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n. 10/2005 - ©
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FILIPPO COLAPINTO*
L’accesso del Consigliere comunale agli atti e ai documenti di una società partecipata dal Comune: probabili scenari di una questione non ancora risolta
(commento a Cons. Stato, Sez. V, sent. 9 dicembre 2004, n. 7900)
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1. La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 9 dicembre 2004, n. 7900.
La decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 9 dicembre 2004, n. 7900 (in questa Rivista, n. 12/2004, pag. http://www.lexitalia.it/p/2004/cds5_2004-12-09.htm), si segnala per aggiungere un ulteriore tassello al mosaico riguardante l’esatta ampiezza del diritto dei consiglieri comunali all’ostensione degli atti formati, o comunque detenuti, dall’amministrazione presso cui sono stati eletti, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti.
Tema di una certa attualità se si considera che, dall’analisi della casistica giudiziaria, soprattutto recente, emerge un certo grado di "insofferenza" [1] dell’organo esecutivo comunale (e, in particolar modo, del sindaco), a consentire una completa e trasparente visione del proprio operato da parte dei titolari della funzione di indirizzo e controllo politico [2].
Tale intolleranza è, di fatto, testimoniata dal nutrito contenzioso pendente in subiecta materia innanzi ai giudici amministrativi, peraltro pressocchè totalmente orientati a favorire l’accoglimento dell’actio ad exhibendum di matrice consiliare.
Ha osservato, in particolare, il Consiglio di Stato, che il diritto previsto dalla citata disposizione è direttamente funzionale non tanto ad un interesse personale del consigliere comunale o provinciale, quanto alla cura di un interesse pubblico connesso al mandato conferito e, quindi, alla funzione di rappresentanza della collettività.
Il diritto ha una ratio diversa, quindi, da quella che contraddistingue l'ulteriore diritto di accesso ai documenti amministrativi [3] che è riconosciuto, non solo ai consiglieri comunali o provinciali, ma a tutti i cittadini (art. 7, legge n. 142/1990 applicabile agli atti degli enti locali) come pure, in termini più generali, a chiunque sia portatore di un interesse personale e concreto e per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, in riferimento ai documenti amministrativi detenuti da amministrazioni diverse dai comuni e dalle province (art. 22 legge 7 agosto 1990, n. 241, come di recente modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n.15; art. 2 D.P.R. 27 giugno 1992, n. 352).
Invero, la finalizzazione dell'accesso all'espletamento del mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l'accesso ed il fattore che ne delimita la portata. Le disposizioni richiamate, infatti, collegano l'accesso a tutto ciò che può essere effettivamente funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere comunale e provinciale e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa dell'ente [4].
Ha osservato, in particolare, la Sez. V del Consiglio di Stato, con la sentenza in rassegna, che la natura di società di capitale non preclude l’esercizio del diritto di accesso da parte del consigliere comunale, atteso che la proprietà della medesima è imputabile al Comune; dalla partecipazione pubblica discende l’esercizio di attività certamente rientranti nella più generale attività dell’ente locale, che giustifica e legittima quindi la richiesta documentazione.
La tesi opposta, infatti, porterebbe all’assurda conclusione che basterebbe mutare forma di gestione del servizio per sottrarre l’esercizio dello stesso servizio al controllo consiliare.
Dai principi comunitari e dalle scelte del legislatore nazionale, infatti, discende che ai fini dell’identificazione della natura pubblica di un soggetto la forma societaria ha carattere neutro; ne consegue che, in caso di spa a partecipazione pubblica totale (come nel caso in esame) o maggioritaria, siamo al cospetto della articolazione organizzativa di un ente pubblico, senza che il perseguimento di uno scopo pubblico possa essere contraddetto dal fine societario lucrativo.
Ai fini della individuazione della natura pubblica di un soggetto, essendo la forma societaria neutra ed il perseguimento di uno scopo pubblico non in contraddizione con il fine societario lucrativo, deve ritenersi che la A.M.E.T. S.p.A., in quanto società di diritto privato interamente posseduta dal Comune di Trani, abbia natura pubblica, continui ad agire per il conseguimento di finalità pubblicistiche e che il comune, nella sua veste di azionista di maggioranza o totalitario, non possa che indirizzare le attività societarie a fini di interesse pubblico generale anche al di là e prescindendo dal mero intento lucrativo.
Dottrina e giurisprudenza, dopo un iniziale contrasto tra i fautori della tesi privatistica (cfr., tra tutte, Cass., sez. un., 4989/95) e quelli della tesi pubblicistica (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 498/95), si sono orientate nel senso di escludere che la semplice veste formale di società per azioni sia idonea a trasformare la natura pubblicistica di soggetti che, in mano al controllo maggioritario dell’azionista pubblico, continuano ad essere affidatari di rilevanti interessi pubblici [5].
È noto che la disciplina comunitaria non aderisce ad una nozione formale di ente pubblico, ma accoglie un concetto sostanziale di organismo di diritto pubblico.
Come già rilevato dalla stessa V Sezione del Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 1478/98), “ai fini dell’identificazione della natura pubblica di un soggetto la forma societaria è neutra e la quasi integrale pertinenza a referenti pubblici del pacchetto azionario dimostra che si è al cospetto di uno strumento alternativo alle forme tradizionali di intervento e consente di ritenere che anche le società per azioni si possano presentare come un’articolazione organizzativa dell’ente o degli enti di riferimento”.
Né il perseguimento di uno scopo pubblico è in contraddizione con il fine societario lucrativo, descritto dall’art. 2247 c.c., dal momento che la presenza di un utile di esercizio è del tutto compatibile con la gestione di servizi pubblici[6].
È quindi evidente, per quanto qui interessa, che la natura pubblica della A.M.E.T. S.p.A. deriva, soprattutto, dal dato sostanziale, da una società per azioni, che è caratterizzata, sotto il profilo strutturale, da una partecipazione pubblica totalitaria, e pertanto di per sé rilevante ai fini per cui è causa, e, sul piano funzionale, dal fine della gestione di un servizio pubblico.
Inoltre, la nozione di
impresa pubblica si riscontra nella direttiva della Commissione europea n.
80/723/CEE del 25 giugno 1980[7]
sulla trasparenza delle relazioni finanziarie fra gli Stati membri e le loro
imprese pubbliche[8]:
l’art. 2 di tale direttiva stabilisce che per impresa pubblica si intende ogni
impresa nei cui confronti i poteri pubblici possono esercitare, direttamente o
indirettamente, un’influenza dominante[9]
e che per poteri pubblici si devono intendere lo Stato e gli altri enti
territoriali[10].
Pertanto elemento caratterizzante della nozione di impresa pubblica di
derivazione comunitaria è l’influenza dominante dei pubblici poteri[11];
invece si prescinde dalla natura giuridica, pubblica o privata, dell’ente[12].
Anche nella giurisprudenza nazionale sembra ormai essersi affermata una siffatta nozione di impresa pubblica. Infatti in una recente pronuncia il Consiglio di Stato ha affermato che l’ammissione della quotazione in borsa non cancella la qualità di impresa pubblica, dal momento che la nozione di impresa pubblica si fonda su requisiti di carattere sostanziale, come la detenzione della maggioranza del capitale societario da parte dell’ente o degli enti pubblici: ciò che conta è l’influenza dominante esercitata dai pubblici poteri sulla società[13].
2. La vicenda.
Il ricorrente, in qualità di consigliere comunale per la lista “Forza Trani”, con nota del 28.7.2003, ha presentato all’A.M.E.T., ex azienda speciale del Comune di Trani preposta all’erogazione dei serivizi pubblici di trasporto e di distribuzione di energia elettrica, un’istanza di accesso ai seguenti documenti:
- atto di acquisto del ramo d’azienda Enel Distribuzione del 31.1.2003;
- atto di acquisto dell’immobile di via Imbriani dalla Dalmazia Trieste s.p.a. del 31.1.2003.
L’A.M.E.T., con nota del 30.7.2003, ha negato l’accesso alla documentazione , in quanto “… trattandosi di documentazione inerente l’espletamento del mandato di Consigliere Comunale, … ogni decisione in ordine all’istanza è di competenza del Comune”.
Il ricorrente ha quindi reiterato l’istanza di accesso, con nota dell’8/8/2003, specificando la documentazione richiesta.
A seguito di quanto sopra il Consiglio di Amministrazione dell’A.M.E.T., nella seduta del 5/9/2003, ha preso atto del diniego di accesso espresso dal Presidente, condividendone le ragioni, sia per essere l’A.M.E.T. una s.p.a. e non più una azienda speciale del Comune (ora semplice azionista), sia per ragioni di tutela della concorrenza.
Con la sentenza n. 120 del 19 gennaio 2004, il TAR Puglia – Bari – Sez. II, ha respinto il ricorso del consigliere, dichiarandolo inammissibile.
Il collegio barese, infatti, ha ritenuto entrambe le istanze d’accesso sfornite di qualsivoglia motivazione in ordine all’interesse e alle ragioni sostenenti l’istanza, necessariamente esplicitate per consentire all’Amministrazione una loro adeguata valutazione.
