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n. 7-8/2005 - ©
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LUIGI D’ANGELO*
L’art. 21
octies, comma 2, l. n. 241/1990:
onere probatorio della P.A. ed eccesso di potere controfattuale
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1. Un curioso onere probatorio.
La violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti - se di natura vincolata - nonché l’omessa comunicazione al privato dell’avvio dell’iter procedimentale - nella ipotesi di esercizio (anche) di potere discrezionale - costituiscono circostanze che rendono comunque il provvedimento amministrativo adottato immune da un sindacato giurisdizionale per violazione di legge, ciò qualora la P.A. adita in giudizio renda palese o dimostri che, pur se fosse avvenuto il rispetto delle regole violate, “il contenuto del provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (art. 21 octies, comma 2, l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 15/2005) [1].
La norma in questione non sembra conforme ai principi costituzionali, poiché sotto le “mentite spoglie” della previsione di un onere probatorio totalmente a carico della P.A. evocata in giudizio, funzionale alla salvezza del provvedimento impugnato, si realizza, in realtà, un’inaccettabile compromissione del diritto di difesa del privato, inciso da potere amministrativo illegittimamente esercitato, nonché si grava quest’ultimo di una surrettizia, quanto inutile, probatio diabolica (ci si limita all’analisi dei casi di provvedimenti discrezionali non preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento).
Se infatti la P.A. è chiamata a rendere palese o dimostrare, sempre in sede giudiziale (tramite memorie [2]), che il contenuto del provvedimento discrezionale non sarebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato, tale dimostrazione, a ben riflettere, intanto si renderà necessaria e sarà quindi soppesata dal giudicante, in quanto il ricorrente - lungi dal limitarsi ad eccepire una violazione di legge - riesca nel prospettare un diverso contenuto provvedimentale che avrebbe prodotto il rispetto delle regole procedimentali violate, funzionali all’introduzione di ulteriori elementi fattuali e di diritto nel circuito decisionale pubblico [3].
Detto in altri termini, la P.A. chiamata in giudizio, parametrerà la dimostrazione ex art. 21 octies, comma 2, alle concrete prospettazioni del ricorrente; la parte pubblica, in sostanza, risulterà vittoriosa semplicemente limitandosi a “superare” le eccezioni ed argomentazioni poste a fondamento del ricorso, che, si badi, non riguarderanno soltanto questioni di legittimità dell’atto impugnato, ma investiranno anche questioni di merito, con l’intuibile “buon gioco” della P.A. nel fornire quanto richiestogli ex lege [4].
In tali casi, verosimilmente, il ricorrente non censurerà soltanto la mera illegittimità dell’atto adottato, la violazione della regola procedimentale, ma avrà cura di esplicitare nel ricorso tutti quegli elementi di fatto e diritto che avrebbe fatto valere nel caso di partecipazione procedimentale, al fine di dimostrare che il rispetto delle regole violate (omesso invio dell’avviso di avvio del procedimento) avrebbe prodotto un diverso contenuto provvedimentale, per il medesimo potenzialmente favorevole perché, ad esempio, meno irragionevole rispetto a quello di cui all’atto impugnato [5].
Ma l’aspetto ancor più grave e problematico della nuova disciplina è che l’onere probatorio comunque imposto ex lege alla P.A., si risolve, a ben vedere, in un assoluto privilegio per la parte pubblica.
Se è vero, infatti, che ai sensi dell’art. 2697 c.c., occorre provare i fatti che costituiscono il fondamento della pretesa processuale o dell’eccezione alla medesima, nel caso di specie non sfugge che detti fatti che la P.A. dovrà comprovare - ovvero che l’ipotetico rispetto della regola procedimentale non avrebbe comunque inciso sul contenuto del provvedimento in concreto adottato - sono totalmente rimessi alla volontà realizzatrice della P.A. medesima, alle scelte discrezionali della parte pubblica, scelte, si badi, che vengono effettuate, seppure ipoteticamente, nel processo.
Più nel dettaglio, la pretesa processuale della P.A. ha ad oggetto la conservazione del provvedimento impugnato; il fatto da dimostrare in giudizio a fondamento di tale pretesa non preesiste, ma è costruito (ipoteticamente) nel processo in rapporto alle doglianze del ricorrente.
