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Articoli e note

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Cinzia De Marco
(Dottore di ricerca nell'Università di Palermo)

Il potere disciplinare nel pubblico impiego privatizzato

1.- Premessa.

Tra le conseguenze più importanti della unificazione normativa del lavoro pubblico e del lavoro privato, un posto di indubbio rilievo deve, sicuramente, essere attribuito alla nuova strutturazione della materia disciplinare.

E’ infatti, opinione diffusa che all’origine del potere disciplinare non corrispondesse un’identità di disciplina e di configurazione del fondamento di tale potere nel lavoro pubblico rispetto a quello privato tale ma fare mettere in evidenza che quello in esame è "un istituto per molti versi all’origine ella divisione giuridica tra lavoro pubblico e lavoro privato" (1).

Nel rapporto di pubblico impiego, il potere disciplinare veniva ancorato alla posizione di "supremazia speciale" della P.A. cui corrispondeva una "posizione di "soggezione speciale" del dipendente pubblico (2).

Siffatta costruzione comportava, da un lato, che la P.A., avesse la massima discrezionalità in ordine alla identificazione nel concreto delle condotte suscettibili di sanzione, e, dall’altro, che lo status di dipendente pubblico imponesse un vincolo così ampio da ricomprendere anche gli obblighi incidenti della sfera personale del soggetto.

Le generiche ed indeterminate disposizioni sostanziali del D.P.R. n. 3/57 ed il richiamo, all’interno di esso, a doveri estranei all’ufficio (v. l’art. 13), connessi a concetti etici come l’onore, il prestigio e la fedeltà consentivano alla P.A. "di elevare a dovere qualsiasi condotta pretesa dall’amministrazione" (3).

A fare da contraltare ad una simile vaghezza era predisposta a favore del lavoratore una "farriginosa procedura, talmente preoccupata di garantire adeguata tutela al dipendente da dimenticare che l’efficacia dei provvedimenti disciplinari dipende, in larga misura, dalla rapidità di attuazione" (4).

Sotto il profilo della concreta regolamentazione va, prima di tutto, messa in evidenza la presenza di una normativa pubblicistica notevolmente minuziosa e complessa a partire dai quasi cinquanta articoli del titolo VII dello Statuto degli Impiegati Civili dello Stato.

In questa disciplina, tanto articolata e garantistica è la definizione del procedimento nella sua fase applicativa, quanto indeterminata e discrezionale è la fase precettiva, cioè la designazione delle regole di condotta e delle infrazioni (5).

Un altro dato normativo da tenere presente è l’art. 22 l.q. n. 93/1983 sui "principi in tema di responsabilità, procedure e sanzioni disciplinari", che, riecheggiano lo Statuto dei Lavoratori, dispone che le sanzioni disciplinari, "previste dalla legge" possono applicarsi "solo per fatti che rientrano in Categorie determinate" e, gli ultimi due commi garantiscono al dipendente l’esercizio del diritto di difesa "con l’assistenza, eventualmente, di un’associazione sindacale" e l’irrogazione delle sanzioni più gravi previo parere di un organo consultivo a composizione imparziale.

A fronte di questa regolamentazione puntuale la realtà mostra un alto tasso di disapplicazione della stessa. Tutto ciò ha trovato diverse spiegazioni che in larga misura si risolvono in manifestazioni dell’inefficienza e cattiva organizzazione della pubblica amministra; innanzi tutto nell’impiego pubblico manca "un datore di lavoro", un ufficio, cioè che si faccia portatore dell’interesse pubblico ad ottenere le prestazioni che il dipendente è tenuto a dare; allo stesso tempo chi a diversi livelli coordina il lavoro altrui è convinto che gli interventi autoritativi hanno o possono avere conseguenze più negative che positive e difatti gli studi di teoria organizzativa mettono in evidenza la presenza della c.d. "sindrome del bastone" (cioè i controlli e le minacce appaiono controproducenti) (6), che trae le conseguenze dal "lassismo disciplinare" che solo un’esigua minoranza di illeciti ha conseguenze di tipo disciplinare (7).