Al suddetto onere di motivazione e di esternazione delle predette ragioni, non potrebbe ritenersi sottratto il ricorrente in ragione della sua qualità di consigliere comunale, né tale onere potrebbe ritenersi assolto dal generico riferimento ad un presunto e meramente asserito collegamento dell’accesso con l’espletamento del mandato consiliare.
Secondo il TAR Puglia, altresì, le prefate considerazioni acquisterebbero maggiore rigore in relazione alla circostanza dell’essere l’A.M.E.T. costituita in forma di società di capitali a seguito di trasformazione da azienda municipalizzata.
3. La natura e la tipologia degli atti a cui i consiglieri comunali hanno diritto di accesso e la questione relativa alla necessità di motivare la stessa istanza di accesso.
In generale, è a dirsi come la prerogativa che ne occupa sia disciplinata dall’art. 43 comma 2 del d. lgs. n. 267 del 18 agosto 2000 (di seguito T.U.E.L.), secondo cui “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge".
La disposizione in esame rende qualche perplessità nell’utilizzo, da parte del legislatore, del termine “aziende”.
Tale espressione, corroborata anche dalle diverse decisioni del Consiglio di Stato in materia, va, senza dubbio, interpretata nel senso di attribuire al consigliere comunale il diritto di ottenere tutte le informazioni, utili all’espletamento del loro mandato, anche dalle società partecipate dallo stesso comune o dagli enti dipendenti.
L’attività di interpretazione racchiude quella operazione intellettuale mediante la quale si perviene a chiarire quale significato debba attribuirsi alle frasi e parole con le quali la norma è espressa (cioè alla disposizione) nella prospettiva della sua applicazione in concreto: nel caso dell’art. 43 comma 2 del d. lgs. 267 del 2000, attraverso un’attività di interpretazione “estensiva” della norma, si giunge alla conclusione che la parola usata nelle legge ha un significato troppo ristretto rispetto all’intenzione del legislatore.
L’ordinamento definisce l’azienda, infatti, come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per lo svolgimento della sua attività economica (art. 2555 c.c.); è lo strumento per lo svolgimento dell’attività economica organizzata al fine della produzione e lo scambio di beni e servizi, cui l’art. 2082 c.c. connette la qualifica d’imprenditore.
Diverso risulta, il caso in cui la norma giuridica non disciplini ogni possibile caso o eventualità; talvolta sorgono questioni che non trovano soluzione nella norma dell’ordinamento – si tratta delle c.d. “lacune” –, tuttavia, l’interprete deve sempre trovare nell’ordinamento i criteri della sua decisione.
Il problema, in tali circostanze, si risolverebbe mediante il ricorso all’analogia (art. 12 comma 2 delle preleggi): il caso non è esplicitamente previsto, ma può darsi che ci siano norme che riguardano casi che sono strutturalmente simili a quello che deve essere risolto; quindi, dall’interpretazione analogica della norma riguardante il caso simile, si ricava un criterio che viene poi applicato al caso in esame.
La formulazione letterale dell’articolo evidenzia, altresì, almeno tre peculiarità rispetto al diritto di accesso genericamente inteso, siccome regolato dagli artt. 22 e ss. della legge sulla trasparenza amministrativa (legge n. 241/1990 come modificata dalla legge 15/2005), nel cui novero pure si inquadra la potestà in questione.
Oggetto dell’accesso sono non solo i documenti amministrativi perfettamente formati o detenuti dall’amministrazione, nell’accezione adoperata dal comma 1 lett. d) della mentovata norma (…è considerato documento amministrativo ogni rappresentazione…del contenuto di atti, anche interni … detenuti da una Pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale"), sebbene anche le mere notizie ed informazioni che risultino utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo.
La precisazione è importante perché permette di ampliare, in favore del consigliere comunale, i tradizionali limiti di accessibilità agli atti della Pubblica Amministrazione da parte dei singoli cittadini, individuati – per un verso - nella non ostensibilità degli atti infraprocedimentali preordinati all’emanazione di provvedimenti normativi (es., regolamenti comunali), amministrativi generali (es., bandi di gara), nonché pianificatori, programmatori e tributari (ad esempio, P.R.G., ovvero delibera giuntale di aumento dell’aliquota I.C.I.), secondo quanto disposto dall’art. 24 della legge 241/1990 come da ultimo modificata dalla legge n. 15 dell’11 febbraio 2005[14].
Altro ostacolo all’accesso, intrinsecamente ricollegabile alla veduta nozione di documento amministrativo - ma che non parrebbe tangere i componenti l’organo consiliare, alla luce di quanto testè chiarito – è quello relativo a dati e/o notizie non già consacrati in atti preesistenti e sufficientemente individuati, bensì afferenti allo stato di un procedimento o sul nome del relativo responsabile, ovvero finalizzati a promuovere la formazione di nuovi documenti contenenti le informazioni richieste [15].
Secondo quanto chiarito dai giudici di Palazzo Spada, infatti, dal contenuto dell’art. 43 comma 2 del T.U.E.L., si ricava agevolmente che i consiglieri comunali hanno diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento del loro mandato, senza alcuna limitazione, risultando bastevole, al riguardo, far riferimento, nella richiesta, a tale giustificazione per ritenersi quest’ultima congruamente motivata, sì da non poter essere disattesa dall’amministrazione.
I consiglieri comunali, in tal modo, possono valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato del comune, nonché, per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
E ciò in ragione della divisata valenza ampliativa (e non già limitante) del termine "utili" contenuto nella norma in oggetto [16].
Il diritto di accesso del consigliere comunale, quindi, non riguarda soltanto le competenze attribuite al consiglio comunale ma, essendo riferito all’espletamento del mandato, investe l’esercizio del munus in tutte le sue potenziali implicazioni per consentire la valutazione della correttezza ed efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale[17].
Nella sentenza in epigrafe richiamata, viene statuito che “la finalizzazione dell'accesso all'espletamento del mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l'accesso ed il fattore che ne delimita la portata. Le disposizioni richiamate, infatti, collegano l'accesso a tutto ciò che può essere effettivamente funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere comunale e provinciale e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa dell' ente [18]”.
Il surriferito diritto consiliare, rispetto al diritto di accesso di cui alla legge n. 241/1990, si differenzia, quindi, nella facoltà del consigliere comunale di visionare tutti gli atti dell’amministrazione, a prescindere dalla dimostrazione di un concreto e personale interesse relativo alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti - come diversamente imposto, in via generale, dagli artt. 22 legge cit., nonché artt. 2 e 4 D.P.R. 352/1992 (recante il regolamento di attuazione del diritto di accesso) - risultando sufficiente allo scopo la mera connessione dell’atto da esibirsi con le funzioni attinenti alla carica ricoperta.
A differenza dei soggetti privati, infatti, il consigliere non è tenuto a motivare la richiesta né l'ente ha titolo per sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e l'esercizio del mandato, altrimenti gli organi dell'amministrazione sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'ambito del controllo sul proprio operato[19].
Dalla lettura di tale pronuncia si ricava che i consiglieri comunali, pur non avendo l’obbligo di motivare le richieste di accesso agli atti, non devono formulare richieste generiche ed indiscriminate” o “meramente emulative” in quanto riferite ad atti chiaramente e palesemente inutili ai fini dell’espletamento del mandato e “idonee a determinare intralcio e/o disservizi agli uffici nonché costi elevati e ingiustificati per l’ente”.
Pertanto secondo la recente giurisprudenza al consigliere comunale spetta un’ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione ratione officii rispetto alla quale non sono opponibili profili di riservatezza, a condizione che i documenti e le informazioni richieste siano pertinenti all’esercizio del mandato istituzionale, fermi restando gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali secondo la vigente normativa sulla privacy.
Il consigliere comunale ha il diritto di accedere agli atti anche istruttori, in quanto è nella stessa natura del consigliere comunale controllare ogni atto. Il controllo, chiaramente non può mai avere fini personali, bensì deve essere legato all’esercizio del proprio mandato.
Il diritto in questione si riferisce alla funzione pubblica di cui il consigliere è portatore e non ad un interesse individuale e privato, tant’è che non sussiste l’obbligo di motivare la richiesta di accesso agli atti, né l’interesse alla stessa come un privato cittadino.
Il riconoscimento della speciale protezione della posizione del consigliere comunale è riconosciuta anche dal giudice penale e dalla magistratura contabile. Il diritto del consigliere comunale di ottenere dal comune tutte le notizie e le informazioni, in possesso dell’ente ed utili all’espletamento del proprio mandato, trova come corrispondente il dovere dell’ente territoriale di porre in essere le condizioni perché venga concretamente esercitato, senza incontrare ostacoli o atteggiamenti ostruzionistici, sicchè un eventuale rifiuto motivato in modo apparentemente legittimo, ma, in sostanza, specioso o pretestuoso, non può che risolversi in illegittima manifestazione dell’attività amministrativa (fattispecie nella quale è stato impedito ad un consigliere comunale di prendere visione degli atti di giunta, Cass. Pen., sez. VI, 7 marzo 1997, n.4952).
L’illegittimo diniego di accesso opposto al consigliere integra, dato il chiaro ed inequivocabile disposto normativo in materia, un comportamento caratterizzato da colpa grave; sussiste, pertanto, responsabilità amministrativa qualora dal predetto diniego sia derivata la condanna dell’ente al pagamento delle relative spese di giudizio (C.Conti, regione Umbria, sez. Giurisdizionale, 5 giugno 1997, n.284).
