi solo per quelle eccezionalmente rese in materia di diritti o di stato e capacità delle persone, ai sensi dell'art. 28 del testo unico del Consiglio di Stato, in sede di giurisdizione generale di legittimità.

Di conseguenza, l'esecuzione della sentenza amministrativa è cosa estremamente più complessa dell'esecuzione della sentenza ordinaria. Eseguire la sentenza ordinaria significa eseguire il suo dispositivo, che consiste (mi limito qui alle statuizioni di condanna, che sono quelle che più interessano) in un dare o in un facere predeterminati. Eseguire la sentenza amministrativa significa, invece, eseguire non solo il suo dispositivo ma anche la sua motivazione, che consiste in una serie di prescrizioni e di enunciazioni complesse e spesso elastiche; significa riportare sulla linea di partenza la macchina dell'Amministrazione, perché il procedimento questa volta si concluda "bene", e cioè secondo le indicazioni del giudice.

E siccome questa corsa al bene, nell'inerzia dell'Amministrazione, è il giudice amministrativo che deve condurla, quest'ultimo - in sede di giudizio di ottemperanza - può essere chiamato non solo ad adempiere uno specifico obbligo dell'Amministrazione predeterminato nel suo contenuto e rimasto insoddisfatto (come accade, di regola, in sede di ottemperanza del giudicato ordinario), ma a sostituirsi all'Amministrazione nel generico dovere di comportarsi bene; e quindi non a compiere un preciso atto vincolato, ma a compiere una attività che trova dinanzi a sè il prisma della discrezionalità e che quindi può concretarsi indifferentemente in una qualsiasi tra molteplici determinazioni parimenti legittime; in altre parole è chiamato a porre in essere un'attività sostanzialmente amministrativa, a rifare - questa volta in modo legittimo - un tratto dell'azione amministrativa secondo i criteri operativi che egli stesso ha enunciato nella sentenza da eseguire.

Su queste basi il Consiglio di giustizia amministrativa, tenendo conto anche di autorevoli suggerimenti della dottrina (10), con sentenza 21 dicembre 1982 n. 82 (11) ha enunciato il principio - e qui incipit iurisprudentia nova - che l'obbligo di adempimento previsto dall'art. 27, n. 4, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato si articola - in realtà - in due forme logicamente distinte: e cioè in uno specifico obbligo di "esecuzione" in senso stretto, preordinato a realizzare le statuizioni tassative e puntuali della sentenza, e in un generico dovere di "attuazione" (o di "ottemperanza" in senso stretto), preordinato a realizzare quelle statuizioni della sentenza che postulano scelte discrezionali, fermo restando il fine indicato quanto meno in via di massima - dalla sentenza stessa. 

Il Consiglio di giustizia amministrativa ha quindi ritenuto che, nel primo caso, all'obbligo di adempiere in capo all'Amministrazione corrisponda un vero e proprio diritto soggettivo in capo al ricorrente vittorioso; con la necessaria conseguenza che il giudizio di ottemperanza vada inquadrato non nella giurisdizione generale di legittimità ma nella giurisdizione esclusiva: e precisamente nella giurisdizione esclusiva di merito puro, e non di legittimità congiunta al merito. Il giudice, infatti, non deve compiere alcuna valutazione in termini di incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere; deve soltanto acclarare l'esistenza dell'inadempimento come fatto, e quindi adottare i necessari provvedimenti sostitutivi per soddisfare l'obbligo rimasto inadempiuto. Pertanto il giudice non pronuncia anche in merito (come afferma, inesattamente, l'art. 27 n. 4 del testo unico), ma solo in merito.

Su quest'ultima affermazione - diritto soggettivo del ricorrente; giurisdizione esclusiva di merito - desidero richiamare la vostra attenzione; perché si tratta di un'affermazione che, a parte il suo interesse teorico, è di grande importanza pratica sotto il triplice profilo della meccanica del processo, dei poteri del giudice, e delle conseguenze che ricadono sull'Amministrazione che non ha ottemperato.

Sotto il profilo della meccanica del processo l'actio iudicati può essere fatta valere non nel termine decadenziale di sessanta giorni, ma nel termine prescrizionale di dieci anni, come per tutti gli altri diritti per i quali l'ordinamento non stabilisca un termine di prescrizione diverso; e senza nessun bisogno, da parte del ricorrente, di precisare il contenuto dell'obbligo di cui si chiede l'ottemperanza, obbligo che va desunto obiettivamente dalla stessa decisione di cui si lamenta l'inesecuzione (12). Invece, contrariamente a quanto ritenuto dalla communis opinio, anche il ricorso per ottemperanza deve essere notificato agli eventuali controinteressati, e non semplicemente comunicato all'Amministrazione; una diversa lettura degli artt. 90 e 91 del regolamento sarebbe palesemente contraria alla Costituzione.

Sotto il profilo dei poteri del giudice il giudizio di ottemperanza comporta la possibilità di condannare l'Amministrazione al pagamento delle somme di cui risulti debitrice (art. 26 della legge sui Tar) e, soprattutto, comporta la possibilità di sostituirsi ad essa, o in via diretta mediante un apposito commissario ad acta . A questo proposito sarebbe da osservare che in realtà non c'è nessun motivo perché il potere sostitutivo debba essere limitato alla giurisdizione di merito (13); ma in questa sede non è possibile approfondire questo aspetto. Deve ritenersi, inoltre, che il giudice in sede di giudizio d'ottemperanza possa tranquillamente disapplicare gli atti con i quali l'Amministrazione abbia violato il diritto soggettivo del ricorrente ad ottenere l'esecuzione del giudicato, in quanto atti adottati in carenza di potere (14).

Sotto il profilo delle conseguenze per l'Amministrazione inottemperante, infine, una volta riconosciuto che il giudicato contiene già in partenza o acquista a seguito della integrazione operata a seguito del giudizio di ottemperanza un contenuto ordinatorio preciso e tassativo - la dottrina parla efficacemente a questo proposito di "giudicato a formazione progressiva" (15) - al ricorrente risultato vittorioso, in quanto titolare di un diritto soggettivo, deve poi riconoscersi titolo al risarcimento del danno prodotto dalla mancata esecuzione, ai sensi dell'art. 26 del testo unico 10 gennaio 1957 n. 3, recante lo statuto dei dipendenti civili dello Stato (16).

La risarcibilità del danno a sua volta determina:

a) la responsabilità amministrativa del pubblico dipendente che, per inosservanza dolosa o colposa dei suoi obblighi di servizio, abbia cagionato alla propria Amministrazione un danno economico (consistente non solo del pagamento delle spese processuali, ma anche nelle somme che la Amministrazione possa essere tenuta a corrispondere al ricorrente vittorioso a titolo di risarcimento). A tal fine il giudice amministrativo dovrebbe trasmettere d'ufficio alla Procura della Corte dei Conti tutte le sentenze di accoglimento rese in sede di giudizio di ottemperanza, qualora non possa escludersi che la mancata esecuzione sia stata determinata da dolo o colpa grave del dipendente; ciò, ovviamente, senza precludere eventuali autonome denunce da parte degli interessati;

b) la responsabilità amministrativa speciale del pubblico dipendente relativa alla spesa conseguente all'invio di commissari ad acta, soggetta al maggior rigore proprio della responsabilità contabile (17);

c) la responsabilità civile, che - ai sensi dell'art. 28 della Costituzione - incombe congiuntamente sull'Amministrazione e sul pubblico dipendente (per quest'ultimo limitatamente ai casi di dolo o colpa grave) nei confronti del ricorrente vittorioso che, a seguito dell'inadempimento, abbia subito un concreto danno economico.

Si tratta di una serie di conseguenze pratiche che, se verranno recepite dalla coscienza giuridica, potranno costituire un'efficace remora al fenomeno dell'inottemperanza che, pur se fortunatamente molto limitato, ha disastrose conseguenze sulla credibilità della giustizia amministrativa e - in ultima analisi - sulla credibilità delle istituzioni democratiche.

 

4.- Il Consiglio di giustizia amministrativa ha poi dedicato particolare attenzione al secondo interrogativo: e cioè quand'è che l'Amministrazione supera quella soglia di "non conformazione" al giudicato che legittima l'interessato ad esperire il giudizio di ottemperanza.

E' un problema, questo, che ha rilevanti conseguenze pratiche; in primo luogo, perché il giudizio di ottemperanza, per evidenti considerazioni di moralità giudiziaria, ha un iter più rapido del normale giudizio di legittimità; in secondo luogo - ed è il tratto più importante - perché in sede di giudizio di ottemperanza il giudice ha poteri più ampi di quelli che ha nel normale giudizio di legittimità, in particolari poteri sostitutivi che gli consentono l'effettivo soddisfacimento dell'interesse sostanziale del ricorrente.