2.- Il potere disciplinare dopo la privatizzazione.

L’assetto descritto subisce con il D.lgs. n. 29/93 profonde trasformazioni riguardanti la stessa giustificazione del potere disciplinare.

Punto di partenza sono le disposizioni dell’art. 2, comma 3, in base al quale "i rapporti individuali di lavoro e di impiego (...) sono regolati contrattualmente" e l’art. 4, comma 1° che stabilisce che "nelle materie soggette alla disciplina del codice civile, delle leggi sul lavoro e dei contratti collettivi" le pubbliche amministrazioni "operano con i poteri del privato datore di lavoro".

Come prima osservazione va detto che il senso delle sopracitate disposizioni è quello di escludere le tradizionali qualificazioni dei poteri unilaterali di gestione del rapporto di lavoro pubblico in termini di supremazia speciale della P.A. (8).

Quanto detto non conduce ad una parificazione dei due contraenti, ma riconosce ad una delle parti, una posizione di supremazia soltanto "privata" sui rapporti di lavoro, finalizzata ad una efficiente gestione del personale, nonchè vale ad escludere che gli atti possono essere considerati, dopo la privatizzazione, applicazione di una potestà amministrativa ed inquadrati nell’ambito concettuale del provvedimento amministrativo (9).

la riconduzione al contratto del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione incide in maniera particolare sulla configurazione del potere disciplinare.

La prima conseguenza sul potere suddetto è quella di circoscrivere l’ambito degli obblighi del lavoratore soltanto a quelli che possono farsi discendere dal contratto. Ciò significa che i tradizionali vincoli del dipendente pubblico vanno riveduti alla luce degli artt. 2104 e 2105 cod. civ., con la conseguenza di non potere considerare quali comportamenti estranei alla sfera contrattuale o attinenti alla vita privata del lavoratore possono essere presi in considerazione solo quando siano idonei a ledere il vincolo di fiducia tra le parti secondo l’elaborazione in tema di giusta causa ormai consolidatasi in riferimento al lavoro privato (10).

La riconduzione dell’agire della pubblica amministrazione ai poteri del privato datore di lavoro può far sorgere il problema della c.d. obbligatorietà dell’azione disciplinare; e cioè a dire se di fronte ad una infrazione da parte del dipendente, la pubblica amministrazione abbia un vero e proprio dovere di iniziare l’azione disciplinare, ai fini dell’efficienza dell’organizzazione amministrativa, alla quale è inevitabilmente sotteso un interesse pubblico.

Nel rapporto di lavoro privato vige, al contrario, il diverso principio dell’opportunità che rimette alle scelte manageriali del datore di lavoro le decisioni in ordine alla instaurazione e alla prosecuzione del procedimento disciplinare con i soli limiti derivanti dal divieto di discriminazioni e dal rispetto del principio di parità di trattamento.

A tale proposito la dottrina oscilla tra che conclude genericamente per la discrezionalità dell’azione disciplinare (11), e chi, invece, distingue tre le posizioni del capo dell’ufficio, fornito di ampia discrezionalità e dell’ufficio competente, ai procedimenti disciplinari "tenuto ad avviare la procedura" (12).

Detta opinione prende le mosse dell’art. 59, 4° comma del D.Lgs. n. 29/93 che attribuisce all’ufficio competente ai procedimenti disciplinari su segnalazione del "capo della struttura cui il dipendente lavoro", le competenze in ordine alla contestazione degli addebiti, all’istruzione del procedimento e alla applicazione delle due sanzioni minori, costituite dal rimprovero verbale e dalla censura (art. 59, 4° comma, ultima parte).

In conseguenza di siffatta impostazione si ritiene di poter circoscrivere la discrezionalità del capo dell’ufficio ai casi marginali costituiti da comportamenti in cui sia veramente incerta la rilevanza disciplinare e, quindi, alle infrazioni meno gravi.