Dal contenuto dello stesso art. 43 comma 2 del T.U.E.L., consegue che una richiesta di accesso avanzata da un consigliere comunale a motivo dell’espletamento del proprio mandato risulta congruamente motivata è non può essere disattesa dall’Amministrazione.
Poiché la surriportata norma attribuisce il diritto ai consiglieri comunali di chiedere i documenti ravvisati utili al mandato, la precisazione che la richiesta di accesso è avanzata per il suddetto mandato basta a qualificarla, senza che occorra alcuna ulteriore precisazione circa le specifiche ragioni della richiesta.
La sentenza del giudice di prime cure, quindi, è risultata erronea nella parte in cui ha ritenuto l’istanza del 28-29 luglio 2003 (e la successiva nota dell’8 agosto 2003) sfornita di qualsivoglia motivazione in ordine all’interesse e alle ragioni che devono supportare la richiesta di accesso, quanto nella parte in cui ha ritenuto tale motivazione funzionale all’esigenza di consentire alla società una adeguata valutazione delle ragioni e dell’interesse all’accesso (motivazione e valutazione che risultano estranee, per consolidata giurisprudenza alla fattispecie in esame, essendo, piuttosto, tipiche del diverso istituto scolpito dall’art. 25 della legge 241/1990).
4. La difficile mediazione tra interesse alla trasparenza dell’attività amministrativa e diritto dei singoli alla riservatezza.
Sotto altro aspetto, all’amministrazione è richiesta una difficile opera di mediazione tra interesse alla trasparenza dell’attività amministrativa e diritto dei singoli a non subire intrusioni nella sfera della privacy, diritto che ha trovato, inizialmente, specifica disciplina e tutela nella legge 675 del 1996 e succ. mod. ed int., poi confluita nel T.U. di cui al d. lgs. 196/2003, e, con specifico riferimento al trattamento dei dati sensibili da parte dei soggetti pubblici, dal d. lgs. 11 maggio 1999, n. 135.
Come si è già accennato in precedenza, invero, le Pubbliche Amministrazioni (tra cui i comuni) hanno l’obbligo di indicare, con apposito regolamento, le categorie di atti sottratti all’accesso per la tutela dell’interesse (tra l’altro) della riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, con la sola esclusione della mera ostensione, peraltro senza estrazione di copia, degli atti la cui conoscenza sia indispensabile per ragioni sostanzialmente di giustizia.
A sua volta, l’art. 8 comma 4 lett. d) D.P.R. 352/1992 conferisce più tangibile contenuto a tale esigenza, individuandola negli aspetti riconnessi al "la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono".
Al riguardo, è noto il dibattito insorto, anche recentemente, sia in dottrina che in giurisprudenza in ordine al rapporto intercorrente tra il diritto alla privacy (soprattutto per quanto concerne i dati c.d. "sensibili", protetti dal T.U. n. 196/2003) e quello all’esibizione degli atti amministrativi che tali informazione contengano. Problema – peraltro - di non facile soluzione, essendo tali diritti diretta manifestazione (ovvero il logico corollario), di interessi aventi pari rango costituzionale.
Non è chi non veda, infatti, come il diritto alla riservatezza sia annoverabile tra quelli c.d. "personalissimi" che trovano la loro fonte primaria nell’art. 2 Cost., laddove il diritto d’accesso ai documenti della p.a. rappresenta la più immanente espressione del principio di trasparenza dell’azione amministrativa (intesa quale immediata controllabilità dell’operato dei pubblici poteri, mediante partecipazione democratica ai processi decisionali loro intestati), preordinata, per un verso, a garantire il buon andamento e l’imparzialità dell’attività stessa (art. 97 Cost.) e, per un altro, nella fase patologica, ad assicurare l’adeguata difesa in giudizio dei diritti e degli interessi dei cittadini lesi dal suo cattivo governo (art. 24 Cost.).
Orbene, tale problematica – risolta variamente nel senso, talora, di prevalenza dell’esigenze di riservatezza rispetto a quella di tutela in sede giudiziaria, soprattutto per quanto concerne informazioni attinenti allo stato di salute di un individuo, stante il disposto dell’art. 60 d. lgs 196/2003[20], talaltra, di recesso della prima di fronte alla seconda[21] – appare di per sé non rilevante in sede di accesso ex art. 43 T.U.E.L.
Rammenta, infatti, la norma in esame che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto d’ufficio nei casi previsti dalla legge, in guisa da escludersi a priori quel pericolo di diffusione di informazioni riservate, potenzialmente riconnesso alla conoscenza delle stesse da parte di chi a tale segreto, al contrario, non risulta vincolato[22].
Ciò che, unitamente alla constatazione circa l’assenza di una espressa previsione in proposito in seno al predetto comma, depone nel senso di ritenere perfettamente ammissibile l’accesso anche al protocollo riservato del sindaco[23].
Tale decisione, per inciso, si segnala anche per fugare ogni dubbio in ordine alla facoltà del consigliere di agire in giudizio, ex art. 25 legge 241/1990, personalmente, così come della possibilità per l’amministrazione di difendersi, nel medesimo processo, tramite propri funzionari, senza l’assistenza di un avvocato, stante la sicura applicabilità al caso di specie dell’art. 4 comma 3 legge 205/2000, in ragione dell’assoluta omogeneità delle regole processuali afferenti ad entrambe le tipologie di accesso.
Con riferimento ai ricorsi in materia di accesso, l'art. 23-bis, aggiunto alla l. 6 dicembre 1071, n. 1034, dall'art. 4 comma 3°, l. 1° luglio 2000, n. 205, e l’art. 25 comma 5-bis della l. 241/1990 come modificata dalla l. 15/2005, prevede che il ricorrente possa stare in giudizio personalmente senza l'assistenza del difensore e che l'amministrazione possa essere rappresentata e difesa da un proprio dipendente, purché in possesso della qualifica di dirigente, autorizzato dal rappresentante legale.
La possibilità dell'Amministrazione di essere presente in giudizio vale a superare la necessità che la notificazione del ricorso debba avvenire presso la sede della competente Avvocatura dello Stato a pena di nullità della stessa, ben potendo l'Amministrazione provvedere personalmente alla sua difesa giudiziale senza l'assistenza di un patrocinio tecnico cui è preordinato l'obbligo di notifica presso gli uffici dell'Avvocatura a pena di nullità dell'atto introduttivo.
Il termine di trenta giorni, previsto dall'art. 25, comma 5, l. 241/90, per ricorrere contro le determinazioni amministrative concernenti il diritto di accesso o il silenzio diniego formatosi sulle relative domande ha valenza perentoria, per cui devono ritenersi irricevibili le impugnazioni del diniego dell'amministrazione di consentire l'accesso a documenti amministrativi, notificate dopo più di trenta giorni.
La disposizione dell’art 43 comma 2 del d. lgs. 267/2000, inoltre, deve essere coordinata con le altre norme che tutelano la riservatezza (in tal senso è l’orientamento espresso dall’Ufficio del Garante per la protezione dei dati personali).
Su tale normativa si è infatti pronunciato il Garante per la protezione dei dati personali (il 20 maggio 1998) affermando, in particolare, che:
a) la legge n. 675 del 1996 non ha apportato modifiche al citato articolo 31, comma 5, della legge n. 142 del 1990, “in quanto il principio di trasparenza affermato da tale disposizione è compatibile con le nuove norme in materia di protezione dei dati personali”, e dovendosi considerare il suddetto articolo 31 “una delle disposizioni che secondo l’articolo 27 della legge n. 675 del 1996 permettono di trattare dati ed informazioni per il perseguimento di finalità istituzionali”;
b) tale generale diritto di accesso del consigliere comunale, da esercitarsi riguardo ai dati effettivamente utili per l’esercizio del mandato e ai fini di questo, deve essere coordinato con altre norme vigenti, come quelle che tutelano il segreto delle indagini penali o la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni, nonché rispettando il dovere di segreto “nei casi espressamente determinati dalla legge”, e “i divieti di divulgazione dei dati personali (si pensi ad esempio all’art. 23, comma 4, della legge n. 675 del 1996, che vieta, salvo casi specifici, la diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute)”.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia pare orientarsi nel senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetta un’ampia prerogativa ad ottenere informazioni, senza che possano essere opposti profili di riservatezza, nel caso in cui la richiesta riguardi l’esercizio del mandato istituzionale, restando, peraltro fermi gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali secondo la vigente normativa sulla privacy[24].
Un’ultima considerazione va fatta in ordine alla portata dell’espressione normativa: “essi (i consiglieri comunali) sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge” contenuta nell’art. 43 comma 2 del T.U. 18 Agosto 2000 n. 267.
In merito il Consiglio di Stato (Sez. V, 2 Aprile 2001 n. 1893) ha affermato che: “la norma, per la sua collocazione sistematica e per il suo significato letterale, intende ribadire la regola secondo cui, lecitamente acquisite le informazioni e le notizie utili all’espletamento del mandato, il consigliere, di regola, è autorizzato a divulgarle”.
“Un divieto di comunicazione a terzi deve derivare da apposita disposizione normativa”.
