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n. 11/2013 - © copyright

G. PAOLO CIRILLO
(Presidente di Sezione del Consiglio di Stato)

La frammentazione della funzione nomofilattica (*)

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1. In un incontro del tipo di quello di oggi, dove si confrontano magistrati appartenenti a due sistemi giuridici completamente diversi, vale la pena indugiare ancora un momento sulla funzione nomofilattica delle magistrature superiori, che sta subendo negli ultimi tempi una pericolosa frammentazione, a tutto discapito dei valori che quella funzione vuole affermare, ossia l’esatta e l’uniforme interpretazione della legge, al fine di tradurre la certezza del diritto in diritto alla certezza.

La certezza del diritto viene assicurata in un sistema giurisdizionale piramidale da quel giudice che si pronuncia in via definitiva sulla controversia, e normalmente per i giudici di merito il punto di riferimento è costituito non solo dalle pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione e dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ma anche, e più frequentemente, dalle pronunce delle sezioni in cui si scompone il giudice superiore.

Per quanto riguarda invece l’uniforme interpretazione della legge si fa riferimento proprio ai due organi predetti, laddove le sezioni cui è assegnato il ricorso rilevano che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, oltre alla possibilità di deferire ai due consessi qualunque ricorso per risolvere questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere i contrasti giurisprudenziali.

2. In un sistema come il nostro, ma che è comune ad altri paesi europei, dove esiste una giurisdizione amministrativa e una giurisdizione ordinaria e dove l’individuazione della giurisdizione avviene sulla base dell’oggetto della domanda a protezione delle situazioni giuridiche soggettive che si assumono lese, strutturalmente diverse e storicamente sedimentate, si pone il problema di chi debba risolvere il conflitto quando non risulta chiara la natura della situazione giuridica soggettiva di cui si chiede tutela.

La nostra Costituzione ha stabilito che debba essere la Corte di cassazione a risolvere i conflitti di giurisdizione sulla base dell’oggetto della domanda. In altri paesi, come in Francia ad esempio, i conflitti vengono risolti da un apposito giudice formato da magistrati del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione. Da più parti si auspica una riforma in tal senso anche in Italia, e la discussione comprende anche il tema se sia o meno necessaria una riforma costituzionale per realizzarla oppure sia sufficiente una legge ordinaria, con la quale si stabilisca di integrare la sezione della Corte di cassazione con magistrati del Consiglio di Stato.

3. Tornando alla sottofunzione della uniformità della legge, il nostro sistema sembra considerarlo un valore in sé e pertanto con le recenti riforme il legislatore ha voluto potenziarla.

Infatti, ha inciso sugli istituti processuali che tradizionalmente assicurano la funzione in esame, ossia la enunciazione del principio di diritto, la cassazione nell'interesse della legge, la correzione della motivazione in diritto, rafforzando i poteri dell'organo delle Sezioni Unite; e poi via via quelli dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e delle Sezioni riunite della Corte dei conti.

In un ordinamento non fondato sulla regola dello stare decisis gli strumenti sono quelli e solo quelli, e non ci si può spingere fino al punto di immaginare che il vincolo della pronuncia della Cassazione possa andare oltre l'ambito del giudizio nel quale è stata emanata.

Sinora il sistema ha funzionato attraverso l'applicazione sistematica della regola, peraltro inventata dalla Cassazione, del limite interno ed esterno della giurisdizione. Essa ha fatto sì che le singole magistrature svolgessero la funzione in esame all'interno del proprio ambito giurisdizionale (nomofilachia interna), tranne che per le questioni attinenti alla giurisdizione (nomofilachia esterna), per i quali la Cassazione, individuata dalla Costituzione quale organo dirimente, più che svolgere una funzione nomofilattica, più efficacemente e più semplicemente, dirimeva, appunto, la questione di giurisdizione.

Da qualche tempo il sistema avverte degli scricchiolii, sia nei rapporti tra le magistrature superiori interne e sia nei rapporti tra queste e le Corti comunitarie.

4. Per quanto riguarda il rapporto tra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa, la causa della lamentata frammentazione viene da un istituto in sé positivo, ossia dal riconoscimento del principio da parte della Corte costituzionale (sentenza n. 77 del 2007) della c.d. traslatio iudicii , laddove si è stabilito che si conservano gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.