Ora stabilire quando si ha inottemperanza ad un giudicato può non essere affatto una questione semplice da risolvere. E' chiaro che si ha inottemperanza nel caso in cui l'Amministrazione rifiuta espressamente di eseguire il giudicato; o nel caso in cui l'Amministrazione non fa assolutamente nulla, e adotta una tattica - o, comunque, un comportamento - di cristallina inerzia. Ma si tratta di eventualità rarissime. Qualunque Amministrazione appena un pò smaliziata quando si trova a dovere fare i conti con un giudicato "scomodo", segue di solito una via più subdola: si limita ad avviare le procedure necessarie per l'ottemperanza, ma con l'arrière pensee di insabbiarle; oppure moltiplica senza motivo gli atti istruttori o interlocutori; oppure ancora - e questo è l'aspetto più delicato della vicenda - adotta provvedimenti farisaici, che formalmente vengono adottati al fine di ottemperare al giudicato, ma che in realtà lo falsano o lo snaturano, lasciando così al ricorrente vittorioso il classico pugno di mosche. E il perché è comprensibile: in un sistema come il nostro caratterizzato dalla relativa lunghezza del processo amministrativo - anche se il processo dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa costituisce, sotto questo profilo, una felice eccezione - un soggetto tendenzialmente esterno e irreponsabile uti singulis come una Pubblica Amministrazione ha tutto da guadagnare se adotta la tattica del rinvio nei confronti di un soggetto privato che eterno non è e che paga in proprio, e che quindi può vincere troppo tardi, od anche stancarsi e rinunziare a combattere prima della conclusione della sua vicenda processuale. 

A questo proposito desidero ricordare che il mio particolare interesse per il giudizio d'ottemperanza è sorto nel 1977 - ero allora alla VI Sezione del Consiglio di Stato - mi capitò il caso di un ingegnere delle F.S. che, per avere denunciato nel 1955 alcuni superiori per alcune cose poco pulite da lui rilevate negli appalti ferroviari (cose riconosciute vere dal giudice penale), era stato sottoposto ad una vera e propria raffica di provvedimenti sanzionatori, con conseguente crollo delle sue note di qualifica e blocco di una carriera sino allora brillantissima (18).

Ebbene questo sventurato funzionario, pur avendo fatto credo 18 ricorsi - posso sbagliare per difetto - e pur avendo avuto annullati dal giudice amministrativo, sin dal 1961, i provvedimenti illegittimi, andò in pensione nel 1980 senza essere riuscito a farsi debitamente ricostruire la carriera ingiustamente danneggiata; e questo perché da una parte l'Azienda adottava dopo ogni annullamento nuovi provvedimenti che, pur dichiarando di volere ottemperare al giudicato, lasciavano il ricorrente sostanzialmente insoddisfatto; e dall'altra parte la giurisprudenza di allora riteneva che solo per i provvedimenti adottati in "macroscopica elusione" del giudicato (quali non erano i sagaci provvedimenti dell'Azienda) fosse consentito esperire il giudizio di ottemperanza, l'unico che avrebbe consentito al giudice di sostituirsi all'Amministrazione inottemperante e far cos" conseguire al ricorrente manu militari l'utilità a lui dovuta. 

Sicché l'ingegnere ottenne annullamenti su annullamenti; ma non riuscì ad ottenere l'atto positivo che gli era dovuto; e, come ho detto, andò in pensione insoddisfatto. E' un caso che ha costituito un emblematico fiore del male della vita amministrativa.

Non può escludersi anche un caso ulteriore; e cioè che l'amministrazione in buona fede adotti provvedimenti erronei, che cioè non costituiscono effettiva esecuzione del giudicato.

Ora tutti questi provvedimenti che, in buona o mala fede, falsano o violano o sono comunque in obiettivo contrasto con il giudicato, sono impugnabili col giudizio d'ottemperanza o no? La differenza pratica è notevolissima: se si ritiene che lo siano, il giudice può sostituirsi all'Amministrazione, e soddisfare - diretamente o mediante un commissario ad acta - la pretesa del ricorrente vittorioso; se invece si ritiene che non lo siano, il giudice deve limitarsi ad annullare il provvedimento lesivo, e la questione torna all'Amministrazione, che può però adottare un nuovo provvedimento in violazione del giudicato, provvedimento che può essere impugnato solo negli stessi limiti di prima e con gli stessi effetti, e così via.

Ma quale è, dunque, la situazione che costituisce il necessario presupposto per esperire il giudizio di ottemperanza?

Nella giurisprudenza s'è registrato in proposito un vero e proprio crescendo.

Si è partiti da una concezione particolarmente restrittiva, limitando cioè il giudizio d'ottemperanza solo al caso dell'assoluta inerzia dell'Amministrazione. Si diceva: ogni qualvolta viene adottato un provvedimento positivo, questo può essere impugnato solo in sede di giudizio di legittimità, qualunque sia il vizio da cui è affetto.

Bisogna arrivare agli anni settanta (19) perché il giudizio d'ottemperanza venga ammesso anche quando l'Amministrazione abbia provveduto, ma in modo "macroscopicamente elusivo" del giudicato; viene però ancora escluso l'ammissibilità del giudizio in caso di violazione o falsa applicazione del giudicato (considerato un normale caso di illegittimità per violazione della lex specialis costituita dal giudicato).

Ma un orientamento del genere non poteva ritenersi convincente. Infatti, una volta stabilito dal legislatore che l'amministrazione ha l'obbligo di conformarsi al giudicato, è evidente che compito del giudice dell'ottemperanza non è di accertare se l'amministrazione abbia emanato o no un (qualsiasi) provvedimento, ma semplicemente di accertare se abbia ottemperato o no. E l'incongruenza dell'orientamento tradizionale era dimostrata da ciò: che se, in ipotesi, l'amministrazione avesse potuto legittimamente continuare, dopo ogni annullamento, ad adottare ulteriori provvedimenti in violazione del giudicato, per il ricorrente vittorioso si sarebbe aperto un processo all'infinito, un classico circolo vizioso in cui avrebbe finito col trovarsi (dopo ogni, del tutto inutile, annullamento) sempre allo stesso punto, senza mai poter utilmente esperire il giudizio d'ottemperanza (l'unico che gli avrebbe consentito, in concreto, di superare l'ipotizzata resistenza ad oltranza dell'amministrazione) e quindi senza mai riuscire a soddisfare la pretesa riconosciuta fondata dal giudice: senza mai riuscire ad ottenere giustizia.

Per superare queste incongruenze il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana sin dal 1981 ha stabilito il principio innovatore che il giudizio di ottemperanza deve ritenersi esperibile ogni qualvolta si faccia valere il vizio di violazione di giudicato, osservando - tra l'altro - che secondo i principi generali l'adempimento parziale o ritardato o inesatto o formalmente denegato è sempre inadempimento; sicché non v'è alcun motivo per cui l'adempimento inesatto o formalmente denegato dell'obbligo di conformarsi non debba essere considerato inadempimento in senso tecnico (con conseguente ammissibilità del giudizio di ottemperanza), così come - del resto - nel processo civile la tutela esecutiva è di massima esperibile anche se al giudicato si presti esecuzione in modo parziale o ritardato o inesatto (20).

Questa svolta giurisprudenziale va particolarmente sottolineata, in quanto ha determinato una notevole razionalizzazione del sistema nel pubblico e nel privato interesse, sia perché ha dato una concreta effettività alla tutela giurisdizionale in sede di giudizio d'ottemperanza, sia perché - in pratica - la precedente distinzione tra provvedimento macroscopicamente elusivo e provvedimento violativo era estremamente opinabile; sicché il ricorrente era spesso costretto, per tuziorismo, a fare due ricorsi: uno di ottemperanza (che gli offriva una maggiore rapidità di conclusione e la possibilità di ottenere l'esercizio di poteri sostitutivi) ed uno in via normale, nell'eventualità che il primo venisse dichiarato inammissibile.

A questo allargamento dell'area del giudicato ottemperabile ha corrisposto - sul piano processuale - una smitizzazione del giudizio di ottemperanza come procedimento speciale. Infatti il Consiglio di giustizia ha rilevato che le particolarità del rito, tolte quelle costituite - come ho già detto - da relitti storici o da aspetti del tutto marginali, si riducono alla necessità di una preventiva messa in mora dell'Amministrazione inottemperante, messa in mora che - oltre tutto, in conformità ai noti principi giurisprudenziali in tema di formazione del silenzio rifiuto - non costituisce un momento indefettibile, come atto a sé stante, della vicenda processuale (21).

Per tali ragioni il Consiglio ha ammesso la conversione del ricorso normale in ricorso per ottemperanza, così come l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato aveva ammesso, simmetricamente, la conversione del ricorso per ottemperanza in ricorso normale (22).

Punto d'arrivo di questa giurisprudenza è - in prospettiva - che non è esatto porre un problema di alternatività tra giudizio d'ottemperanza e giudizio normale: il problema che invece va posto è di separazione di due distinte aree di pretese e di correlativi poteri del giudice. Il giudice cioè, a prescindere dalle locuzioni usate dall'interessato, deve qualificare la pretesa del ricorrente; se la ritiene, in tutto od in parte, estranea all'esecuzione di un giudicato fa uso dei poteri cassatori e ordinatori che gli spettano in sede di giurisdizione generale di legittimità; se la ritiene invece, in tutto od in parte, diretta alla esecuzione di un giudicato fa anche uso dei poteri sostitutivi che gli spettano in sede di giurisdizione esclusiva di merito. In caso di pretesa articolata ritengo che nulla vieti al giudice di esercitare nella stessa sentenza entrambi i complessi di poteri, ovviamente ciascuno per la relativa area.

 

5.- A questo punto nell'oggetto misterioso del giudizio di ottemperanza è necessario parlare di un personaggio fondamentale e ancora più misterioso: il commissario ad acta.