Al riguardo occorre chiarire la portata dell’espressione normativa: “essi (i consiglieri comunali) sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge” contenuta nell’art. 43 comma 2 del T.U. 18 Agosto 2000 n. 267.
Il diritto di avere dalla società tutte le informazioni che siano utili all’espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto, appunto, i consiglieri sono vincolati all’osservanza del suddetto segreto: essendo i detti consiglieri tenuti al segreto nel caso di atti, documenti ed informazioni riguardanti la riservatezza di terzi, non sussiste, all’evidenza, alcuna ragione logica perché possa essere loro inibito l’accesso agli atti, documenti ed informazioni riguardanti i dati riservati di terzi.
In tale prospettiva si dispiega, coerentemente, il rapporto tra la disciplina sulla protezione dei dati personali e la pretesa all’accesso del consigliere comunale.
Questi è legittimato ad acquisire le notizie ed i documenti concernenti dati personali, anche sensibili poiché, di norma, tale attività costituisce “il trattamento” autorizzato da specifica disposizione legislativa (legge n. 675/1996; decreto legislativo n. 135/1999) secondo le regole integrative fissate dalle determinazioni ed autorizzazioni generali del Garante e dagli atti organizzativi delle singole amministrazioni. Ma il consigliere comunale non può comunicare a terzi i dati personali (in particolare quelli sensibili) se non ricorrono le condizioni indicate dalla normativa in materia di tutela della riservatezza.
5. Il caso relativo alla particolare natura del soggetto nei cui confronti l’istanza ostensiva è diretta, in relazione al recente intervento del Consiglio di Stato (Ad. Pl., 5 settembre 2005 n. 5) sull’applicabilità della norme in materia di accesso anche ai soggetti privati chiamati all’espletamento di compiti di interesse pubblico.
La peculiarità del caso sottoposto all’esame del Collegio attiene alla particolare natura del soggetto nei confronti del quale è diretta l’istanza ostensiva: invero, si tratta di una società di capitali a partecipazione pubblica comunale totalitaria – nata dalla trasformazione dell’Azienda speciale del Comune di Trani – preposta all’erogazione dei servizi pubblici del trasporto urbano e dell’energia elettrica.
Invero, nella fattispecie, indipendentemente dal riferimento alla normativa generale di cui alla legge n. 241/1990, trova applicazione la specifica normativa di cui alla legge 27 dicembre 1985, n. 816, che, all’art.24 prevede: “i consiglieri comunali … per l’effettivo esercizio delle loro funzioni hanno diritto di prendere visione dei provvedimenti adottati dall’ente e degli atti preparatori in essi richiamati nonché di avere tutte le informazioni necessarie all’esercizio del mandato” e quella, ancor più specifica e comprensiva di cui alla legge 8 giugno 1990, n. 142 (ora art. 43, comma 2, del d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267) che all’art.31, quinto comma, stabilisce: “i consiglieri comunali e provinciali hanno il diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente del Comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie ed informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Dal riportato complesso normativo si evince chiaramente come tali disposizioni - che vanno lette, interpretate ed applicate nel più generale contesto delle disposizioni sul diritto di accesso previste nel capo V della legge n. 241/1990 –, consentano e in qualche modo favoriscano la legittimità dell’esercizio del diritto di accesso da parte dei consiglieri, in quanto svolto nell’ambito dell’espletato mandato di consiglieri comunali e per finalità intrinseche allo svolgimento di tale mandato.
In linea generale, l’articolo 7 della legge 8 giugno 1990 n. 142 e gli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990 n. 241, riconoscono il diritto di accesso ai documenti amministrativi a tutti i soggetti interessati alla tutela di una situazione giuridicamente rilevante.
In particolare, l’articolo 7 della legge n. 142/1990, pur affermando il principio della pubblicità degli atti comunali, introduce una rilevante eccezione, riferita ai “documenti riservati per espressa indicazione di legge”. Dunque, nello stesso ambito delle amministrazioni locali, pure caratterizzato da un accentuato livello di trasparenza, legato, fra l’altro, alle dinamiche partecipative della comunità autoamministrata, l’accessibilità ai documenti amministrativi non è indiscriminata, ma è sottoposta ad alcune puntuali limitazioni di ordine oggettivo.
Il principio è espresso, in modo coerente, ed in un ambito più generale, dall’art. 24 della legge n. 241/1990, il quale stabilisce che il diritto di accesso “è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi dell'articolo 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, nonché nei casi di segreto o di divieto di divulgazione altrimenti previsti dall'ordinamento”.
Il significato della disposizione è chiaro: la legge n. 241/1990 (e, in generale, la normativa sull’accesso specificamente dedicata agli enti locali) ridimensiona la portata sistematica del segreto amministrativo, il quale, ora, non esprime più un principio generale dell’agire dei pubblici poteri, ma rappresenta un’eccezione al canone della trasparenza, rigorosamente circoscritta ai soli casi in cui viene in evidenza la necessità obiettiva di tutelare particolari e delicati settori dell’amministrazione.
Il diritto del consigliere comunale di ottenere tutte le notizie e le informazioni in possesso degli uffici comunali "utili all'espletamento del proprio mandato", previsto dall'art. 31 comma 5 della l. 8 giugno 1990 n. 142, fornisce una veste particolarmente qualificata all'interesse all'accesso del titolare di tale funzione pubblica, che legittima l'interessato all'esame ed all'estrazione di copia dei documenti che contengono le predette notizie ed informazioni. Tali facoltà spettano infatti a qualunque cittadino che vanti un interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute nella più ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione spettante ratione officii al consigliere comunale.
Il riferimento alle notizie ed alle informazioni "utili" contenuto nella norma, non costituisce affatto una limitazione, se appena si considera l’intero contesto della disposizione.
Il diritto di accesso è stato, infatti, attribuito ai consiglieri comunali per "tutte le notizie e le informazioni …….utili all’espletamento del proprio mandato" e, quindi, per tutte le notizie ed informazioni ritenute utili, senza alcuna limitazione.
Dal termine "utili" contenuto nella norma in oggetto non consegue, quindi, alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, bensì l’estensione di tale diritto a qualsiasi atto ravvisato utile all’espletamento del mandato.
Né, tantomeno, è possibile sostenere che, comunque, il diritto di accesso dei consiglieri comunali troverebbe un limite nei diritti tutelati dall’ordinamento.
Siffatto limite all’accesso, operante in base alla disciplina posta in via generale dagli artt. 22 e seguenti della l. 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni (da ultimo operate con la l. 11 febbraio 2005, n. 15), non è, infatti, previsto per quanto concerne il diritto di accesso dei consiglieri comunali e provinciali, disciplinato dal suddetto art. 43, comma 2, del d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che opera quale norma speciale.
Anzi, il limite "de quo" risulta implicitamente escluso dalla detta norma speciale, allorchè i consiglieri chiedano l’accesso per l’espletamento del proprio mandato, avendo essa prescritto: "Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge".
E’, invero, evidente che non vi sarebbe stata alcuna ragione di porre tale prescrizione ove l’accesso dei consiglieri comunali e provinciali non fosse stato previsto per tutti gli atti dei Comuni e delle Province nonché delle loro aziende ed enti dipendenti, ivi compresi gli atti riguardanti la riservatezza di terzi.
L’art. 43 comma 2 del d. lgs. 267/2000 non contiene eccezioni al diritto di accesso dei consiglieri per quanto riguarda la tipologia degli atti; la norma, infatti, richiede soltanto che le informazioni così acquisite siano utili all’espletamento del mandato e che i consiglieri mantengano il segreto nei casi specificamente determinati dalla legge.
L’amministrazione comunale o, comunque, il soggetto nei cui confronti l’istanza ostensiva è diretta (come, nel caso in esame, società di diritto privato partecipata in via totalitaria dallo stesso comune), quindi, non può esercitare alcun sindacato circa il collegamento tra le informazioni richieste e lo svolgimento del mandato di consigliere, in quanto diversamente si consentirebbe alla giunta e al sindaco, e in definitiva a una parte politica, di limitare l’azione dei soggetti ai quali spetta istituzionalmente il compito di controllare l’operato dell’ente e di elaborare le direttive per l’attività futura e, soprattutto, si perverrebbe alla paradossale situazione per cui gli organi di governo dell’ente sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l’estensione del controllo sul proprio operato.
Oltretutto, ai consiglieri non può essere imposto l’onere di specificare in anticipo l’oggetto degli atti a cui intendono accedere, in quanto tali informazioni potrebbero essere conoscibili solo in conseguenza dell’accesso. Non appare, quindi, ragionevole subordinare l’accesso alla disponibilità di determinate informazioni se i consiglieri non sono posti nella condizione di avere tali informazioni in via ordinaria e senza disparità di trattamento.
Non mancano, però, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato [25], decisioni che ritengono non plausibile la tesi secondo cui il consigliere comunale, in tale veste, potrebbe accedere a tutti i documenti, anche segreti, dell’amministrazione, assumendo solo l’obbligo di non divulgare le relative notizie.
In tal modo, l’accesso ai documenti del consigliere comunale, ritenuto prevalente anche sul segreto professionale, assumerebbe una portata oggettiva più ampia di quella riconosciuta ai cittadini ed ai titolari di posizioni giuridiche differenziate (pure comprensive di situazioni protette a livello costituzionale).