A nostro parere, nel pubblico impiego le scelte del capo dell’ufficio in ordine all’esercizio del potere disciplinare sono soggettate alla verifica degli uffici di controllo esterno o interno e, quindi, devono essere obiettivamente "giustificabili"; cosicchè la discrezionalità dell’azione disciplinare nel pubblico impiego non può che ricondursi alla valutazione se "un dato comportamento possa avere o no rilevanza disciplinare, che altrimenti dovrebbe essere segnalato tutto, ogni comportamento buono o cattivo, perchè tutto in astratto potrebbe essere valutato in modo negativo (o positivo)" (13), ma non riguarda, senza dubbio, così come può accadere nel rapporto di lavoro privato, la possibilità di prescindere dall’applicazione della sanzione disciplinare qualora ne sussistano i presupposti costitutivi.

3.- I codici di comportamento.

L’art. 59 D.Lgs. n. 29/93, oltre all’art. 2106 cod. civ., richiama, in quanto applicabili ai dipendenti pubblici, i commi primo, quinto ed ottavo dell’art. 7 Statuto dei Lavoratori, norma della quale era stata, finora, esclusa l’applicazione del pubblico impiego, in ragione dell’esistenza della procedura di cui agli artt. 100 e ss. del T.U. sugli impiegati civili dello Stato.

A tale proposito alcuni problemi sorgono in riferimento all’art. 58 bis del D.Lgs. n. 29/93, introdotto da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri e sentite le Confederazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, di un "codice di comportamento" dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (14).

Com’è noto, l’art. 7 St. Lav. rinvia alla contrattazione collettiva per la definizione delle "norme disciplinari relative alle sanzioni", mentre l’art. 58 bis rimanda alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il potere di definire il codice di comportamento, con il solo obbligo si "sentire" le organizzazioni sindacali.

La contraddizione, tuttavia, è solo apparente e viene superata dalla esatta individuazione della natura giuridica dei due codici.

Ed infatti, il codice di condotta (15) non è un codice disciplinare, ma uno strumento per orientare i comportamenti individuali: ciò è confermato anche dalla circostanza che esso non può prevedere le sanzioni da irrogare in riferimento a determinate condotte.

In conseguenza di ciò, contenuto tipico dei codici di comportamento è la definizione dei doveri di una categoria di soggetti rimanendo meramente eventuale la previsione d illeciti e sanzioni.

Detta ricostruzione trova conferma nello stesso dettato legislativo; e cioè tra l’art. 58 bis (relativo ai codici di comportamento) e l’art. 59 (relativo alla responsabilità disciplinare) vi è una priorità logica.

Il legislatore, prima di demandare la definizione di illeciti e sanzioni disciplinari ai contratti collettivi, fissa esso stesso i doveri di ufficio ed il modo in cui essi vengono individuati.

Ulteriore conferma è che la legge prevede, per il codice di comportamento, la semplice "allegazione" al contratto collettivo.

Una indiretta rilevanza disciplinare al codice di comportamento potrebbe essere attribuita qualora, all’interno del codice disciplinare, la previsione di u’infrazione venisse effettuata in maniera generica, ad es. richiamando i doveri del dipendente. In tal caso il giudice potrebbe servirsi del codice di condotta quale indizio circa le condotte richieste dalla P.A. da ritenersi conosciute dal dipendente, in quanto il codice in parola, oltre ad essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, gli viene consegnato all’atto dell’assunzione.

In definitiva, può essere considerato codice disciplinare ai sensi dell’art. 7 St. lav. solo quello contenuto nel contratto collettivo al quale la legge affida in via esclusiva il compito di prevedere infrazioni e sanzioni; attribuire più ampia efficacia ai codici di condotta significherebbe da un lato il ritorno a principi ormai superati con il D.Lgs. n. 29/93 e dall’altro renderebbe, sostanzialmente, privo di significato il rinvio all’art. 7 St. lav. e all’art. 2106 cod. civ.

NOTE

(1) Zoppoli, Potere disciplinare e unificazione normativa del lavoro, QL, 1991, n. 9, p. 37.

(2) Cfr., tra i primi nella dottrina italiana, Vitta, Il potere disciplinare sugli impiegati pubblici, Milano, 1913; Rasponi, Il potere disciplinare I (natura giuridica e soggetti attivi), Cedam, Padova, 1942.