Il commissario ad acta nominato dal giudice d'ottemperanza è una figura creata dalla giurisprudenza praeter legem per esigenze pratiche; ed è del tutto sconosciuto dal legislatore, e - sinora - dalla più significativa dottrina.

Perché è stato creato è abbastanza semplice. E' un noto dato sociologico che la pubblica amministrazione quando tende ad autocostruirsi come "potere" e non come "servizio" - tale tratto è tipico della società contemporanea, e in una certa misura è sempre esistito - tende anche ad autocostruirsi come sistema autarchico ed autonomo, impermeabile alle "ingerenze" (23) degli altri poteri dello Stato, ed in particolare a quelle della magistratura. Con tale sistema tendenzialmente chiuso possono venire a collidere sentenze amministrative "scomode"; e cioè sentenze che non si limitino ad annullare un provvedimento illegittimo (evenienza di cui l'Amministrazione non può che limitarsi a prendere atto) ma indichino - o addirittura prescrivano - di tenere un comportamento che non risponda a quello che lo staff ritenga essere il reale interesse dell'Amministrazione. In tal caso quest'ultima, non potendo ribellarsi esplicitamente, tende ad opporre alle sentenze "scomode" un muro di gomma di ostruzionismo, adottando misure dilatorie, o provvedimenti elusivi, o addirittura un comportamento di assoluta inerzia; e questo non necessariamente per motivi dolosi (come potrebbe accadere nel caso di sentenze che contrastino con gli interessi corporativi o addirittura personali dei componenti dello staff) ma anche per motivi che, al di fuori - possono sembrare abbastanza banali, quali la modifica d'un modulo, o d'una circolare, o della struttura d'un ufficio: fatti questi che, infrangendo il principio sacrale del "precedente", possono creare vere e proprie crisi esistenziali nell'ambito di istituzioni rigidamente anelastiche quali quelle del nostro ordinamento.

In tale contesto il giudice amministrativo, in sede di giudizio di ottemperanza di una sentenza "scomoda", deve innanzi tutto preoccuparsi di curare che questa non resti lettera morta; e, attesa sia la normale inefficacia dei mezzi di coazione indiretta (denuncia per omissione di atti d'ufficio; condanna degli amministratori - in proprio - alle spese di giudizio; denuncia alla procura della Corte dei conti) sia la normale impossibilità di adottare senz'altro il provvedimento satisfattorio (per mancanza di tutti gli elementi necessari), può essere costretto a nominare un apposito commissario perché provveda in luogo dell'Amministrazione.

Il problema che si pone è, quindi, duplice: da un lato costruire una figura che consenta alla sentenza amministrativa di conseguire il massimo grado possibile di effettività; dall'altro costruire una figura che abbia la maggiore coerenza possibile con l'ordinamento, al fine di evitare un possibile intervento repressivo della Corte di cassazione per difetto assoluto di giurisdizione (perché si tratta - si ripete - di figura che non ha la benché minima base normativa), anche se la legittimità della sua presenza nell'ordinamento è stata riconosciuta sia dalla Corte Costituzionale sia dalla stessa Corte di Cassazione.

I principali interrogativi originati da questa figura - che, ripeto, è pressoché inesplorata - sono essenzialmente due: chi è, e cosa fa.

All'interrogativo "chi è il commissario ad acta?", dottrina e giurisprudenza hanno dato tre risposte: il commissario è un organo straordinario dell'Amministrazione (24); il commissario è un organo del giudice (25); il commissario è un organo "dimidiato" (26), da una parte ausiliare del giudice, dall'altra organo straordinario dell'Amministrazione.

Ora, per cercare di chiarire il senso di tutti questi orientamenti (spesso solo apparentemente) contrapposti, è necessario intendersi sul concetto di "organo".

C'è innanzi tutto un'accezione corrente, essenzialmente economico-sociologica, che tende a qualificare "organo" qualsiasi segmentazione di una realtà complessa: cos" si parla, ad esempio, di "organi d'informazione". Ma si tratta, con evidenza, di un'accezione che non è tecnico-giuridica, e che non ha alcun rilievo in questa sede.

C'è poi una seconda accezione, essenzialmente politico-costituzionale, secondo cui - ad esempio - il popolo (o, più esattamente, il corpo elettorale) è organo della nazione, e il giudice è in un certo senso organo del popolo, dal momento che le sentenze vengono emesse in suo nome. Ma si tratta anche in questo caso di un particolare profilo che non interessa il tema in esame.

C'è infine una terza accezione tecnico-giuridica, secondo cui l'organo - più esattamente, il rapporto organico - è un particolare meccanismo predisposto dall'ordinamento in base al quale una figura soggettiva imputa ad una seconda (di regola, una persona giuridica) in tutto od in parte il suo comportamento; imputazione in base alla quale l'attività della prima è considerata o senz'altro attività della seconda (imputazione giuridico-formale) ovvero attività di diretto interesse della seconda (imputazione di risultati) (27).

Ma questa imputazione non è ancora sufficiente a delineare il concetto di organo. Occorre a tal fine un tratto ulteriore, solitamente ignorato, secondo cui l'organo deve potere imputare all'ente madre non solo le fattispecie e/o i risultati ma anche, e soprattutto, le relative responsabilità operative.

Ricorda GIANNINI che la nozione di "organo" fu introdotta nella scienza giuridica, in luogo di quella di "rappresentante legale", in precedenza impiegata, proprio perché altrimenti la persona che entrava in rapporti giuridici con l'ente avrebbe potuto trovarsi in condizioni di minore tutelabilità delle proprie situazioni soggettive nel caso dell'errore, o della negligenza grave o dell'"eccesso di mandato", evenienze per le quali poteva accadere che l'ente non rispondesse (28). Il comportamento dell'organo fa quindi scattare in toto (salvo il caso che sia qualificato dall'illiceità penale, che -come è noto- spezza il cennato nesso di imputabilità) la responsabilità dell'ente. Ma perché ciò avvenga occorre che l'ente abbia sull'organo un potere concreto di direzione e di controllo; e pertanto occorre che esista almeno un altro organo (ministro, presidente, consiglio di amministrazione, assemblea, collegio dei sindaci, ecc.) in grado di agire sul primo, per evitare che traligni, e non operi nell'interesse dell'istituzione considerata. Il che è perfettamente logico, dal momento che è principio generalissimo che nessun soggetto può essere tenuto ad assumersi la responsabilità di azioni che non siano riferibili ad una sua determinazione cosciente e volontaria, sia diretta (scelta esplicita) sia indiretta (per accettazione, tolleranza, e simili).

E' solo per questo potere di direzione e/o di controllo che l'organo è realmente tale non solo sotto un profilo oggettivo (come strumento di imputazione di fattispecie o di risultati) ma anche sotto un profilo soggettivo (come strumento per formalizzare all'esterno la reale volontà dell'ente) (29); ed è solo per questo che le azioni dell'organo imputante sono azioni della figura soggettiva imputata; e da questa immediata imputabilità discende che l'organo altro non è che una parte del disegno organizzativo dell'istituzione, e quindi ha le competenze e i poteri propri di quest'ultima.

Venendo ora al commissario ad acta , è agevole rilevare che esso non può essere considerato organo (straordinario) dell'Amministrazione: ciò per varie considerazioni.

a) Il commissario ad acta non è sottoposto ad alcun potere di controllo o di direzione da parte dell'ente sostituito, che non può neppure intervenire in via di autotutela avverso i provvedimenti commissariali; e pertanto all'ente non può incombere alcuna conseguenza per un'eventuale azione scorretta o scriteriata del commissario.

C'è quindi il tratto dell'imputazione della fattispecie; ma non c'è il tratto dell'imputazione di responsabilità.

b) La nomina del commissario determina l'esautoramento dell'Amministrazione, con conseguente carenza assoluta di potestà di quest'ultima a provvedere all'esecuzione del giudicato (30). Ora sarebbe contraddittorio affermare da una parte tale carenza di potestà e, dall'altra, che il commissario è organo dell'Amministrazione sostituita.

c) Gli atti commissariali non sono omogenei agli (omessi) atti dell'Amministrazione. I primi, infatti, trovano - di regola - di fronte a sé diritti (31), anche se i corrispondenti atti omessi avrebbero trovato interessi legittimi; o pertanto sono soggetti al particolare regime degli atti che operano in materia di diritti.

d) Ritenere che l'attività del commissario ad acta sia puramente e semplicemente attività dell'Amministrazione significherebbe porre una proposizione costituzionalmente illegittima, per violazione del diritto dell'Amministrazione alla propria tutela giurisdizionale. Questa, infatti, non potendo impugnare un atto soggettivamente proprio, resterebbe del tutto indifesa di fronte ad eventuali provvedimenti commissariali che, facendo erronea od arbitraria applicazione dei principi e dei criteri direttivi enunciati nella sentenza da eseguire, incidessero sulla sfera dei pubblici interessi affidati alla cura dell'Amministrazione, e che questa è istituzionalmente tenuta a tutelare.