Il mandato politico-amministrativo affidato al consigliere esprime certamente il principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività, ma, nell’attuale contesto normativo, non può autorizzare un privilegio così marcato, a scapito degli altri soggetti interessati alla conoscenza dei documenti amministrativi e con sacrificio degli interessi tutelati dalla normativa sul segreto.
In definitiva, in virtù del combinato disposto dell'art. 24 l. 27 dicembre 1985 n. 816 e dell'art. 31 comma 5 l. 8 giugno 1990 n. 142, i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto d'ottenere dagli enti d'appartenenza, dalle loro aziende e dagli enti dipendenti tutte le notizie e informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del loro mandato elettivo - anche mercè il rilascio di copia dei documenti richiesti secondo le procedure d'accesso ex l. 7 agosto 1990 n. 241 -, senza necessità di specificare i motivi della richiesta, nè l'interesse sotteso come ogni altro privato cittadino.
Inoltre – ed è il punto nevralgico della decisione in commento - la natura stessa di società di capitale, del soggetto nei cui confronti l’istanza di accesso agli atti e documenti è diretta, non preclude l’esercizio del diritto, atteso che la proprietà della medesima è, per quota totalitaria, imputabile al comune; partecipazione da cui discende l’esercizio di attività certamente rientranti nella più generale attività del comune, che giustifica e legittima quindi la richiesta documentazione [26].
Orbene, il Consiglio di Stato ha avuto modo recentemente di affermare (seppur in specifica relazione all’applicabilità della giurisdizione del giudice amministrativo alla luce dei connotati pubblicistici della sua natura e del suo modus agendi) che l'azienda speciale è comunque soggetto istituzionalmente dipendente dall’ente locale ed è con esso legata da stretti vincoli (sul piano della formazione degli organi, degli indirizzi, dei controlli e della vigilanza), al punto da farla ritenere elemento del sistema amministrativo facente capo allo stesso ente territoriale, ovvero, pur con l'accentuata autonomia derivantele dall'attribuzione della personalità giuridica, finanche parte dell'apparato amministrativo del comune [27].
L’”antenato” giuridico della azienda speciale è stato l’azienda municipalizzata, priva di personalità giuridica – art. 2 del T. U. 15 ottobre 1925, n. 2578 -, ma dotata di ampia autonomia amministrativa, patrimoniale e contabile; l’ex azienda municipalizzata costituiva uno strumento dell’ente locale e, quindi, era configurata come una forma di gestione diretta del servizio [28].
L'attribuzione della personalità giuridica non ha trasformato l'azienda speciale in un soggetto privato, ma l'ha solo configurata come un nuovo centro di imputazione di situazioni e rapporti giuridici, distinto dal comune e con una propria autonomia decisionale, e l'ha facoltizzata, per l'esercizio di un'attività che ha rilievo economico, ad effettuare scelte di tipo imprenditoriale, cioè ad organizzare i fattori della produzione secondo i modelli propri dell'impresa privata (compatibilmente peraltro con i fini sociali dell'ente titolare) per il conseguimento di un maggiore grado di efficacia, di efficienza e di economicità del servizio pubblico.
La “capacità imprenditoriale” non va, però, oltre tali confini e subisce restrizioni anche in detti ambiti. Basti pensare che spetta al Comune la fissazione delle tariffe dei servizi prodotti dall'azienda speciale.
L'art. 22 della legge n. 142 del 1990 (ora art.113 d.lg. 267/00), nel dare al comune la facoltà di gestire i servizi pubblici, oltre che nella forma dell'azienda speciale, anche a mezzo di società private (società per azioni o società a responsabilità limitata ex art. 17, comma 58, della legge n. 127 del 1997, costituite o partecipate dall'ente locale) “qualora sia opportuno in relazione alla natura o all'ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti pubblici o privati”, ha allora evidentemente indicato un modulo alternativo di gestione, seppur anch’esso non del tutto alieno a finalità e connotati ancora sostanzialmente pubblicistici.
Coerentemente con tale impostazione, il Consiglio di Stato, con la sentenza qui annotata, ha affermato che la costituzione di una S.p.A. per la gestione dei servizi pubblici locali, qualora si renda opportuna in relazione alla natura o all’ambito territoriale dei predetti servizi pubblici locali, “costituisce un modello organizzativo e gestionale alternativo a quello dell’azienda speciale, ma non per questo del tutto alieno a connotati e finalità sostanzialmente pubblici, perché, ai fini dell’identificazione di un soggetto pubblico, la forma societaria assume veste neutrale ed il perseguimento di uno scopo pubblico non è, di per sé, in contraddizione con il fine societario lucrativo ex art. 2247 c.c.
La strumentalità dell’azienda speciale e il regime normativo vigente in materia pretendono, in definitiva, un collegamento molto saldo, seppur di natura “funzionale”, tra l’attività dell’azienda stessa e le esigenze della collettività stanziata sul territorio dell’ente che l’ha costituita.
Ma il quadro necessariamente cambia per il modello societario di gestione dei servizi pubblici locali, dal punto di vista sia dei vincoli funzionali che delle attività consentite, con riferimento anche all’interpretazione che va resa di queste ultime nozioni.
La l. 142/1990 ed i successivi interventi - l. 498/1992, d.p.r. 533/1996, l. 127/1997 -, accanto alle tradizionali forme di gestione dei servizi pubblici locali, hanno disciplinato nuove possibilità di gestione rappresentando una linea di tendenza legislativa volta a consentire il ricorso a forme privatistiche di gestione dei servizi, innovative rispetto ai modelli tradizionali, e non di meno riconducibili entro schemi organizzativi di autonomia negoziale di cui l’ente locale è istituzionalmente facultato ad avvalersi, nell’esercizio della propria capacità di diritto comune.
Il legislatore del 1990, quindi, sulla scia del diffuso convincimento circa l’opportunità di procedere sulla strada delle privatizzazioni, ha introdotto la nuova figura della società per azioni a partecipazione comunale, ponendo eminentemente l’accento sulla natura del servizio da gestire preferibilmente con l’apporto di più soggetti pubblici o privati.
Appare evidente che si è voluto trovare una soluzione normativa per tutte quelle ipotesi in cui l’apporto finanziario, tecnico o commerciale relativo ad esperienze diverse, fosse più efficientemente gestibile mediante una struttura associativa a respiro privatistico.
In una prima fase, la finalità sociale da perseguirsi da parte della società mista, è stata garantita dalla necessità che la partecipazione dell’ente territoriale fosse maggioritaria.
Detto limite è stato superato dall’art. 12 della l. 23 dicembre 1992 n. 498, che ha consentito la costituzione delle società miste senza il predetto vincolo maggioritario, prevedendo in tali casi che la scelta del socio privato avvenga mediante il ricorso a procedure ad evidenza pubblica.
Tale disciplina ha, inoltre, consentito la possibilità di costituire società miste a prevalente capitale privato non solo per l’esercizio di servizi pubblici, ma anche per la realizzazione di opere necessarie al corretto svolgimento del servizio, nonché di infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico.
Senonchè, tali principi non hanno ricevuto mai attuazione con l’emanazione di un decreto legislativo da parte del governo, talchè il legislatore al fine di consentire l’operatività dei principi stessi ha emanato il d.l. 31 gennaio 1995 n. 26 (convertito con la l. 29 marzo 1995); con il d.p.r. 16 settembre 1996 n. 533, si è finalmente giunti alla emanazione della disciplina attuativa[29].
Vero è che, anche per quanto concerne le società miste, il limite rigidamente territoriale ha da tempo ceduto definitivamente il passo, come si è visto anche per le aziende speciali, a un vincolo di tipo “funzionale”, coincidente con l’inerenza dell’attività delle società locali alla cura degli interessi della collettività di riferimento, e questo grazie anche a fondamentali, seppur non più recentissimi, arresti della Corte delle leggi e del Consiglio di Stato [30].
Ricollegandosi a tali pronunce ci si è orientati nel senso di consentire che le società miste locali partecipino alla gestione di servizi locali di altri enti territoriali, e che l’unico limite effettivamente prospettabile, venuto meno quello strettamente fisico-territoriale, è quello costituito dall’inerenza funzionale dell’attività alla cura degli interessi della collettività di riferimento, precisandosi che la determinazione del campo di azione della società può rappresentare il mezzo attraverso il quale potersi realizzare la soddisfazione degli interessi locali, attuata attraverso modelli di indole non pubblicistica (cfr. anche Cons. Stato, A.G., par. 16 maggio 1996, n. 90).
La società mista[31], nata per la gestione di un servizio pubblico locale, troverebbe il proprio limite di intervento nello scopo, consistente nella doverosa promozione dello sviluppo della comunità locale.
In altri termini, caduto definitivamente il criterio del territorio come limite insuperabile per l’attività della società mista, il necessario collegamento funzionale con la collettività locale escluderebbe tuttavia che tale società possa porsi sul mercato come un qualunque altro imprenditore, giacché si imporrebbe la dimostrazione che la gestione di un servizio pubblico di un diverso ente soddisfi specifiche, non quindi meramente generiche, esigenze della collettività originaria.