In sintesi, il “fatto” che la P.A. deve provare in ossequio alla novella normativa del 2005, è rimesso alla propria esclusiva volontà quanto alla relativa verificazione, ed è un fatto che viene “costruito” nel processo, non preesiste al medesimo.
E’ ovvio, allora, che la P.A., a meno di una mancata costituzione in giudizio, riuscirà sempre a fornire detta “prova”, guidata in ciò anche dall’utilizzo di criteri metagiuridici non sindacabili dal G.A. (ma vedi infra).
Riassumendo quanto sopra esposto, allora, si rinviene in primo luogo la sussistenza di un onere probatorio surrettiziamente imposto al privato, nel caso di provvedimenti discrezionali, che appare - se si passa l’espressione - impossibile per indisponibilità dell’oggetto.
Come potrebbe il privato dimostrare che l’avvenuta applicazione della regola procedimentale, con la conseguente acquisizione da parte della PA degli interessi privati, avrebbe condotto l’autorità procedente ad esercitare il potere discrezionale in altra maniera, magari con salvezza dei propri interessi? Il privato, a ben vedere, non può avere contezza di tutti gli elementi ed altri eventuali interessi privati, magari “prevalenti”, che hanno determinato l’amministrazione ad esercitare il potere discrezionale secondo un certo “segno”, realizzando un particolare assetto di interessi previa apposita ponderazione.
In secondo luogo, e più significativamente, non può che rilevarsi il vulnus di tutela per il privato arrecato dal legislatore del 2005, consentendosi alla P.A., convenuta in giudizio, di salvare i provvedimenti discrezionali adottati in assenza dell’avviso di avvio del procedimento, semplicemente ponendo a fondamento della propria pretesa processuale un fatto nuovo ed ipotetico, costruito nel processo dalla stessa parte pubblica, non contestabile dal privato.
Di qui, dunque, la possibilità di una pronunzia di incostituzionalità della disposizione in commento per violazione degli artt. 24 - 113 Cost..
2. L’eccesso di potere controfattuale.
Altro aspetto che emerge da quanto esposto, è che, il giudice amministrativo adito, viene chiamato a scrutinare, non la legittimità dell’atto amministrativo impugnato, bensì le ragioni - esternate ex post in ottemperanza ad un onere probatorio - che hanno indotto la PA ad esercitare il potere secondo un certo criterio (risultato sfavorevole per il cittadino).
Il giudizio controfattuale del giudicante - da svolgersi immaginando come rispettate le regole procedimentali e dunque come acquisite le ragioni del privato - avrebbe ad oggetto, quindi, “l’opportunità” della scelta amministrativa effettuata, il risultato, che, tuttavia, sovente si conforma a valori metagiuridici.
La P.A., infatti, a fronte delle doglianze del privato, dovrà effettuare, ex L. n. 15/2005, una ponderazione degli interessi pubblici da perseguire e degli interessi privati del ricorrente - introdotti, per la prima volta, avanti il giudice - e addivenire alla conclusione che il provvedimento discrezionale adottato, non sarebbe potuto essere diverso da quello impugnato.
Pare, allora, che la comparazione di interessi non effettuata nel procedimento amministrativo, in ragione dell’omessa applicazione delle regole funzionali alla partecipazione dei cittadini, verrebbe in sostanza ad essere esplicitata, seppure a fini ipotetici, nel processo, una volta acquisiti gli interessi privati obliterati nel procedimento.
Ciò porta a varie conseguenze.
Come già accennato, saranno verosimilmente anche regole metagiuridiche che guideranno, in tale fase, la P.A. nelle proprie scelte.
Si potrebbe obiettare che, qualora il ragionamento esplicitato dalla P.A. in giudizio sia comunque irragionevole, contraddittorio, “viziato per eccesso di potere”, il giudicante potrebbe orientarsi all’accoglimento del ricorso.