(3) Cfr. Pellizer, Il potere disciplinare nello stato, in Quad. dir. lav. relaz. ind., 1991 n. 9, p. 141 e ss.

(4) Cfr. Alessi, Il potere disciplinare sul pubblico impiego riformato, in Riv. giur. lav. 1994, I, p. 491.

(5) Le formule usate per indicare le infrazioni per le quali sono comminabili le diverse sanzioni mancano, nella maggior parte dei casi, da specificità; la censura è inflitta "per lievi trasgressioni"; la riduzione dello stipendio può essere disposta "per grave negligenza in servizio", per irregolarità nell’ordine di trattazione degli affari", "per comportamento non conforme al decoro delle funzioni"; la sospensione della qualifica è prevista, in aggiunta ad altre ipotesi nei casi precedenti, "qualora le infrazioni abbiano carattere di particolare gravità; la destituzione viene comminata, fra gli altri, "per atti i quali rilevino mancanze del senso dell’onore e del senso morale", "per grave abuso di autorità di fiducia".

(6) Cfr. Caiden, Che cosa è realmente la cattiva amministrazione del settore pubblico?, probl. AP., 1942 n. 4, p. 645 e ss.

(7) Cfr. Mor, Il potere disciplinare nel pubblico impiego: tendenze recenti, in Quad. dir. lav. e relaz. ind., 1991 n. 9, p. 27-28.

(8) In altri termini, "tutti i poteri di gestione del rapporto di lavoro esercitati dalla pubblica amministrazione altro non costituiscono che un aspetto del diritto di credito che origina dal contratto stipulato al di fuori di quei poteri non ve ne sono altri che possono essere direttamente collegati a una preesistente posizione di supremazia speciale" cfr. Liso, in Carinci, Il lavoro alla dipendenza delle pubbliche amministrazioni, Milano, 1995, I, p. 107.

(9) A tale proposito, dal punto di vista formale, la migliore qualificazione degli atti unilaterali della P.A. (oggi atti di diritto privato) è quella usata dallo stesso art. 4 del D.Lgs. n. 29/93 di "misure" di gestione del rapporto di lavoro pubblico, cfr. Viola, Introduzione minima al diritto disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, in Riv. giur. lav. 1996, n. 3/4, p. 542 e ss., sul punto p. 544.

(10) Cfr. Cass. 29 luglio 1992 n. 9076, in Riv. giur. lav., 1994, II, p. 253 con nota di Punto, Interesse contrattuale, interesse organizzativo e fiducia nel licenziamento disciplinare.

(11) Alessi, op. cit., p. 494, secondo cui questa prospettiva non è considerata un indicatore contrario alla soluzione della discrezionalità dell’azione disciplinare neppure l’art. 29, comma 1° del D.Lgs. n. 29/93 in base al quale "i dirigenti generali sono responsabili del risultato della attività svolta dagli uffici ai quali sono preposti (...) incluse le decisioni organizzative e di gestione del personale" in quanto a parere dell’A. detta norma "non sembra andare al di là di una previsione generica di responsabilità per la gestione complessiva degli uffici".

(12) La seconda soluzione è proposta da Pellicani in Galantino, Il rapporto di lavoro alle dipendente delle pubbliche amministrazioni, Padova, 1994, p. 85.

(13) Cfr. Mainardi, Miscione, in Carinici, Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Milano, 1995, II, p. 1044.

(14) Il Codice di comportamento è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie generale, del 28 giugno 1994.

(15) Sui codici di condotta dei dipendenti pubblici v. Thompson, Paradox of Government Ethics, in Public administration review, maggio/giugno 1992, vol. 52, n. 3, p. 254; Cassese, I codici di condotta, in Doc. Giust., luglio/agosto 1994 n. 7-B, p. 1371; Mattarella, L’etica pubblica e i codici di condotta (riflessioni sul codice di comportamento dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), in Lav. dir., auonomo, 1994, n. 4, p. 525.


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