Tale impianto argomentativo prevede, quindi, la sussistenza anche per le società miste locali di un vincolo di ordine funzionale che leghi comunque l’attività societaria agli interessi della collettività di cui l’ente costituente la società è figura esponenziale, e questo tanto più considerando che al modulo privatistico della società per azioni continuano in effetti a corrispondere, in questo periodo di transizione, connotati tipicamente pubblicistici (basti pensare, oltre agli elementi già accennati, alle facilitazioni e ai privilegi che le società miste locali ancora incontrano nell’affidamento del servizio e nell’accesso ai finanziamenti), che confermano il permanere della natura speciale e “ibrida” di questa figura societaria.
Non per questo, però, può accettarsi tout court che il collegamento funzionale prescinda dalla natura giuridica, di soggetto di diritto privato, seppur “speciale”, o di ente pubblico economico, del gestore del servizio, condizionando nell’identica misura l’attività dell’azienda speciale e della società mista locale.
Se dunque si insiste nell’affermare che l’attività extraterritoriale, per tutte le figure per le quali esiste un vincolo teleologico al soddisfacimento dei bisogni della collettività locale, si appalesa subordinata alla dimostrazione che in tal guisa viene soddisfatta una specifica esigenza della medesima collettività, che non si traduca in un mero ritorno di carattere imprenditoriale, non può al contempo ricondursi l’utilità del modello societario prescelto alla sola maggiore agilità procedurale, precludendo del tutto al medesimo di prodursi in attività e confronti (che dovrebbero essere a questo punto per loro natura concorrenziali, non potendosi ipotizzare uno schema legittimo di affidamento diretto a società mista costituita da altro Comune) al pari dei liberi soggetti economici.
In altre parole il pur apprezzabile fine di non snaturare lo scopo per il quale la società è sorta non può portare, a sua volta, a snaturare completamente il, seppur speciale, modello privatistico societario prescelto.
Interessante, ma allo stesso tempo denso di problematicità, risulta, invece, l’interrogativo circa la soluzione adottabile in materia di accesso, da parte di consiglieri comunali, agli atti, documenti ed informazioni, utili all’espletamento del loro mandato, relativi ad una società di capitali partecipata dal comune stesso in via minoritaria.
Il tenore letterale della norma in commento, art. 43 comma 2 del TUEL, ci porterebbe ad una tesi non del tutto condivisibile, né, tantomeno, corretta.
Infatti, vero è che l’art. 43 comma 2 del d. lgs. 267/2000 prevede che i consiglieri comunali hanno diritto di avere informazioni e notizie utili e pertinenti all’esercizio del mandato, al fine di una compiuta valutazione della correttezza ed efficacia dell’operato dell’amministrazione, da parte degli uffici del comune, “nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti”; quindi, in base ad un’interpretazione letterale della norma, il diritto di accesso del consigliere sarebbe garantito agli atti, documenti ed informazioni detenuti da tutte le società in cui il comune detenesse una partecipazione al capitale sociale, anche di modesta entità.
Ma, comunque, sarebbe compito arduo per l’interprete, nonché contrario alla ratio giustificativa collegata all’introduzione della norma[32], sostenere che il consigliere comunale abbia un diritto, generalizzato, di avere informazioni e notizie da tutte le società partecipate dallo stesso comune, anche in via minoritaria.
In primo luogo è la stessa interpretazione teleologica della disposizione normativa de qua – ossia quell’interpretazione che da un peso prevalente allo scopo (telos) per il quale la norma è stata emanata[33] - ad escludere un diritto, per così dire, generalizzato, del consigliere.
Infatti, il criterio di interpretazione teleologica, pur riconoscendo che la lettera della legge costituisce un limite che l’interprete non può superare e deve rispettare, porta a tenere presente, da un lato, il fatto sociale che sta alla base della norma e che è regolato da essa; dall’altro a considerare le conseguenze che deriverebbero da una data interpretazione, per escludere quelle che non corrispondono allo scopo della disposizione.
Le disposizioni di cui all’art. 43 comma 2 d. lgs. n. 267/2000, nel riconoscere il diritto dei consiglieri comunali di visionare i provvedimenti e gli atti dell'amministrazione, sebbene debbano essere interpretate nel senso più ampio possibile, in modo tale da ricomprendere tutti quegli atti, anche se non strettamente relativi alle competenze del consiglio comunale, ma riguardanti ad ogni modo le potenziali esplicazioni del "munus" di cui ciascun consigliere comunale risulti investito, al fine di permettere a questi di svolgere tutte le iniziative utili per garantire il corretto esercizio dell'azione dell'ente locale, non garantiscono allo stesso consigliere il diritto di controllare, di fatto, l’esercizio dell’attività di impresa.
In secondo luogo, inoltre, il consigliere, attuerebbe una vera e propria ingerenza nell’esercizio della attività imprenditoriale; tale ingerenza potrebbe risultare sia “pericolosa”, e comunque non gradita alla proprietà, sia contrastante con i principi societari in materia.
E’ pur vero che tale soluzione potrebbe essere contraddetta dal fatto che oggi, la pubblicità dell'attività della pubblica amministrazione è un principio generale del nostro ordinamento, consacrato nell'art. 1 della l. 7 agosto 1990 n. 241: il principio dell'accesso agli atti amministrativi è stato affermato fin dai tempi della rivoluzione francese e ancor prima nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino; oggi trova precisi riferimenti anche nella Costituzione italiana agganciandosi a tutte quelle disposizioni che garantiscono l'eguaglianza sostanziale e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del paese (art. 3, comma 2), la possibilità di agire in giudizio contro gli atti amministrativi (art. 113), il buon andamento e l'imparzialità della p.a. (art. 97)[34].
Nonostante oltre trenta anni orsono, Pugliatti avesse avuto modo di chiarire che l'interesse pubblico é quello di tutti quegli enti e quei gruppi portatori di interessi "non propri di essi medesimi, bensì propri della comunità massima o che adempiono a funzioni che sono strumentali rispetto all'attuazione di quegli interessi, restando inteso che un interesse pubblico rimane tale anche se la sua attuazione é affidata a un privato che realizzi insieme ad esso un interesse proprio", la prospettiva soggettivistica dell'interesse pubblico ha a lungo continuato ad esercitare un intuibile fascino.
Certamente la qualificazione di un interesse come pubblico solo allorché facente capo ad un soggetto della pubblica amministrazione, può aver sortito l'effetto positivo di sganciare l'accezione in esame da quello stato di indeterminatezza che caratterizzava lo stadio meramente astratto della sua enunciazione normativa, per ancorarlo sul piano concreto della realtà. Il potere pubblico – tanto più alla luce dell’ordinamento comunitario - non appartiene ad un soggetto, ma all'ordinamento. Da ciò, la sostanziale uguaglianza, sotto il profilo della relativa virtuale capacità di farsene portatori (a determinate condizioni e limiti), di tutti i soggetti giuridici, siano essi pubblici o privati.
Infatti, tra i soggetti nei cui confronti è ammesso l’esercizio del diritto di accesso agli atti sono comprese le società a partecipazione pubblica totale o prevalente che rivestono la qualità di concessionarie di pubblici servizi[35]. Inoltre non ha alcun rilievo la circostanza che il servizio pubblico sia svolto in regime di concorrenza e che la società stessa svolga attività di diritto privato, dato che l’attività di gestione dei pubblici servizi è esercitata anche per soddisfare interessi della collettività ed ha quindi rilievo pubblicistico [36].
Peraltro, tra i soggetti obbligati a consentire l’accesso ai propri atti devono essere compresi tutti i gestori di servizi pubblici sulla base di un titolo giuridico, costituito da una legge o da un atto amministrativo, anche se non ha nome di concessione [37].
Ora, siffatta giurisprudenza è stata recepita dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15, che ha modificato la l. n. 241 del 1990. Il nuovo art. 22 della legge n. 241 al comma 1, lett. e) ridefinisce il concetto di pubblica amministrazione: in tale nozione sono stati compresi tutti i soggetti di diritto pubblico e privato “limitatamente” allo svolgimento di “attività di pubblico interesse” regolate dal diritto nazionale o comunitario.
Pur osservando che la locuzione “attività di pubblico interesse” è piuttosto vaga, la ratio della norma che definisce il concetto di pubblica amministrazione può risultare comprensibile solo osservando che nel nostro Paese, in molti casi, non vi è stato un vero ritiro dei poteri pubblici dalla gestione delle attività economiche, cioè una privatizzazione sostanziale, ma solo una privatizzazione formale; infatti, alcune imprese pubbliche hanno subito semplicemente un mutamento della veste giuridica, che da pubblica è divenuta privata, senza che sia avvenuto l’effettivo passaggio in mano privata del loro capitale sociale.
Le problematiche affrontate nascono dalla natura ambigua degli organismi che hanno continuato a svolgere le attività economiche gestite dagli enti pubblici: essi formalmente aderiscono agli schemi tipici delle società di diritto commerciale, ma spesso presentano deroghe di vario genere che giustificano la subordinazione a condizionamenti pubblicistici.
Ciò ha contribuito a generare l’orientamento giurisprudenziale che ritiene irrilevante la veste giuridica ai fini dell’esercizio del diritto di accesso agli atti, accolto poi dalla l. n. 15 del 2005.