Infatti, la Corte di cassazione, a partire da allora e facendo leva sul principio dell'unità della giurisdizione, ossia sulla necessità che il soggetto trovi sempre e comunque la tutela massima quale che sia la giurisdizione dove è stata attratta la controversia che lo riguarda, ha finito con il superare spesso il limite esterno della giurisdizione, laddove, accanto al sindacato dell'"eccesso" di potere giurisdizionale non solo rispetto alla giurisdizione ordinaria, ma anche rispetto ai tre tipi di giurisdizione assegnati al giudice amministrativo, ha individuato anche il "difetto" di esercizio del potere giurisdizionale, arrivando ad indicare come il potere debba essere esercitato. In proposito basta leggere l’ultima relazione del primo presidente della Cassazione, laddove si afferma che il giudizio del riparto "non è più riconducibile ad un giudizio di qualificazione della situazione soggettiva dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, né rivolto al semplice accertamento del potere di conoscere date controversie attribuito ai diversi ordini di giudici di cui l’ordinamento è dotato, ma nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi, che comprende, dunque, le diverse tutele che l’ordinamento assegna a quei giudici per assicurare l’effettività dell’ordinamento".

Tale svolta giurisprudenziale è stata vista dalla Cassazione non tanto come un modo per rendere effettiva la tutela giurisdizionale, quanto un modo per realizzare l’unità della giurisdizione, accentrandola presso di se.

È nota la vicenda relativa alla cosiddetta pregiudiziale amministrativa e al contrasto poi, ricomposto, con l'emanazione degli articoli 7e 30 Cpa.

Così come sono note le sentenze (nn. 30254 del 2008; 14666 del 2011; 736 e 2312del 2012) nelle quali il giudice del riparto è giunto a sindacare la sentenza del Consiglio di Stato con la quale, in un giudizio di ottemperanza, aveva disposto la nomina "ora per allora" di un magistrato nel frattempo collocato in pensione, in presenza della pervicace insistenza del Consiglio superiore della magistratura a riemanare un provvedimento di contenuto uguale a quello dell'atto precedentemente annullato; ha sindacato la decisione del Consiglio di Stato avente ad oggetto la valutazione di inaffidabilità da parte della stazione appaltante di un'impresa concorrente in un appalto pubblico; ha ritenuto sfornito di giurisdione il giudice amministrativo in ordine alla decisione sulla sorte del contratto successivo all'annullamento dell'aggiudicazione, anche se ciò avveniva prima della nota direttiva comunitaria sulla base della quale poi è stata riconosciuta.

Addirittura, in una di quelle sentenze (14666/2011) si afferma che "le chiare difformità della nomofilachia della Corte di cassazione, rispetto alla ermeneutica dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, impediscono di dare rilievo di giudicato alle affermazioni della pronuncia impugnata", lasciando chiaramente intendere che detta funzione sia unicamente concentra presso il giudice del riparto.

È utile ricordare che proprio la sentenza (n. 77/2007) della Corte costituzionale, che ha riconosciuto il principio della traslatio iudicii, ora peraltro riconosciuto anche dal codice sul processo amministrativo (art. 11, quarto comma, Cpa), ben consapevole dei pericoli che potevano venire dall'applicazione disinvolta del principio in ordine al quadro della distribuzione del potere nomofilattico, ha tenuto a ribadire che <<la conservazione degli effetti prodotti dalla domanda originaria discende non già da una dichiarazione del giudice che declina la propria giurisdizione, ma direttamente dall'ordinamento, interpretato alla luce della Costituzione; ed anzi deve escludersi che la decisione sulla giurisdizione, da qualsiasi giudice emessa, possa interferire con il merito (al quale appartengono anche gli effetti della domanda) demandato al giudice munito di giurisdizione.>> Il giudice delle leggi poi continua così: <<La conferma di ciò è nella circostanza che perfino il supremo organo regolatore della giurisdizione, la Corte di Cassazione, con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell'articolo 111, comma ottavo, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione; e ad analogo principio, conforme a costituzione, si ispira l'articolo 386 cod. proc. Civ. (applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell'articolo 362, comma primo, cod. proc. Civ.) disponendo che <<la decisione sulla giurisdizione è determinata dall'oggetto della domanda e quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda>>.

5. Va detto che il Consiglio di Stato sinora non ha voluto cedere alla tentazione di ricorrere alla Corte Costituzionale affinchè si ripristinasse il quadro corretto della distribuzione del potere nomofilattico tra le magistrature superiori, le cui funzioni e ambiti di intervento sono salvaguardate dalla Costituzione.