E' invece ammesso che in caso di violazione o di elusione di giudicato l'Amministrazione possa agire (uso volutamente un termine generico, perché in questi casi il giudizio non ha carattere impugnatorio) avverso i provvedimenti commissariali, cos" come il commissario possa agire avverso i provvedimenti dell'Amministrazione (32); il che è prova della loro reciproca indipendenza soggettiva, non riducibile all'angusto schema del rapporto organico.

e) Sembra difficilmente superabile la considerazione che "opinare che il commissario giudiziale ad actus sia puramente e semplicemente un organo - sia pure straordinario - dell'Amministrazione significa porre una proposizione che non può essere considerata appagante, dal momento che nessun artificio dialettico e nessuna fictio iuris può superare la considerazione che questi è nominato proprio per adottare provvedimenti che l'Amministrazione non vuole adottare, o comunque di fatto non adotta, e che quindi la volontà procedimentale e provvedimentale da lui espressa solo con una metafora superficiale e sostanzialmente erronea può qualificarsi volontà politico-amministrativa dell'Amministrazione sostituita (dato che quest'ultima, se il commissario non fosse stato nominato, con ogni probabilità avrebbe continuato nel suo comportamento inerte). In altre parole, il commissario ad acta è organo dell'amministrazione solo in senso oggettivo; è organo dimidiato (33).

f) Infine, deve ritenersi che il commissario, essendo sottratto a tutti quei controlli e quei bilanciamenti di poteri, interni all'istituzione considerata, che fanno s" che l'attività amministrativa sia indirizzata a risultati coerenti e coordinati, debba agire non in funzione dello specifico pubblico interesse di cui è attributaria detta istituzione, ma in funzione del generalissimo pubblico interesse della giustizia nell'amministrazione, sancito dall'art. 97 della Costituzione.

Non sembra neppure che il commissario possa essere considerato "organo del giudice", secondo un orientamento che risale ad un passo della sentenza n. 75/1977 della Corte Costituzionale (34), nel quale si dice però tutt'altra cosa: e cioè che la nomina (non l'attività) del commissario costituisce esercizio di attività giurisdizionale: il che non è mai stato posto in dubbio. Non sembra che possa essere considerato organo del giudice non solo per la considerazione, che resta sempre valida, della "impossibilità, sul piano sistematico, di configurare praeter legem una sorta di trasferimento di poteri giurisdizionali dal giudice al commissario" (35), con delicati riflessi anche di ordine costituzionale; ma anche per l'assorbente considerazione che il commissario - in realtà - non imputa al giudice un bel niente, in quanto assume in proprio, e sotto la sua personale ed esclusiva responsabilità, tutte le determinazioni del caso.

 

6.- Resta la ipotesi dell'"organo dimidiato".

La locuzione è quella che è; probabilmente non è né del tutto esaustiva né del tutto soddisfacente; e mi rendo conto che possa destare il sospetto di chi forse paventa soluzioni frutto di equilibrismi puramente verbali, e che costituiscano una sorta di compromesso "politico", di "convergenza parallela" tra gli opposti estremismi organo del giudice - organo dell'amministrazione. E' una locuzione alla quale non mi sento legato in modo particolare; e che, per quanto mi riguarda, ben può essere sostituita da un'altra migliore.

Ma la sostanza della realtà giuridica alla quale si allude non mi sembra contestabile.

Ricapitolando per un attimo le più convincenti conclusioni della dottrina e della giurisprudenza si ha che il commissario ad acta:

a) è nominato dal giudice con l'incarico di eseguire o di attuare un giudicato (36), e con conseguente carenza di potestà dei normali organi amministrativi per tutta la durata dell'incarico stesso;

b) non svolge attività giurisdizionale, né pone in essere alcuna forma di diretta imputazione al giudice della sua attività e/o dei risultati da essa conseguiti;

c) non è sottoposto - a ben vedere - ad alcuno specifico potere di direzione e di controllo da parte del giudice. Ciò, in primo luogo, in quanto l'intervento del giudice dell'ottemperanza è meramente eventuale e non necessario; in secondo luogo perché in ogni caso il termine "controllo" sarebbe qui usato in senso del tutto atecnico, dal momento che i concetti di "controllo" e di "giurisdizione" sono tra loro incompatibili. Qualsiasi sentenza è una statuizione in ordine alla fondatezza di una pretesa; ma non è un controllo. E la valutazione dell'inottemperanza non è ontologicamente diversa da qualsiasi altra valutazione rimessa al giudice amministrativo;

d) se si mantiene nei limiti del suo mandato emette atti amministrativi del tutto peculiari, sia perché non modificabili dall'amministrazione, sia perché impugnabili solo dinanzi al giudice dell'ottemperanza; se invece esorbita dal suo mandato emette atti non semplicemente viziati da incompetenza ma radicalmente nulli;

e) pur non svolgendo attività giurisdizionale, svolge però attività neutrale (37), nell'interesse obiettivo della giustizia nell'amministrazione. Di conseguenza non è tenuto a dare valore prioritario a quegli specifici interessi pubblici che sono altrimenti canone di comportamento dell'Amministrazione sostituita;

f) adotta atti che involgono - o involgono anche - diritti soggettivi di chi è parte del giudicato de quo e che sono in tal caso impugnabili (anche da parte dell'Amministrazione sostituita) nel termine di prescrizione e non in quello di decadenza; sicché adotta atti che vanno collocati nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (38);

g) è legittimato - come sopra rilevato - ad attivare il giudice dell'ottemperanza, nel caso di provvedimento dell'Amministrazione elusivi o violativi del giudicato.

Ora se si esamina questo quadro con occhi sgombri da pregiudizi si ha che l'antitesi tradizionale organo dell'Amministrazione - organo del giudice induce un condizionamento ideologico falso e falsante; perché, in realtà, il commissario ad acta non è organo di nessuno, e non c'è nessuna esigenza logica o sistematica per la quale debba essere necessariamente organo di qualcuno. Tutt'al più potrebbe dirsi, sia pure con una metafora imprecisa e descrittiva, che il commissario è organo della sentenza ,dalla quale trae la sua investitura ed i limiti del suo ufficio; ma non già che sia organo del giudice, che ormai con la sottoscrizione della sentenza functus est munere suo. Si giunge così alla conclusione già formulata dalla giurisprudenza, secondo cui "il commissario ad actus si presenta come centro di competenze esterno all'Amministrazione che esprime una volontà che soggettivamente non promana dall'Amministrazione, anche se è ad essa imputabile (sia pure con i limiti sopra indicati)"; ed in questo senso è un "organo dimidiato". Il cerchio si chiude (39).

 

7.- Come ho già detto, la prevalente giurisprudenza riconosce che gli atti commissariali di mera esecuzione del giudicato hanno natura amministrativa, sono impugnabili nel termine di prescrizione (e non di decadenza), involgono - o involgono anche - diritti soggettivi degli amministrati, vanno collocati nell'area della giurisdizione esclusiva.

La conclusione più immediata, quindi, è quella di qualificarli "atti paritetici", che hanno appunto tutte queste caratteristiche.

Anche in questo caso sorge una difficoltà formale, di ordine definitorio. "Atti paritetici" sono - per giurisprudenza e dottrina ormai consolidata (40) - quelli attinenti ad obbligazioni relative al rapporto patrimoniale di servizio, o - più generalmente (41) - che non esprimono il momento autoritativo della potestà di autorganizzazione; mentre quelli del commissario ad acta possono anche essere provvedimenti (ricostruzione di carriera; rilascio di una concessione; rifacimento della graduatoria di un concorso; ecc.) ai quali, se adottati dai normali organi dell'Amministrazione, verrebbe pacificamente riconosciuta natura autoritativa. E allora?

Io riterrei, pur con tutti i dubbi che pone la novità della questione, che anche in questo caso il problema sia di messa a punto della nomenclatura giuridica.

Occorre partire dalla considerazione che il tratto qualificante dell'atto cosiddetto "paritetico" non è quello di intervenire fra parti in posizione di parità, ma quello di disporre in materia di diritti soggettivi, cos" come il tratto qualificante dell'atto autoritativo è quello di disporre in materia di interessi legittimi.

Ora una volta stabilito che dal giudicato sorgono per l'attore vittorioso diritti soggettivi che il giudice dell'ottemperanza è tenuto a soddisfare, direttamente o mediante il commissario ad acta , ne deriva che i provvedimenti di quest'ultimo volti all'esecuzione (in senso stretto (42) del giudicato attengono a diritti soggettivi e vanno quindi qualificati atti "paritetici". E a ben vedere non c'è poi alcuna incongruità, neppure di nomenclatura, nel qualificare paritetici atti commissariali che se adottati da organi normali sarebbero senz'altro autoritativi. 

E' noto infatti che una stessa identica statuizione amministrativa può costituire - tra l'altro - non solo il frutto di una scelta discrezionale ma anche l'adempimento puntuale di un obbligo; con notevolissime differenze per quanto riguarda sia la situazione soggettiva dell'Amministrazione (potestà di diritto pubblico, nel primo caso; obbligo di diritto privato, nel secondo) sia il regime dell'eventuale impugnazione (termine di decadenza, nel primo caso; termine di prescrizione, nel secondo caso) sia la forza costitutiva dell'atto (soggetto alle normali eventualità di abrogazione ad opera dell'Amministrazione, nel primo caso; soggetto a possibilità di modifica solo ad opera del commissario o del giudice dell'ottemperanza, con carenza assoluta di potestà da parte dell'Amministrazione, nel secondo caso). Ora il giudicato ha appunto questa virtù: quella di trasformare un rapporto autoritativo in un rapporto paritetico.