Ciononostante, nella definizione di pubblica amministrazione permangono aspetti di ambiguità.
Infatti, il nuovo art. 22, comma 1, lett. e) della legge n. 241 del 1990 – normativa generale di cui l’art. 43 comma 2 del d. lgs. 267 del 2000 rappresenta disposizione speciale - potrebbe essere interpretato nel senso di includere nella nozione di pubblica amministrazione tutte le società private che svolgano “attività di pubblico interesse”, cioè non solo quelle sotto il controllo pubblico, dal momento che non si riscontra alcuna precisazione in tal senso.
Ciò comporterebbe la conseguenza che le società le cui partecipazioni azionarie siano totalmente o prevalentemente in mano privata, non più sottoposte a controllo pubblico, ma che svolgano una non meglio qualificata “attività di pubblico interesse”, vengano sottoposte all’esercizio del diritto di accesso ai propri atti.
In conclusione, se appare condivisibile l’estensione del concetto di pubblica amministrazione fino a comprendere le società a totale o prevalente capitale pubblico, al contrario desta perplessità qualsiasi interpretazione che preveda l’assorbimento in tale concetto anche delle società che non siano solo formalmente ma anche sostanzialmente private.
Infatti, un’estensione di tal genere della nozione di pubblica amministrazione contrasterebbe, innanzitutto, con i principi contenuti nelle direttive e nella giurisprudenza comunitarie, che, per qualificare un organismo come pubblico, giudicano imprescindibile la persistenza su tali soggetti del controllo pubblico o, più precisamente, il requisito dell’influenza dominante da parte dei poteri pubblici; in secondo luogo, potrebbero contrastare con l’esercizio di una attività imprenditoriale – connotata, più che altro, anche da canoni di segretezza (si pensi alla disciplina relativa al know-how[38]) – non soggetta al rispetto di una disciplina sulla trasparenza poiché non perseguente uno scopo o una finalità pubblicistica.
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Documenti correlati:
CONSIGLIO DI STATO SEZ. V, sentenza 9-12-2004, n. 7900, pag. http://www.lexitalia.it/p/2004/cds5_2004-12-09.htm (sui presupposti per l’esercizio dell’accesso previsto dall’art. 43 del T.U., ee.ll. in favore dei Consiglieri comunali e provinciali ed in particolare sulla non necessità di motivare l’istanza di accesso).
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(*) Diplomato presso la scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Univeristà di Pavia – Università Bocconi di Milano.
[1] In tal senso cfr. A. LAINO, L’accesso ai documenti amministrativi tra aperture giurisprudenziali e novità legislative, in www.lexitalia.it.
[2] Sul tema della trasparenza dell’azione amministrativa si veda: F. TERESI, Partecipazione e pubblicità nelle proposte di legge sull’azione amministrativa, in Riv. triv. dir. pubb., 1975, 519; R. VILLATA, La trasparenza dell’azione amministrativa, in Dir. proc. amm., 1987, 528; Aa.Vv., La pubblica amministrazione tra trasparenza e riservatezza nell’organizzazione e nel procedimento amministrativo, in Atti del Convegno di Varenna, 21-23 settembre 1989, Milano, 1991; G. D’AURIA, Trasparenza e segreti nell’amministrazione italiana, in Pol. dir., 1990, 115; R. LASCHENA-A. PAJNO, Trasparenza e riservatezza nel procedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 1990, 5; S. AGRIFOGLIO, La trasparenza dell’azione amministrativa e il principio del contraddittorio: tra procedimento e processo, in Dir. proc. amm., 1991, 46; S. PIRAINO, La trasparenza dell’azione amministrativa: diafanità di un concetto, in N. rass. ldg., 1991, 263; R. CHIEPPA, La trasparenza come regola della pubblica amministrazione, in Dir. econ., 1994, 613; A. SANDULLI, Il procedimento amministrativo e la trasparenza, in L’amministrazione pubblica italiana (a cura di) Cassese e Franchini, Bologna, 1994; G. ARENA, Trasparenza amministrativa, in Enc. giur., XXXI, Roma, 1995; I. F. CARAMAZZA, Dal principio di segretezza al principio di trasparenza. Profili generali di una riforma, in Riv. trim. dir. pubb., 1995, 941; E. CANNADA BARTOLI, A proposito della tutela della riservatezza e trasparenza amministrativa, in Dir. proc. amm., 1999, 725.
[3] Sul punto si segnalano LU. MAZZAROLLI, L’accesso ai documenti della Pubblica Amministrazione: profili sostanziali, Padova, 1998; M. CLARICH, Il diritto d’accesso ai documenti amministrativi, in Giornale di diritto amministrativo, 1995; F. CARINGELLA, Il diritto amministrativo, Napoli, 2001; R. MARRANA, La pubblica amministrazione tra trasparenza e riservatezza nell' organizzazione e nel procedimento amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1998; M. OCCHIENA, Diritto d'accesso, atti di diritto privato e tutela della riservatezza dopo la legge nella privacy, in Dir. proc. Amm., 1997; M. PROTTO, Alti e bassi del diritto d'accesso ai documenti: actio ad exhibendum ed attività di diritto privato dell'Amministrazione, in LexItalia.it.
[4] Questo orientamento è confermato dalla giurisprudenza, che ha avuto occasione di precisare che il consigliere può accedere non solo ai "documenti" formati dalla pubblica amministrazione di appartenenza ma, in genere, a qualsiasi "notizia" od "informazione" utili ai fini dell' esercizio delle funzioni consiliari; cfr. Cass. Civ. Sez. III, sent. n. 8480 del 3 agosto 1995, in materia di acquisizione della registrazione magnetofonica di una seduta consiliare).
[5] La questione è stata affrontata principalmente per la verifica, ai fini del riparto di giurisdizione, del carattere amministrativo delle determinazioni adottate dalle società per azioni a partecipazione pubblica.
[6] Seppur al diverso fine di giustificare la permanenza del controllo della Corte dei conti sulle società per azioni, soggette a privatizzazione solo formale ed al controllo maggioritario da parte dello Stato, anche la Corte costituzionale ha sottolineato la neutralizzazione della veste societaria rispetto alla natura sostanzialmente pubblicistica dei soggetti in questione (cfr. Corte cost. 466/93).
[7] La direttiva n. 80/723/CEE (in GUCE 29 luglio 1980, n. 195, p. 35 ss.) in seguito è stata modificata da altre due direttive, la n. 85/413/CEE del 24 luglio 1985 (in GUCE 28 agosto 1985, n. 229, p. 20 ss.) e la n. 93/84/CEE del 30 settembre 1993 (in GUCE 12 ottobre 1993, n. 254, p. 16 ss.).
[8] Con tale direttiva è stato instaurato un regime di controllo speciale sulle imprese in mano pubblica al fine di verificare la coerenza con la logica di mercato dei trasferimenti di risorse fatti a vario titolo dallo Stato a favore delle suddette imprese: tali trasferimenti possono essere giustificati solo se rientranti nel normale intervento dello Stato in quanto proprietario, altrimenti possono delinearsi come illegittime forme di finanziamento alle imprese di proprietà statale. A tal proposito v. S. M. CARBONE, Brevi note in tema di privatizzazioni e diritto comunitario, in Dir. del Comm. Inter., 1999, p. 232.
[9] Ciò in base al fatto che si tratta di impresa di proprietà pubblica, o in cui sia presente la partecipazione finanziaria di capitali pubblici o per la normativa che la disciplina; inoltre l’influenza dominante è presunta quando i poteri pubblici, direttamente o indirettamente, detengano la maggioranza del capitale sottoscritto dell’impresa, dispongano della maggioranza dei voti attribuiti alle quote emesse dall’impresa o possano designare più della metà dei membri dell’organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza dell’impresa. A tal proposito v. J. A. M. MOLINA, Le distinte nozioni comunitarie di Pubblica amministrazione, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1998, p. 577; D. SORACE, L’ente pubblico tra diritto comunitario e diritto nazionale, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1992, p. 368 ss.; F. A. ROVERSI MONACO, Gli interventi pubblici in campo economico, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 1998, p. 1036.
[10] Su basi analoghe si fonda anche il c.d. Accordo Andreatta-Van Miert del 1992: si tratta di un’intesa tra il governo italiano e la Commissione europea relativa alla liquidazione del gruppo EFIM, agli ex enti pubblici italiani trasformati in s.p.a., IRI ed ENI, alle società da esse controllate al 100 % e a ogni altra società a capitale statale al 100 %, con l’eccezione di quelle che operano nel settore dei servizi pubblici e della difesa. Da tale intesa si evince che le società per azioni a totale partecipazione pubblica sono considerate ancora imprese pubbliche.
[11] A tal proposito v. G. DI GASPARE, voce Privatizzazioni, II) Privatizzazione delle imprese pubbliche, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1995, p. 3 ss.; E. MOAVERO MILANESI, voce Privatizzazioni, III) Diritto comunitario, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1995, p. 2.
[12] Sul punto v. M. T. CIRENEI, Disciplina comunitaria degli aiuti alle imprese pubbliche e privatizzazioni, in Dir. del comm. int., 1994, p. 323.