Il problema, però, è che l’eccesso di potere non atterrebbe all’atto impugnato, viziato per violazione di legge (omessa comunicazione di avvio del procedimento), ma riguarderebbe il ragionamento svolto dalla PA in giudizio, non cristallizzatosi in un provvedimento. Ciò porta ad affermare altresì che l’atto viziato per mancato invio della comunicazione dell’avvio del procedimento, difficilmente potrà essere censurato anche per eccesso di potere: se infatti certi interessi non sono stati acquisiti dalla PA, come potrebbe parlarsi di ingiustizia manifesta, irragionevolezza, etc. in relazione al sacrificio degli (non conosciuti) interessi del ricorrente?
La disposizione in commento, dunque, sembra aver creato dei super-provvedimenti blindati da uno scrutinio giurisdizionale, ciò anche in considerazione della preclusione per il G.A. relativa alla sindacabilità del merito amministrativo
Salvo voler bilanciare l’evidenziato grave squilibrio processuale tra la parte pubblica e quella privata, riconoscendo al G.A., in tali casi, uno scrutinio di più ampia portata.
Se si concorda nel ritenere che l’onere probatorio posto in capo alla P.A. ex lege produce, in realtà, oltre che un privilegio per quest’ultima, anche un aggravamento della posizione del ricorrente - che non potrà più limitarsi a lamentare la violazione di una regola procedimentale, ma dovrà introdurre nel giudizio elementi ulteriori tesi a dimostrare che l’applicazione delle regole violate gli avrebbe garantito, potenzialmente, un risultato favorevole - e che tale aggravamento comprime, fino ad estinguerlo, il diritto di difesa del privato insorto avanti al G.A., una possibile via per “salvare” la disposizione in parola da una pronunzia di incostituzionalità potrebbe essere quella di riconoscere al G.A., in tali casi, uno scrutinio più ampio, da esercitarsi ex officio, ed avente ad oggetto la rilevazione di un eccesso di potere “controfattuale”.
Come sopra sottolineato, il privato sarebbe impossibilitato nel censurare sotto il profilo dell’eccesso di potere, con il ricorso introduttivo, il provvedimento impugnato nonché - poiché cronologicamente successive ed estranee all’atto censurato - le argomentazioni probatorie addotte in giudizio dalla P.A. a fronte dei nuovi elementi di fatto e diritto introdotti dal ricorrente medesimo.
Non pare possibile proporre motivi aggiunti, mancando, nella specie, l’adozione di un ulteriore provvedimento amministrativo.
Parimenti, non appare corretto ritenere il giudicante investito di uno scrutinio esteso al merito della scelta amministrativa, come emersa nel giudizio, pena la violazione del principio di divisione dei poteri.
Ciò che potrebbe ammettersi, tuttavia, è il riconoscimento in capo al G.A. di un potere di sindacato ex officio - sotto il profilo dell’eccesso di potere - delle argomentazioni esternate in giudizio dalla P.A. resistente, parametrate, come sopra evidenziato, agli elementi di fatto e diritto dedotti dal ricorrente per la prima volta in sede processuale.
La dimostrazione che la P.A. deve fornire in giudizio al fine di salvare il provvedimento impugnato, si concretizza, infatti, in una sorta di ipotetica riedizione di un potere discrezionale che tenga conto, questa volta, anche degli interessi materiali del ricorrente obliterati nell’originario procedimento (stante l’omessa comunicazione di avvio).
Seppur a livello ipotetico e per mere finalità probatorie imposte ex lege alla P.A., il processo amministrativo diventa, nei casi di specie, “l’involucro” di un pseudo procedimento amministrativo che, articolatosi nei suoi vari passaggi, anche quelli omessi nella realtà, si concluderà con un provvedimento, anch’esso ipotetico, coincidente con quello oggetto di impugnativa, il quale non è da escludere che possa presentare sintomi di un possibile sviamento di potere.
Se l’onere probatorio che la P.A. è chiamata ad espletare si sostanzia nella riedizione ipotetica di un potere discrezionale, che si cristallizza in un ipotetico provvedimento, ebbene tale provvedimento potrà comunque in astratto presentare le patologie anzidette (eccesso di potere controfattuale).