Il che è pienamente comprensibile qualora si consideri che esso sottrae all'Amministrazione qualsiasi discrezionalità non solo in ordine all'obbligo di provvedere, ma anche in ordine alla stessa possibilità di perseguire un interesse diverso da quello dell'attore vittorioso, anche se tale interesse privato sia confliggente con quello pubblico dell'istituzione considerata; e quindi fa venir meno la stessa potestà amministrativa, che si giustifica appunto come funzione discrezionale finalizzata al perseguimento di quel pubblico interesse che costituisce corretto - e normale - canone di comportamento dell'Amministrazione.

Resta, invero, il problema di qualificare - in senso paritetico o autoritativo - quegli atti che costituiscano non esecuzione (in senso stretto) ma ottemperanza (in senso stretto) del giudicato (nt.42); e cioè gli atti volti a riempire quelli che sono stati efficacemente definiti gli "spazi liberi" che residuano dopo il giudicato.

L'unico precedente giurisprudenziale in materia è costituito - a quanto mi risulta - dalla più volte citata sentenza n. 92/1982 del Consiglio di giustizia amministrativa, che ha ritenuto che il cennato dovere di ottemperanza (in senso stretto), essendo "preordinato a realizzare quelle statuizioni della sentenza che postulano - fermo restando il fine indicato, quanto meno genericamente, dal giudice - scelte discrezionali da parte dell'amministrazione....si attua mediante l'adozione di atti autoritativi; e ad esso corrisponde una situazione soggettiva di interesse legittimo".

Personalmente, tenuto anche conto della sempre più diffusa consapevolezza - emersa in quest'ultimo quinquennio - che la stessa credibilità della giustizia amministrativa esige che sia attribuita una maggiore incisività al giudizio di ottemperanza, riterrei che il riferito orientamento giurisprudenziale possa essere superato da un altro più radicale, secondo cui il commissario ad acta, pur se debba riempire "spazi vuoti", non esercita mai poteri "discrezionali" stricto sensu.

Anche qui bisogna intendersi.

Il termine "discrezionalità" è - come è noto - notevolmente inflazionato, ed è usato correntemente con riferimento a tutte le determinazioni non vincolate adottate da una figura soggettiva a rilievo pubblico; adottate, cioè, nell'esercizio di una potestà. In questo senso si parla - ad esempio - di provvedimenti discrezionali del giudice, o di scelte discrezionali del legislatore.

Ma tale accezione corrente non coincide con quella tecnica di "discrezionalità amministrativa". Questa ultima copre un'area molto più ristretta; e sta ad indicare la situazione i cui ad un soggetto della pubblica amministrazione è attribuita la potestà di realizzare l'interesse pubblico che per essa costituisce canone di comportamento (interesse primario) previa ponderazione di tutti gli altri interessi pubblici e privati (interessi secondari) compresenti nella fattispecie, ed in conformità delle risultanze della ponderazione stessa. Ora attesa la centralità di tale momento di ponderazione, il peso degli interessi secondari può risultare tale da indurre l'amministrazione a non realizzare l'interesse primario; cos", ad esempio, la motorizzazione civile può decidere di non istituire una certa autolinea (interesse primario) qualora risulti che essa provocherebbe gravi turbative (interesse secondario pubblico) o gravi sottrazioni di traffico (interesse secondario privato) alla rete di autotrasporti già esistente.

Ma il commissario ad acta non ha una tale latitudine di potestà. Egli deve in ogni caso realizzare l'interesse pubblico primario (esecuzione del giudicato) affidatogli dal giudice, e non può mai tenere conto di eventuali interessi secondari di segno opposto. Di conseguenza gli "spazi vuoti" che incontra nel suo cammino deve colmarli con una scelta che non costituisce il frutto della ponderazione di tutti gli interessi sostanziali (primari e secondari) sottoposti al suo esame, bens" il frutto della determinazione delle sole modalità strumentali necessarie per realizzare, nel modo migliore possibile, l'interesse primario dell'esecuzione del giudicato.

Si pensi, ad esempio, al caso - talvolta ipotizzato - che il commissario scelga di pagare un debito dell'Amministrazione con certi fondi invece che con certi altri. Ora tale scelta non è espressione di discrezionalità amministrativa, in quanto quest'ultima postula la possibilità di determinarsi autonomamente (sia pure in conformità della cennata valutazione comparativa) non solo sul quomodo ma anche, e soprattutto, sull'an e sul quando, sulla base dell'apprezzamento del valore di tutti gli interessi insistenti sulla situazione in ordine alla quale occorre provvedere. Attesto questo suo carattere strumentale e subordinato, rispetto all'interesse primario, l'eventuale scelta operata dal commissario può essere - tutt'al più - considerata frutto di discrezionalità tecnica; ma è noto che quest'ultima, malgrado l'apparente simiglianza terminologica, è irriducibile alla prima.

Ciò stante, se si accetta la premessa che il commissario non svolge in nessun caso potestà discrezionali, deve pervenirsi alla conclusione che egli operi pur sempre in materia di diritti del ricorrente vittorioso (è noto che il carattere generico di un'obbligazione non esclude che nel creditore sussista una posizione di diritto soggettivo) e che pertanto i suoi provvedimenti abbiano sempre natura paritetica. In altre parole, la cosiddetta "discrezionalità" del commissario non è dissimile dalla cosiddetta "discrezionalità" del giudice; ed è in questo senso, e solo in questo, che - a me sembra - i provvedimenti del commissario possono essere qualificati "latamente giurisdizionali", o "paragiurisdizionali", o "subgiurisdizionali" (43).

Per le considerazioni sopra svolte dovrebbe pertanto ritenersi che - sia che si segua il citato orientamento del Consiglio di giustizia amministrativa sia che si segua il più radicale orientamento sopra ipotizzato - la distinzione tra atto autoritativo ed atto paritetico non è ontologica, non attiene al contenuto oggettivo dell'atto, alla materia da esso contemplata; è invece eziologica, attiene cioè alle circostanze giustificatrici dell'atto, e in particolare modo alla situazione giuridica (e quindi alle ragioni) per le quali l'Amministrazione l'ha adottato. 

Con queste precisazioni, e per non abbandonare una terminologia ormai consolidata, penso possa continuare a parlarsi di "atto paritetico" nel senso di atto adottato in materia di diritti soggettivi. Anche in questo caso -come è ovvio - c'è sempre la possibilità di elaborare una definizione più pregnante. Ma le guerre di pura bandiera, che con spirito più o meno gattopardesco puntano tutto sulla suggestione del nomen e sono indifferenti alla sostanza, hanno uno scarso interesse.

 

8.- Riepilogando, l'interpretazione creatrice del Consiglio di giustizia amministrativa in materia di giudizio di ottemperanza ha condotto a questi risultati:

a) ammissibilità del giudizio in ogni caso di violazione (diretta od indiretta, parziale o totale) del giudicato, con conseguente possibilità del giudice di intervenire in ogni caso per spezzare un'eventuale spirale perversa di inottemperanza che altrimenti potrebbe continuare all'infinito;

b) precisazione e semplificazione del regime processuale, nel senso che il giudizio d'ottemperanza non è più ritenuto un giudizio "speciale", come si diceva un tempo, quando con il termine "speciale", si voleva in sostanza contrabbandare una serie di elusioni di fondamentali principi processuali, alcuni dei quali di rilievo costituzionale (come il diritto dei terzi controinteressati ad essere evocati in giudizio). Oggi il giudizio d'ottemperanza è ritenuto un normale caso di giurisdizione esclusiva di merito caratterizzato dal semplice tratto dell'esigenza di una previa diffida ad ottemperare, diffida - oltre tutto - non sempre rigorosamente necessaria (44), con conseguente possibilità (e facilità) di passaggio dal rito cosiddetto "normale" al rito cosiddetto "speciale" e viceversa (45);

c) precisazione del ruolo del commissario ad acta e della natura dei provvedimenti da lui adottati, da ritenere atti paritetici nella misura in cui attengono all'obbligo di esecuzione in senso stretto (ove non voglia accertarsi la ipotesi più radicale che - a titolo personale- ho formulato prima: e cioè che tutti gli atti del commissario ad acta abbiano necessariamente natura paritetica); natura di atti paritetici da cui discendono a cascata una serie di notevoli conseguenze processuali e sostanziali (impugnazione nel termine di prescrizione e non di decadenza; possibilità di disapplicazione; possibilità del risarcimento del danno; ecc.).

Ma c'è anche un quarto risultato, forse ancora più importante.

Prima dell'impennata giurisprudenziale del Consiglio di giustizia Amministrativa il dibattito dottrinario e giurisprudenziale sul giudizio di ottemperanza si stava pericolosamente avviando verso gli iperborei dell'architettura giuridica astratta. Così si discuteva se il giudizio di ottemperanza fosse un processo di esecuzione o di cognizione o misto (46); se fosse un processo volontario o contenzioso; se fosse un vero e proprio processo giurisdizionale o un procedimento amministrativo in forma giurisdizionale; addirittura si discuteva - guardate un pò di che vanno a preoccuparsi i giuristi - se si dovesse dire commissario ad acta o commissario ad actus : questioni tutte prive di utilità pratica ai fini del rendere giustizia (46) e di cui - diciamoci la verità - al cittadino non importava assolutamente nulla.