L’occasione per farlo si è avuta recentemente (sez. VI n. 4174 del 14/8/2013), quando, proprio nel giudizio del rinvio susseguente alla ricordata pronuncia avente ad oggetto la valutazione di affidabilità dell’impresa concorrente, la stessa sezione VI, che nel primo giudizio aveva ritenuto illegittima l’esclusione dell’impresa inaffidabile con la quale continuava ad avere rapporti contrattuali, ha invece poi ritenuto, e del tutto legittimamente, l’esatto contrario. Quindi nel caso di specie, non solo non ha sollevato il conflitto perché la Corte di Cassazione non si era limitata a dire, come il sistema del riparto gli imponeva, che il giudice adito era quello giusto, ma ha sostanzialmente aderito alla forse "sconfinante" impostazione della stessa Corte, laddove ha implicitamente riconosciuto che la sezione, nel primo giudizio, aveva erroneamente ritenuto insussistente il presupposto della grave negligenza, avendo invece esibito un mero giudizio di non condivisibilità circa l’operato dell’amministrazione.

E’ doveroso precisare che nessuna critica si intende muovere al giudice del rinvio, che anzi ha avvertito l’inopportunità di sollevare un conflitto laddove, molto probabilmente, nel merito il ricorrente aveva ragione, dimostrando ancora una volta che i giudici vanno alla sostanza delle cose e non amano indulgere a querelle su quale sia "il giudice ultimo", a tutto danno di chi chiede tutela. Invece, più di qualche perplessità suscita il fatto che la non corretta applicazione delle regole del sistema elaborato dalla stessa Corte di Cassazione, circa la determinazione della giurisdizione attraverso l’automatica applicazione della regola dell’oggetto della domanda, può generare discrasie nel sistema non facilmente governabili.

Le pericolose implicazioni, al di la del caso specifico, che da questa pronuncia possono derivare al funzionamento del sistema sono di palmare evidenza, sol che si guardi la vicenda dal punto di vista dei ricorrenti. Tanto più che esso costituisce il primo vero caso di eccesso di potere giurisdizionale su cui si è pronunciata la Cassazione in maniera cosi invasiva, come ha dimostrato un apprezzato processualista (B. Sassani), che ha dedicato uno scritto specifico alla esemplare vicenda.

6. Si diceva di come il quadro stia mutando, non solo per gli effetti di un ripensamento del limite esterno della giurisdizione, ma anche per gli effetti pervasivi del diritto comunitario e dei principi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che colloca presso i giudici europei una specie di "super funzione nomofilattica".

Vediamo come.

Il principio di effettività, mentre nelle applicazioni dell'ordinamento interno ha avuto un andamento costantemente ispirato a fornire adeguata protezione all'interesse materiale di chi agisce in giudizio, nella giurisprudenza comunitaria si è tradotto nella possibilità di evitare che le situazioni giuridiche soggettive di derivazione comunitaria trovassero ostacoli e difficoltà di natura processuale presso i giudici nazionali.

La Corte di giustizia europea, laddove venga dedotta l'inesistenza di quella "tutela minima" presso il giudice nazionale, verifica, in astratto e in concreto, se la disciplina processuale nazionale impedisca o renda eccessivamente difficile la tutela della situazione giuridica dedotta in giudizio, sulla base dei principi di effettività e di equivalenza.

Il principio di effettività si fonda sul confronto, effettuato dalla Corte di giustizia, tra il livello di tutela offerto dall'ordinamento nazionale e lo standard minimo di tutela, da garantire in maniera uniforme nell'ordinamento europeo.

Orbene, il riconoscimento formale del principio di effettività della tutela giurisdizionale nella Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea (art. 47), ha generato non poche confusioni sul rapporto intercorrente tra il principio di effettività europeo e quello interno, avente dignità costituzionale, del giusto processo, così come riconosciuto dall'articolo 111, comma 1, della Costituzione.

In realtà, da un confronto tra la normativa costituzionale (articoli 24,25, 101,103, 108,111, commi 1 e 2) e la normativa europea (articolo 47 della C.E.D.U.) si ricava facilmente come i modi per realizzare sia l'effettiva tutela e sia il giusto processo sono sostanzialmente identici . Invece, non vi è identità nell'applicazione dei due principi, vuoi perché essi traggono origine da due ordinamenti diversi, vuoi perché il primo viene applicato dalla Corte di giustizia europea e il secondo dai giudici nazionali, ed in particolar modo dalla Corte costituzionale.

Sul piano pratico questo comporta che, prima dell'entrata in vigore del codice sul processo amministrativo, era necessario distinguere sistematicamente, a seconda che la situazione giuridica soggettiva da tutelare fosse di derivazione comunitaria o europea, l’effettività dal giusto processo. Con la codificazione dei due principi, e il richiamo espresso al diritto europeo, la distinzione non è più necessaria, in quanto il livello minimo di tutela europea va osservato anche in presenza di disposizioni interne che incidono su materie sottratte alla competenza comunitaria.