Il risultato di detto scrutinio giurisdizionale ex officio, porterà, in definitiva, a ritenere assolto o meno l’onere probatorio della parte pubblica, con conseguente rigetto o accoglimento del ricorso.
A tal punto potrebbe essere obiettato che una simile ricostruzione contravverrebbe al principio di cui all’art. 112 c.p.c., applicabile anche al processo amministrativo, con conseguente vizio di ultrapetizione della sentenza; il G.A., in particolare, prenderebbe in considerazione vizi non dedotti dal ricorrente.
Se infatti il provvedimento discrezionale viene impugnato dal privato per la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, dunque per violazione di legge, e non appare altresì suscettibile di essere censurato sotto il profilo dell’eccesso di potere, essendo rimasti fuori dal circuito decisionale che ha portato all’adozione del provvedimento gli interessi materiali del ricorrente - con conseguente impossibilità di rilevare una “irragionevolezza” in relazione al sacrificio degli interessi della parte privata pretermessa - il G.A., rilevando il cennato eccesso di potere controfattuale, supererebbe i limiti segnati dal ricorrente con l’atto introduttivo del giudizio[6].
A ben vedere, tuttavia, la rilevazione di un eccesso di potere controfattuale, è vero che porterebbe all’accoglimento del ricorso con caducazione del provvedimento impugnato, ma tale annullamento giurisdizionale non seguirebbe all’accertamento di un eccesso di potere (per così dire) “riflesso” dell’atto impugnato - cioè, conseguente alla rilevazione ex officio di un eccesso di potere controfattuale - ma seguirebbe al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte della P.A., con conseguente ritenuta fondatezza del vizio di violazione di legge eccepito dal ricorrente.
In breve, l’eccesso di potere controfattuale viene a configurarsi quale sintomo dell’infondatezza della dimostrazione del fatto nuovo addotto dalla P.A., dimostrazione apprezzabile dal G.A. ex art. 116, comma 1, c.p.c., apprezzamento che sarebbe “prudente” poiché effettuato con i solidi criteri delle figure sintomatiche.
Pertanto, attraverso la valvola dell’art. 116, c.p.c., si introduce un potere di sindacato del G.A. sulle scelte discrezionali effettuate dalla P.A., ispirate anche a canoni metagiuridici, nell’ambito di una ipotetica riedizione del potere amministrativo che tenga altresì conto degli interessi del ricorrente pretermessi, il tutto all’interno del processo amministrativo.
Non si tratterebbe, quindi, di riconoscere al G.A. un potere di sindacato ex officio in senso tecnico; si tratterebbe semplicemente di individuare criteri idonei a sorreggere l’apprezzamento del G.A. ex art. 116 c.p.c. ai fini della delibazione delle prove fornite dalla P.A. in giudizio ai sensi della novella del 2005.
Il giudizio controfattuale espletato dal giudicante, con la possibilità di rilevare un eccesso di potere ipotetico, è funzionale allora all’apprezzamento delle prove addotte dalla P.A. a fondamento della relativa pretesa processuale (conservazione del provvedimento impugnato) nonché - per l’effetto - all’accertamento della lamentata violazione di legge (omessa comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale), nel senso di considerala quale mera irregolarità (con salvezza dell’atto impugnato) o vizio di legittimità (con annullamento dell’atto impugnato).
Potrebbe essere ulteriormente obiettato che, accogliendosi quanto sopra prospettato, il giudicato di annullamento conseguente, in definitiva, ad una rilevata violazione di legge, non potrebbe comunque produrre un pregnante effetto conformativo sulla successiva riedizione del potere, potendo dunque la P.A. soccombente, adottare, previa rinnovazione del procedimento, un nuovo provvedimento comunque sfavorevole per il privato vittorioso in giudizio.
Se ciò può essere condiviso, non può tuttavia sottacersi la circostanza che difficilmente la P.A., una volta rinnovato il procedimento - garantendo, questa volta, anche la partecipazione del privato in origine pretermesso - adotterà una decisione sfavorevole ispirata a quei criteri già “perdenti” nel pregresso giudizio ed esaminati sotto il profilo dell’eccesso di potere controfattuale (criteri, tra l’altro, che in ogni caso dovrebbero evincersi dalla motivazione della sentenza nella parte in cui gli stessi saranno esaminati per giustificare il mancato accoglimento delle argomentazioni probatorie della P.A.).