Ora questa impennata giurisprudenziale ha avuto - secondo me - anche il merito non trascurabile di avere riportato sulla terra il dibattito sul giudizio di ottemperanza; di avere fatto ricordare l'attualità del principio che il diritto è istituito per l'uomo, non l'uomo per il diritto; e che pertanto l'unico problema reale da affrontare è sia quello di conferire il massimo di rapidità ed il massimo di effettività alla sentenza, sia quello di rendere il giudizio di ottemperanza così incisivo e così temibile per gli inottemperanti da farlo - paradossalmente - sparire, di fatto, dalla corrente esperienza giurisprudenziale.

Ricorso che nel convegno di Napoli del 1960 dedicato al giudizio d'ottemperanza M.S. Giannini rilevò che il vero problema consisteva nella necessità di "armare un profeta disarmato che non gradisce le armi" (48). Ora le armi ci sono; non sono ancora l'optimum , ma sono già sufficienti. E quindi ora il vero problema è di volerle e saperle usare; con misura, ma anche con coraggio.

 

9.- I pur notevoli risultati ai quali ho appena accennato possono considerarsi un punto di arrivo definitivo, o è possibile - de iure condendo - fare qualcosa di più?

A questo proposito va ricordato che il campo è stato già arato in profondità; perché il disegno di legge n. 1353 e la proposta di legge n. 1803 recanti la legge delega per la nuova disciplina del processo amministrativo, nel testo unificato approvato dalla prima commissione della Camera dei deputati il 29 maggio 1985, contengono in primo luogo una serie di disposizioni generali che interessano il giudizio di ottemperanza, quali quelle che prevedono:

a) che debbano essere tenuti "presenti gli indirizzi della giurisprudenza" (art. 1, 1);

b) che sia "soppressa la giurisdizione di merito" (art. 1, 2, b);

c) "che la pronuncia del giudice contenga, ove occorra, la affermazione degli obblighi della Pubblica Amministrazione" (art. 1, 5, b);

d) "gia in sede di cognizione, il potere di sostituzione del giudice alla pubblica amministrazione, allorché a questa non siano attribuiti poteri discrezionali in ordine alle modalità ed al tempo dell'adozione dell'atto e del comportamento" (art. 1, 12, b);

e) "il potere del giudice di fissare un termine per il compimento delle ulteriori attività necessarie e la facoltà di nominare, fin da tale momento, un commissario, per la eventualità di inadempimento" (art. 1, 12, c);

f) "che in caso di accoglimento del ricorso nelle materie di giurisdizione esclusiva, e in particolare nella materia di pubblico impiego, il giudice adotti, ove occorra, misure riparatorie idonee ad assicurare la piena tutela dei diritti del ricorrente in conseguenza di eventuali violazioni da parte della Pubblica Amministrazione" (art. 1, 12, f).

Il testo unificato reca poi una serie di specifiche disposizioni per il giudizio di ottemperanza, prevedendo che il giudice possa ordinare (art. 1, 14):

a) "l'adozione in sede amministrativa di altre misure, anche sostitutive, oltre quelle fissate nella sentenza, occorrenti per il ripristino e la reintegrazione della situazione di fatto e di diritto esistente al momento della domanda, esclusa l'ipotesi di accertata impossibilità e con salvezza di ogni altra misura riparatoria";

b) "l'esecuzione in via giurisdizionale della sentenza del giudice amministrativo, nei casi in cui l'esecuzione in via amministrativa sia mancata o sia stata incompleta o inadeguata, conferendo al giudice i necessari poteri" (qui il testo contiene un evidente scoordinamento: "il giudice...... può ordinare....l'esecuzione.....della sentenza del giudice....conferendo al giudice i necessari poteri"; ma andiamo avanti, tanto non è né il primo né l'ultimo scoordinamento) "di intervento ordinario e sostitutivo, da esercitarsi anche in fasi ulteriori fino al completo adempimento da parte dell'Amministrazione secondo le norme che regolano il rapporto controverso e l'interpretazione datane dalla sentenza da eseguire".

E' prevista, infine, l'appellabilità di tutte le sentenze rese nei giudizi d'ottemperanza (art. 1, 15).

Queste previsioni meritano qualche considerazione. Il testo unificato dice cose molto importanti, anche se more solito le dice molto male.

In primo luogo, viene riconosciuto il principio che il giudizio di ottemperanza ha non solo lo scopo di "eseguire" ma anche quello di "attuare" il giudicato, e quindi non deve essere circoscritto nell'area puntuale del giudicato. Si stabilisce poi che il momento a cui occorre fare riferimento è quello della domanda (e non quello della notificazione della sentenza, secondo quanto ritenuto da un molto discutibile orientamento giurisprudenziale), anche se non si capisce a quale domanda si intenda fare riferimento, a quella iniziale, definita col giudicato a ottemperare, o a quella introduttiva del giudicato d'ottemperanza. Bisognerà chiarire che si tratta -ovviamente - della prima. E bisognerà eliminare quell'inciso "esclusa l'ipotesi di accertata impossibilità", che, ove non si intenda espressivo di un concetto di per sé ovvio (e che perciò non richiede un'apposita previsione normativa), potrebbe far rientrare dalla finestra quel concetto di giudicato come optional, al quale alludevo prima, e che si intende cacciare dalla porta.

In secondo luogo, viene riconosciuto il principio che la esecuzione del giudicato deve essere integrale; e che quindi il giudizio di ottemperanza non può essere paralizzato da adempimenti parziali, o elusivi, o direttamente violativi del giudicato. Anche in questo caso il testo unificato è molto zoppicante; "i necessari poteri ....di intervento ordinario e sostitutivo" non sono "conferiti" dal giudice, ma discendono immediatamente dalla legge; non si capisce bene a che cosa conduca un intervento sostitutivo "da esercitarsi anche in fasi ulteriori fino al completo adempimento da parte dell'amministrazione": sembrerebbe ipotizzarsi una sorta di processo di volontaria giurisdizione in cui la sentenza non passa in giudicato e può essere ripetutamente modificata dallo stesso giudice che l'ha emessa (ma questo provocherebbe un gravissimo - ed inutile - stravolgimento dei principi fondamentali del processo amministrativo); è chiaramente errato l'accenno al completo adempimento "da parte dell'amministrazione", perché in caso di intervento sostitutivo l'adempimento è - ovviamente - da parte del giudice o del commissario ad acta.

Comunque, a parte queste imperfezioni testuali (che potranno essere corrette in sede di approvazione definitiva della legge delega), le indicazioni del legislatore sono abbastanza chiare e corrispondono agli indirizzi già espressi dal Consiglio di giustizia amministrativa.

Nel condividerle integralmente io suggerirei solo due precisazioni.

La prima dovrebbe essere che nella locuzione "ogni altra misura riparatoria", cui accenna genericamente il testo unificato, rientra l'azione per il risarcimento del danno subito da chi non ha ottenuto la piena e tempestiva esecuzione della sentenza. La seconda dovrebbe essere che tutti indistintamente i provvedimenti del commissario ad acta vanno impugnati dinanzi al giudice di appello, perché altrimenti potrebbe ritenersi che i provvedimenti di erronea esecuzione della sentenza vadano impugnati dinanzi al giudice di primo grado, mentre i provvedimenti di esatta esecuzione della sentenza vadano impugnati (unitamente a quest'ultima) dinanzi al giudice di appello: con perversa possibilità di biforcazioni e proliferazioni giurisdizionali abnormi che potrebbe imprigionare il giudizio d'ottemperanza in un inestricabile labirinto processuale.

Infine vorrei ricordare che l'indicazione di recepire gli indirizzi giurisprudenziali, espressamente formulata nel testo unificato, è senz'altro da condividere, in quanto tali indirizzi costituiscono il risultato ultimo, il distillato di decenni di continui affinamenti giurisprudenziali; è da condividere, però, con l'avvertenza che questi affinamenti sono stati resi possibili proprio dal fatto che il giudice amministrativo non era chiuso entro maglie procedurali particolarmente strette, e quindi operava con strumenti che poteva duttilmente piegare alle nuove esigenze che via via gli si presentavano. Ora stringere queste maglie potrebbe significare soffocare la funzione pretoria del giudice amministrativo, creare una foresta procedurale pietrificata e quindi inevitabilmente datata, e - quel che è peggio - spegnere quella tensione soggettiva, quell'ansia creativa della giurisprudenza che tanto hanno contribuito all'effettività della giustizia amministrativa. Occorrerà quindi che in sede di redazione del decreto delegato si sappia resistere con coraggio alla tentazione di compiere un'opera aere perennius, definita e conclusa in tutti i suoi particolari, e si sappia invece lasciare clausole generali sufficientemente elastiche per consentire una vita lunga e feconda al nuovo diritto processuale.

 

10.- Vorrei concludere con una considerazione. Ho parlato molto del ruolo di "interpretazione creatrice" della giurisprudenza amministrativa, ruolo che è - in realtà - più di creazione che di interpretazione; perché in buona sostanza spesso si tratta di creare un quadro dentro una cornice vuota. Ora questa attività pone un interrogativo: ma può la giurisprudenza amministrativa, nell'attuale ordinamento, svolgere un ruolo del genere? C'è da domandarselo anche perché si sente parlare sempre più spesso di "supplenza giudiziaria", o, meno benevolmente, di "giudici d'assalto", di giudici che vorrebbero essere "più giusti della giustizia"; o addirittura di "protagonismo giudiziario".