[13] Si veda, sul punto, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27 maggio 2002, n. 2922, in Foro it., 2003, III, p. 463 ss. In realtà molteplici sono le decisioni che vanno in tale direzione.
[14] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 426/98.
[15] Cfr. Consiglio di Giustizia Amministrativa, Regione Sicilia, n. 336/2000.
[16] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2716/2004: “Allorché una richiesta di accesso è avanzata per l'espletamento del mandato risulta, invero, insita nella stessa l'utilità degli atti richiesti al fine dell'espletamento del mandato. Il riferimento alle notizie ed alle informazioni "utili" contenuto nella norma in esame, non costituisce affatto una limitazione, se appena si considera l'intero contesto della disposizione. Il diritto di accesso è stato, infatti, attribuito ai consiglieri comunali per "tutte le notizie e le informazioni... utili all'espletamento del proprio mandato" e, quindi, per tutte le notizie ed informazioni ritenute utili, senza alcuna limitazione.
Dal termine "utili" contenuto nella norma in oggetto non consegue, quindi, alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, bensì l'estensione di tale diritto a qualsiasi atto ravvisato utile all'espletamento del mandato”).
[17] Cfr.: Consiglio di Stato, V Sez., 21.2.1994, n. 119; Consiglio di Stato, V Sez., 26.9.2000, n. 5109; Consiglio di Stato, V Sez., 2.4.2001, n. 1893.
[18] Nello stesso senso si è pronunciata la Commissione per l’accesso ai documenti: la stessa, infatti, aveva dichiarato che “la posizione sostanziale fatta valere dal consigliere nell’esercizio del diritto di che trattasi, però, non è configurabile come un diritto generalizzato ed indiscriminato ad ottenere qualsiasi tipo di atto dell’Ente. Tale diritto è espressamente individuato, infatti, dalla stessa norma in diretto ed esclusivo riferimento alle notizie e alle informazioni utili all’espletamento del proprio mandato”. Conforme a tale impostazione anche il Garante per la protezione dei dati personali – provvedimento 20 maggio 1998 – che ha affermato che “la finalizzazione dell’accesso all’espletamento del mandato consiliare, ossia alla cura di interessi pubblici, costituisce il presupposto legittimante nonché il limite al diritto pretensivo del consigliere”.
[19] Consiglio di Stato, Sez. V, 7 maggio 1996, n. 528; Consiglio di Stato, Sez. V, 22 febbraio 2000, n. 940; Consiglio di Stato, Sez. V, 26 settembre 2000, n. 5109; Consiglio di Stato, Sez. V, 4 maggio 2004, n. 2716.
[20] "…il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso…è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato…": cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, .n. 4002/2003.
[21] Ed è la casistica più abbondante: cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1923/2003.
[22] Recte i privati cittadini: cfr. Consiglio di Stato, n. 2716/2004.
[23] Così Tar Sardegna, Sez. II, n. 1782/2004.
[24] Sentenza resa dal Consiglio di Stato, sez. V decisione 6 Giugno – 26 Settembre 2000, n. 5109. Nello stesso senso si era espresso l’Alto Consesso nella sentenza della Sez. V del 22 febbraio 2000, n. 940.
[25] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 2 aprile 2001, n. 1893.
[26] Cfr., da ultimo, TAR Toscana, Sez. I, 7 giugno 2005, n. 2785, che ha, invece, dichiarato “legittimo il diniego di accesso agli atti (verbali dei consigli di amministrazione, ecc.) opposto da una società a capitale pubblico totalitario di cui sono soci, ciascuno con il 50% delle azioni aventi diritto al voto, l’ente locale di cui l’accedente è consigliere comunale, e la Regione, nel caso in cui difetti l’assenso all’esercizio del diritto di accesso da parte dell’ente regionale; in tal caso, infatti, essendo le partecipazioni sociali della società destinataria dell’istanza ostensiva equamente divise (al 50%) tra l’ente locale e la regione, la medesima società, da un lato, non può farsi automaticamente rientrare, ai fini dell’ambito di applicazione della disposizione legislativa ex art. 43, 2° comma D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, tra i soggetti pubblici nei confronti dei quali è possibile esercitare "l’actio ad exhibendum", e, dall’altro, non può considerarsi "ente dipendente" del solo Comune, ai sensi e per gli effetti della norma di cui al citato art. 43, comma 2, del D. lgs. 267/2000”.
[27] Consiglio di Stato, Sez. V, 19 settembre 2000, n. 4850; 15 maggio 2000, n.2735; v. anche C.Cost. 12 febbraio 1996, n. 28).
28 Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 22 maggio 2001, n. 2835; Tar Lazio, Sez. II, 24 agosto 2004, n. 8077; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Lombardia, 20 marzo 2001, n. 303; Corte Cassazione, Sez. Un., 18 dicembre 1998, n. 12708; Corte Cassazione, Sez. Un., 5 giugno 1997, n. 5085.
[29] L’art. 1 della normativa secondaria citata stabilisce che per l’esercizio dei servizi pubblici e delle opere accessorie connesse, possono essere costituite società miste a prevalente capitale privato, nel qual caso la scelta del partner privato deve avvenire mediante una procedura concorsuale ristretta, assimilata all’appalto concorso di cui al d. lgs. 157/1997.
[30] Trattasi delle sentenze della Corte Costituzionale, 2 febbraio 1990, n.51 e Consiglio di Stato, Sez. VI, 12 marzo 1990, n.374, secondo i quali, rispettivamente, “per le attività inerenti alla capacità di diritto privato ciò che va considerato concerne essenzialmente l’esistenza di un rapporto servente o di collegamento strumentale tra tali attività e le finalità proprie della regione come ente esponenziale degli interessi della comunità regionale”, nonché, da parte del Consiglio di Stato con prospettiva più specificamente indirizzata alla problematica in esame, “l’ente pubblico, quale soggetto giuridico, ha una pienezza di capacità che gli consente di far tendenzialmente ricorso a tutti gli strumenti conosciuti dall’ordinamento per raggiungere i propri scopi; dunque, non può dubitarsi della facoltà degli enti locali territoriali di costituire società per azioni, per la cui attività il territorio non rileva, potendo rappresentare un limite all’esercizio delle potestà pubblicistiche ma non della capacità di diritto privato; sarà dunque ammissibile lo svolgimento di tutte quelle attività – e solo di quelle – in cui sia rinvenibile un obiettivo e diretto riferimento al complesso degli interessi della collettività impersonata dall’ente”).
[31] Sugli orientamenti giurisprudenziali per accordare società di capitali e servizio pubblico ai cittadini si veda M. M. FRACANZANI, Le società degli enti pubblici: tra codice civile e servizio ai cittadini.
[32] Si cerca, in altre parole di comprendere, oltre ad individuare una ragionevolezza della determinazione legislativa, quale “logica razionale” abbia seguito il legislatore nell'ambito della sua discrezionalità.
[33] Tale indirizzo interpretativo fu istituito dai giuristi romani per i quali già allora (traducendo dal Digesto):“interpretare le leggi non significa capire meccanicamente le loro parole, ma comprenderne l’effettiva portata nel suo complesso”. Scire leges - si legge nel libro 26° dei digesti – non hoc est verba earum tenere, sed vim ac potestatem (D.1,3,17.Celso).
[34] Si veda Consiglio di Stato, Ad. Pl., 22 aprile 1999, n. 4, in cui “Ogni attività dell’amministrazione, anche quando le leggi amministrative consentono l’utilizzazione di istituti del diritto privato, è vincolata all’interesse collettivo, in quanto deve tendere alla sua cura concreta, mediante atti e comportamenti comunque finalizzati al perseguimento dell’interesse generale. L’attività amministrativa è configurabile, non solo quando l’amministrazione eserciti pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa – nei limiti consentiti dall’ordinamento – persegua le proprie finalità istituzionali mediante un’attività sottoposta, in tutto o in parte, alla disciplina prevista per i rapporti tra i soggetti privati (anche quando gestisca un servizio pubblico o amministri il proprio patrimonio o il proprio personale)”.
[35] A tal proposito si veda TAR Puglia, Lecce, 4 marzo 2004, n. 1675; Consiglio di Stato, VI Sez., 24 maggio 2002, n. 2855; Consiglio di Stato, VI Sez., 16 dicembre 1998, n. 1683; TAR Lazio, Roma, II Sez., 21 luglio 1998, n. 1201; TAR Lazio, Roma, III Sez., 8 luglio 1997, n. 1586.
[36] Cfr. Consiglio di Stato, VI Sez., 19 luglio 2002, n. 4009; Consiglio di Stato, VI Sez., 7 agosto 2002, n. 4152; TAR Puglia, Lecce, 4 marzo 2004, n. 1675; TAR Lazio, Roma, II Sez., 1 giugno 2001, n. 4836; Consiglio di Stato, Ad. pl., 22 aprile 1999, n. 4.
[37] V. Consiglio di Stato, VI Sez., 28 novembre 2003, n. 7798; TAR Lombardia, Milano, 20 aprile 2001, n. 3138; Consiglio di Stato, VI Sez., 17 marzo 2000, n. 1414.
[38] Così oggi il d. lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 che ha introdotto il Codice della proprietà industriale, a norma dell’art. 15 della l. 12 dicembre 2002, n. 273.