Di qui, allora, comunque, un ampliamento delle garanzie per il privato, che tramite memorie potrà compulsare il G.A. ai fini di quel prudente apprezzamento ex art. 116 c.p.c delle prove addotte dalla parte pubblica.
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(*) Avvocato.
[1] Interpreta quale onere probatorio in capo alla PA, con riferimento agli atti vincolati, il rendere “palese” che il contenuto dispositivo dell’atto non sarebbe potuto essere diverso da quello impugnato, TAR Abruzzo, Pescara, 13 giugno 2005,n. 394.
[2] Cfr. TAR Basilicata, 30 maggio 2005, n. 461; TAR Liguria, sez. II, 27 maggio 2005, n. 510.
[3] Si pongono in tale ottica, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 11 luglio 2005, n. 15505; TAR Emilia-Romagna, Parma, 25 maggio 2005, n. 293, dove si afferma che “l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento non vizia l’atto conclusivo quando la partecipazione dell’interessato non avrebbe potuto, comunque, apportare elementi di valutazione idonei ad incidere, in termini a lui più favorevoli, sul provvedimento finale (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 22 giugno 2004 n. 4445). Si tratta di principi che peraltro risultano ora codificati dall’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 (nel testo aggiunto dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15), sicché la circostanza che gli interessati non abbiano fornito alcun elemento tale da giustificare un possibile diverso esito del procedimento (e che pertanto alcun utile apporto partecipativo sarebbero stati in grado di garantire in caso di avviso) priva di qualsiasi rilievo l’inosservanza della relativa formalità”.
[4] Si pone in un’ottica diversa, TAR Sardegna, sez. II, 10 giugno 2005, n. 1386, secondo cui “…la prova che l’amministrazione è tenuta ad esibire deve essere tale da introdurre nel giudizio elementi di fatto, prevalentemente di natura tecnica ed oggettivamente verificabili, idonei a dimostrare in concreto che in nessun altro modo non lesivo per la posizione del ricorrente si sarebbe potuto raggiungere lo scopo. Deve in altri termini risultare provato che, secondo i canoni della logicità e congruità, l’amministrazione ha comunque operato, nel corso del procedimento, una corretta comparazione e sintesi degli interessi coinvolti, alla luce dei tratti mutevoli della realtà, in modo che risulti evidente che il provvedimento, anche se divergente dal diritto positivo, è rispettoso dell’assetto degli interessi che le norme impongono, in misura tale da rendere superfluo il riesame in quanto ogni ulteriore elemento conoscitivo che l’interessato avrebbe potuto evidenziare non avrebbe scongiurato la lesione lamentata, proprio per l’oggettiva impossibilità di un contenuto diverso.Tale fase del procedimento giurisdizionale, avendo il fine di conciliare il criterio dell’efficienza amministrativa (art.3-bis della 241/90) con quello della garanzia, impone inoltre che al privato sia data la possibilità di controdedurre a sua volta sugli elementi di prova esibiti, in modo da assicurare in giudizio quella tutela che consenta di ritenere sanato il vizio originario”.
[5] In tale prospettiva, TAR Sardegna, sez. II, 18 aprile 2005, n. 777, dove si fa riferimento alla mancata considerazione “delle soluzioni difformi prospettate dal privato, non prive di ragionevolezza, mai concretamente esaminate dall’amministrazione comunale”.
[6] Va tuttavia segnalato che certa giurisprudenza considera l’omessa comunicazione di avvio del procedimento una figura sintomo di eccesso di potere (TAR Lazio, sez. II, 4 giugno 2002, n. 5171, in Foro amm. 2002, 2085); pertanto, qualora il ricorrente censuri anche per eccesso di potere il provvedimento finale adottato a conclusione di un procedimento cui egli non ha partecipato, per omessa comunicazione dell’avvio, non si dovrebbero porre problemi relativamente alla violazione dell’art. 112 c.p.c. nel caso di rilevazione, da parte del G.A., di un eccesso di potere controfattuale.