Queste espressioni pongono un problema generale di enorme importanza, perché investe la stessa struttura costituzionale dello Stato, anche se nel giudizio amministrativo è meno avvertito, perché il giudice amministrativo è sempre un giudice collegiale; e quindi da una parte c'è sempre un controllo reciproco sulla decisione, e dall'altra quello che appare all'esterno è sempre il collegio nella sua impersonalità, non il singolo magistrato: il che frena eventuali aspirazioni di protagonismo. Comunque, proprio perché si tratta di un problema generale di enorme importanza, non è possibile esaminarlo in modo serio in poche battute.

Ma una cosa mi sembra certa. Così come il giudice non può sovrapporsi alla legge, attribuendo o negando beni giuridici che l'ordinamento non consente di attribuire o di negare, e non può quindi svolgere quella funzione strategica (di determinazione degli scopi) che l'ordinamento riserva esclusivamente al legislatore, cos" la legge non può impedire al giudice di assicurare l'effettiva tutela di quegli interessi che la legge stessa dichiara meritevoli di protezione; non può cioè impedire al giudice di svolgere la funzione tattica di garantire in concreto il perseguimento degli scopi determinati dal legislatore. Più semplicemente, il vero interesse di chi chiede quella tutela giurisdizionale che è garantita dalla Costituzione non consiste nel conseguire, e a sue spese, un pezzo di carta che in nome del popolo italiano gli dà ragione; ma consiste nell'ottenerla davvero, nei fatti, quella ragione. E quindi il giudice, pur essendo e dovendo essere soggetto alla legge, e pur non potendo e non dovendo modificare il quadro di riferimento degli scopi indicati dall'ordinamento, deve tenere - direi, fino allo spasimo - la corda dell'interpretazione creatrice per assicurari - nei limiti impostigli dalla legge - il possesso di tutti gli strumenti processuali necessari per il reale perseguimento di tali scopi, in virtù del principio di civiltà e di saggezza - che tempo fa mi ricordava il presidente Piroso - "cui iurisdictio data est ea quoque concessa videntur sine quibus iurisdictio explicari non potest"; principio secondo il quale il giudice ha il potere e il dovere di assicurare la giustizia nel caso concreto in modo effettivo; principio il cui venir meno degraderebbe la funzione giurisdizionale ad un rituale sterile e vuoto. E' per questo che mi dà sempre un senso di disagio, e quasi di malessere, sentir parlare di "celebrazione" di processi; e non è un caso che il termine "celebrazione", parola che ha uno sgradevole sentore di crisantemo, non venga mai usato per attività pubbliche altrettanto importanti della giurisdizione, quali la legislazione e l'amministrazione.

Venendo alle conclusioni è doveroso dare atto che il fenomeno dell'inesecuzione del giudicato è - per fortuna - molto limitato. In base alle ultime statistiche disponibili i ricorsi per esecuzione di giudicato sono circa l'1% del totale di quelli proposti complessivamente dinanzi ai giudici amministrativi. Perciò non mi sembra giusto gettare la croce addosso alla Pubblica Amministrazione, secondo un malvezzo diffuso; e questo anche perché - diciamo tutta la verità - non è infrequente che la mancata esecuzione dipenda non da cattiva volontà ma dalla circostanza che, per la oscurità delle norme o dello stesso giudicato da eseguire, l'Amministrazione non sappia letteralmente cosa fare.

Ma, anche se così limitato, il fenomeno è pur sempre pericoloso; perché da una parte esso ha - per sua natura - una particolare risonanza nell'ambiente interessato, in cui proietta l'immagine falsa e diseducativa del giudice visto come una sorta di profeta disarmato al quale si può anche disubbidire, con conseguente caduta verticale della credibilità della giurisdizione e - di riflesso - dell'intero sistema istituzionale; dall'altro rischia di deresponsabilizzare e di demotivare i giudici più pigri, inducendoli a credere meno - e, quindi, a impegnarsi meno - nel loro compito. Queste cose è meglio dirsele molto chiaramente.

Perciò è necessario che, in attesa della prevista riforma del processo amministrativo, ed anche in funzione di questa riforma che - come ho detto - dovrebbe recepire gli indirizzi giurisprudenziali, il giudice amministrativo dedichi il suo impegno professionale, morale e civile alla causa dell'effettività della sua giurisdizione, tenendo presente che la scienza giuridica non è un fiore reciso, non basta possederla: occorre anche fecondarla.

 

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(*) Relazione al Convegno per l’anniversario dell’istituzione del C.G.A., pubblicata in Giur. amm. sic. 1988, II, p. 36 ss.

(1) La presente relazione non intende esaminare tutti gli aspetti della vasta problematica del giudizio di ottemperanza, ma solo quei problemi alla cui soluzione il Consiglio di giustizia amministrativa ha dato un contributo originale. Per di più recente e significativa dottrina in materia v. Atti del convegno di Varenna 1981, su Il giudizio d'ottemperanza, Milano, 1983, nonchè: ANCORA, L'esecuzione del giudicato quale momento essenziale per la giustizia amministrativa, in Cons. Stato, II, 1985, 1429; BRIGNOLA, Sulla natura giuridica del ricorso per violazione del giudicato, in Cons. Stato, 1982, II, 75; CALABRO', Il giudizio di ottemperanza, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, III, 1981, 965, e in Impresa, Ambiente e pubblica amministrazione, 1980, 243; DE ROBERTO, relazione di apertura al convegno di Varenna 1981, cit., e tavola rotonda su Il giudizio d'ottemperanza, Università di Modena, Istituto di applicazione forense, 5 maggio 1985; FRANCARIO, Inerzia ed ottemperanza al giudicato: spunti per una riflessione sull'atto di ottemperanza, in Foro amm., 1985, 746; GARRI, Il giudizio d'ottemperanza, Foro amm., 1984, 265; GIACCHETTI, Un abito nuovo per il giudizio di ottemperanza, Foro amm., 1979, I, 2611; NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo d'ottemperanza, in Riv. trim.dir. proc. civ., 1981, 1157; PIGA, Giudizio di ottemperanza e violazione di giudicato, in Foro amm., 1981, I, 242; ROEHRSSEN, Il giudizio di ottemperanza, attualità e prospettive, conversazione tenuta a Torino il 26 marzo 1979, e L'azione esecutiva nei giudizi contro la Pubblica amministrazione nel diritto italiano, in Cons. Stato, 1978, II, 889; A.M. SANDULLI, Il problema dell'esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo, In dir.soc., 1982, 19; SCOCA, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, 74; SGRO, Luci ed ombre del giudizio d'ottemperanza, in Nuova rass., 1983, 2221; VACIRCA, Riforma della sentenza amministrativa e caducazione dei provvedimenti dipendenti, in Foro amm., 1982, I, 108, e Giudizio di ottemperanza e provvedimenti sopravvenuti, in Foro amm., 1981, I, 379; VIRGA, La tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione, 1982, 424.

Sullo specifico problema del commissario ad acta v. GIACCHETTI, Il commissario ad acta nel giudizio d'ottemperanza: si apre un dibattito, di imminente pubblicazione in Foro amm., che recplica a MAFFEZZONI, Il commissario ad acta organo del giudice dell'ottemperanza, in Foro amm., 1986, II, 296; VACIRCA, L'impugnazione dei provvedimenti adottati dal commissario giudiziale ad acta, in Foro amm., 1982, I, 257 e Riflessioni sulla natura giuridica del commissario giudiziale ad acta, in Foro amm., 1983, I, 379. V.anche FERRO-LUZZI, Figura e attribuzioni del commissario di impresa di assicurazioni in crisi, in Giur.comm. 1985, 587.

(2) RANELLETTI, Sulla esecuzione in via amministrativa delle decisioni del Consiglio di Stato e delle Giunte provinciali amministrative, in Riv.trim.dir.pubbl. 1951, 83.

Il principio che l'Amministrazione ha in ogni caso l'obbligo di ottemperare al giudicato, e non ha alcuna discrezionalità nell'an nè nel quando , potendo avere - tutto al più, e non necessariamente - una limitata discrezionalità nel quomodo, risale in pratica a Cons. Stato, Ad. plen., 9 marzo 1973 n. 1, in Cons. Stato, 1973, I, 351.

(3) PIGA, Giurisdizione generale di legittimità e giudizio d'ottemperanza, cit.

(4) Cons.Stato, IV, 9 marzo 1928 n. 181 e 182, in Riv. dir. pubbl. e pubbl. amm., 1928, II, 217.

(5) Cons.Stato; VI, 27 aprile 1971, n. 345, in Cons. Stato, 1971, I, 878.

(6) Cons.Stato, Ad.plen., 4 novembre 1980, n. 43, in Cons.Stato, 1980, II, 1481.

(7) Cass.SS.UU. 9 marzo 1981 n. 1299, in Cons.Stato, II, 1981, 525.

(8) Cons.Stato; Ad.plen., 30 aprile 1982 n. 12, in Cons.Stato, 1982, I, 413.

(9) cfr. GIACCHETTI, L'oggetto del giudizio amministrativo, in Studi per il Centocinquantenario del Consiglio di Stato, 1981, III, 1483.

(10) A. M. SANDULLI, Il problema dell'esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo, cit.

(11) in Foro amm., 1983, I, 372.

(12) Cons.Stato, Ad.plen. 14 luglio 1978 n. 23, in Foro Amm., 1978, I, 1506.

(13) ARU, A proposito dell'effettività del giudicato amministrativo, in Studi per Centocinquantenario del Consiglio di Stato, 1981, III, 2043.

(14) GIACCHETTI, Un abito nuovo per il giudizio di ottemperanza, cit.

(15) NIGRO, La giustizia amministrativa, 1976, 288.

(16) La prevalente giurisprudenza (v. Cass. Sez. Un. 6 luglio 1983 n. 4572, in Foro it., 1983, I, 1847) è invero su posizioni opposte; ma ciò per la considerazione che la domanda di risarcimento danni continuerebbe ad incidere sulla stessa posizione di interesse legittimo fatta valere in origine. Ora tale considerazione è palesemente erronea nella sua genericità, in quanto ignora lo specifico contenuto della giurisdizione esclusiva. Ogni qualvolta l'inesecuzione del giudicato riguardi un diritto non v'è motivo per escludere il risarcimento del danno (indipendentemente dal fatto che il diritto rientri nella giurisdizione ordinaria o in quella amministrativa). E se l'esecuzione (in senso tecnico) del giudicato è un diritto, la violazione di questo diritto deve essere risarcibile.

(17) BENNATI, Manuale di contabilità di Stato, 1980, 676 ss.

(18) v. GIACCHETTI, Un abito nuovo, cit.

(19) Cons.Giust.Amm. 25 febbraio 1981, n. 1, in Cons.Stato, 1981, I, 188.

(20) v. GIACCHETTI, ult.cit.

(21) Cons.Giust.Amm. 21 dicembre 1982 n. 92, in Foro amm., 1982, I, 372 ss. Cfr. anche nt. 44.

(22) Cons.Stato, Ad.plen., 30 aprile 1982 n.6, cit.

(23) E' sintomatico che nella concettuologia dominante nell'arco di tempo tra l'art. 4 della L. 20 marzo 1865 n. 2248 all. E e l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, periodo in cui l'equilibrio tra amministrazione e giurisdizione era sbilanciato a favore dell'amministrazione, si parli sempre di "divieto di ingerenza" del giudice negli affari dell'amministrazione; e mai di "divieto di ingerenza" dell'amministrazione negli affari della giurisdizione, ingerenza che in pratica si ha quando l'amministratore non dà esecuzione ad un giudicato, in violazione del citato art. 4, e cos" facendo vanifica l'azione giurisdizionale.

(24) FAVARA, Ottemperanza al giudicato e attribuzioni amministrative regionali, in Rass.Avv.Stato, 1977, I, 492; VACIRCA, L'impugnazione dei provvedimenti adottati dal commissario giudiziale ad acta, cit.

(25) CALABRO', Il giudizio di ottemperanza, in Impresa, ambiente e pubblica amministrazione, cit., parla efficacemente di una sorta di "militarizzazione giurisdizionale" del commissario; NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, cit., ritiene che il commissario ad acta "non è un organo amministrativo, ma un ausiliare del giudice, i cui atti, in via di principio si imputano all'ufficio giudiziario nel suo complesso e quindi sono atti non amministrativi ma latamente giurisdizionali" (espressione quest'ultima alquanto oscura); SANDULLI, cit., ritiene che il commissario ad acta è "un sostituto del giudice; e i provvedimenti da lui adottati, pur non assumendo il carattere di atti giurisdizionali, non possono non essere considerati tuttavia paragiurisdizionali o, se si preferisce, subgiurisdizionali" (anche quest'ultima, espressione decisamente oscura). Invero si ha l'impressione che il pensiero dei due ultimi Autori oscilli tra la volontà di tener fermo il postulato commissario ad acta = organo del giudice, e la consapevolezza che, in realtà, tale eguaglianza è impossibile; e quindi siano indotti ad introdurre tali e tante attenuazioni (atti "latamente giurisdizionali", o "paragiurisdizionali", o "subgiurisdizionali") da svuotare di qualsiasi contenuto concreto l'equazione stessa. In giurisprudenza v. Cons. Stato, ad. plen. 14 luglio 1978 n. 23, cit.; Cons.Stato, IV, 24 gennaio 1985, n. 25, In Cons.Stato, 1985, I, 16.

(26) C.G.A., 21 dicembre 1982 n. 92,cit.

(27) M.S. GIANNINI, Corso di diritto amministrativo, I, 1965, 159 e ss.e Organi (teoria generale), in Enc.dir., XXXI, 46. A questo proposito va rilevato che in questa seconda opera, a notevole distanza dalla prima, l'Autore restringe il concetto di organo alla sola imputazione di fattispecie, lasciando nel limbo indistinto delle cosiddette "organizzazioni" improprie la "imputazione" o "appropriazione" di risultati, e precisando che quest'ultima è una nozione non giuridica ma di scienza dell'amministrazione.

(29) M.S. GIANNINI, Corso, cit. 161.

(30) C.G.A., ult. cit.

(31) C.G.A., ult. cit.: Cons. Stato, IV, 26 novembre 1984 n. 664, in Cons. Stato, 1984, I, 1433.

(32) C.G.A., ult. cit.; Tar Toscana, 29 novembre 1984 n. 1452, citata da MAFFEZZONI, cit.,nt. 14.

(33) C.G.A., ult.cit.

(34) Cfr. Corte Cost. 12 maggio 1977 n. 75, in Foro amm. 1979, I, 875.

(35) C.G.A., ult.cit.

(36) Riprendendo le considerazioni svolte da A.M. SANDULLI, cit., il Cons.Reg. sic. 21 dicembre 1982 n. 92, cit., ha ritenuto "che di norma la realizzazione concreta del giudicato amministrativo fa sorgere negli organi (ordinati o straordinari) dell'amministrazione, che devono provvedere alla sua realizzazione concreta, sia obblighi cogenti di comportamento sia (pure se marginali) facoltà di apprezzamenti discrezionali"; tanto che la dottrina parla efficacemente di "giudicato a formazione progressiva", per indicare la eventualità in cui l'originaria statuizione, resa in sede di giurisdizione generale di legittimità, sia successivamente completata in sede di giudizio di ottemperanza.

Di conseguenza il generico obbligo di adempimento previsto dall'art. 27 n.4, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, si articola - in realtà - in due forme logicamente distinte (anche se, in pratica, il regime è unico): e cioè in ub obbligo di "esecuzione" in senso stretto; preordinato a realizzare le statuizioni tassative e puntuali della sentenza, ed in un dovere di "ottemperanza" in senso stretto, preordinato a realizzare quelle statuizioni della sentenza che postulano - fermo restando il fine indicato, quanto meno genericamente, dal giudice - scelte discrezionali da parte dell'amministrazione".

(37) A.M. SANDULLI, Funzioni pubbliche neutrali e giurisdizione, in Riv.dir.proc., 1964, n.2, 200.

(38) C.G.A., ult.cit.

(39) C.G.A., ult.cit.

(40) QUARTULLI, Atti autoritativi e atti paritetici, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, 1981, 1517; v. anche GIACCHETTI, La giurisdizione esclusiva, in Foro amm. 1985, II, 2077.

(41) Cons.Stato, Ad.Plen., 26 ottobre 1979 n. 25, in Cons. Stato, 1979, I, 1294.

(42) V.prec.nt. 21.

(43) V.prec.nt. 10.

(44) Cons. reg. sic., 21 dicembre 1982 n. 92 cit., ha ritenuto che nel caso preso in esame la funzione della messa in mora, prevista dall'art. 90 del regolamento 17 agosto 1907 n. 642, potesse essere ritenuta svolta dalla notifica del ricorso al TAR (non utile ad altri effetti). Più in generale è da ritenere che la preventiva messa in mora non occorra qualora trattisi di adottare provvedimenti che, per disposizione di legge o di sentenza passata in giudicato, avrebbero dovuto essere adottati entro un termine perentorio.

(45) C.G.A., ult.cit., ha ritenuto che una domanda proposta con il rito ordinario sia convertibile, in virtù del principi di conservazione degli atti processuali, in domanda di esecuzione di giudicato. In un caso simmetrico, l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 30 aprile 1982 n. 6, cit., ha ammesso che la domanda proposta nelle forme di giudizio d'ottemperanza possa convertirsi in domanda ordinaria.

(46) NIGRO, Sulla natura giuridica del processo di cui allo art. 27 n.4 della legge sul Consiglio di Stato, in Rass.dir.pubbl. , 1974, p. 72 dell'estratto e Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, cit.; VERDE, Osservazioni sul giudizio di ottemperanza alle sentenze dei giudici amministrativi, in Riv. dir. proc., 1980, 643 ss. L'assoluta mancanza di reale rilievo dei problemi indicati nel testo è esattamente messa in luce da A M. SANDULLI, Il problema dell'esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo, cit., 38 e ss.

(47) SAPORITO, Il commissario ad actus: note in margine ad un recente dibattito, in Cons. Stato, 1981, II, 965. Penso che un punto fermo sulla questione sia stato posto da T. SPAGNUOLO VIGORITA, Commissario ad acta o ad actus? Termini antichi e uso moderno, in Riv.giur. ed., 1982, II, n. 14, che, premesso che l'uso classico legittima sia acta che actus mentre quello tardo antico e giustiniano lo farebbe preferire il secondo termine, richiama - giustamente - l'attenzione dei giuristi su problemi più seri.

(48) M.S. GIANNINI, Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Atti del convegno sull'adempimento del giudicato amministrativo (Napoli, 23-25 aprile 1960), Milano, 1962, 151.

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