In altri termini, il ricorrente che assuma di essere leso dall'azione amministrativa, anche quando essa abbia un'origine esclusivamente nazionale, ha il diritto di ottenere la tutela massima possibile, potendo invocare sia quella che si fonda sulla diritto nazionale sia quella che si fonda sul diritto europeo. Lo strumento di penetrazione di quest'ultimo in quello nazionale è rappresentato proprio dal principio di effettività della tutela giurisdizionale.

7. Inoltre l’articolo 2, primo comma, Cpa, intitolato al giusto processo, stabilisce che il processo amministrativo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall'articolo 111, primo comma, della Costituzione.

E’ noto come la nostra Corte costituzionale consideri il giusto processo come una sorta di modello ideale di tutela giurisdizionale, desumibile dal sistema disegnato dagli articoli 24,98, 101,103, 108,111 e 113 della Costituzione, dove colui che deduca la lesione di un proprio diritto o interesse legittimo deve trovare un livello di tutela minimo oltre il quale la legge processuale non può spingersi, pena l'incostituzionalità della norma.

Tuttavia, tale modello ideale di tutela giurisdizionale viene influenzato dal modello di tutela giurisdizionale comunitario, elaborato dalla Corte di giustizia sia in applicazione del principio di effettività sia dall'interpretazione che la stessa fornisce dell'articolo 6, comma uno, della C.e.d.u., che pure disciplina il giusto processo.

La sostanziale identità del modello comunitario (elaborato dalla Corte di giustizia europea) e di quello interno (elaborato dalla Corte costituzionale), prodotti dall'applicazione dei due principi, rispettivamente dell'effettività della tutela e del giusto processo -e che finiscono per confondersi o comunque per denominare in modo diverso fenomeni convergenti- impone di comprendere il rapporto tra il giusto processo nazionale e il medesimo principio sancito nella Convenzione europea. Questo implica la comprensione della collocazione gerarchica della Convenzione nel sistema delle fonti e consente di stabilire se la giurisprudenza europea formatasi sugli articoli 6 e 13 C.e.d.u. possa trovare applicazione diretta nell'ordinamento interno.

E’ noto il percorso seguito dalla Corte costituzionale sulla collocazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo nella gerarchia delle fonti e sul modo di far penetrare nell'ordinamento interno l'interpretazione e l'applicazione da parte della Corte di giustizia delle norme di cui si compone.

Prima della modifica dell'articolo 117 della Costituzione, ossia prima che, al primo comma, si stabilisse che la potestà legislativa viene esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, la Corte costituzionale aveva escluso la possibilità che le norme della convenzione fossero utilizzabili come parametro interposto della legge italiana, in ragione del fatto che, essendo esse inserite nel nostro ordinamento con legge ordinaria, non potevano considerarsi sovraordinate alle altre disposizioni legislative interne.

Con l'indicata revisione costituzionale dell'articolo 117, la normativa della Convenzione viene ora considerata come fonte interposta, ossia subordinata alla Costituzione ma sovraordinata alla legge ordinaria. Questo comporta la possibilità di sollevare questioni di legittimità concernenti la violazione, in via mediata, dell'articolo 117, comma uno, della Costituzione nell'ipotesi in cui la legislazione interna sia incompatibile con quella europea, tenuto anche conto dell'interpretazione che di essa ha fornito la corte di Strasburgo.

8. Tuttavia, tende ad affermarsi l'idea presso la giurisprudenza del Consiglio di Stato che gli articoli 6 e 13 della Convenzione europea sarebbero direttamente applicabili nel diritto interno, a seguito dell'entrata in vigore del nuovo testo dell'articolo 6 del trattato U. E., così come modificato dal trattato di Lisbona (Cons St., IV, 1220/2010; Tar. Lazio, II, n.1194/2010; Tar Sardegna, n. 303/2010).

Ma va ricordato che successivamente a tali sentenze ve ne sono altre che si sono allineate all’orientamento della Corte costituzionale della non diretta applicabilità delle norme di CEDU in presenza di difforme legislazione nazionale, statuendo che il riferimento ai principi della convenzione abbiano esclusivamente una funzione interpretativa delle norme nazionali difformi (sez. VI, 15 marzo 2012, n. 1438; sez. V, 1 marzo 2012, n. 1194; sez. VI, 18 giugno 2012 n. 3541; Tar Lazio, sez. I, 24 ottobre 2012, n. 8746).

A ciò bisogna aggiungere che la materia è attraversata da una certa turbolenza, soprattutto a seguito della sentenza della Corte di giustizia, CE, Grande Sezione, 5 ottobre 2010, causa C-173/09, laddove ha ritenuto che spetta ad essa sola l'interpretazione del diritto europeo, consentendo al giudice di grado inferiore di non attenersi a quanto statuito dal giudice di ultima istanza, nello stesso processo riassunto a seguito di cassazione con rinvio, avendo la possibilità di rimettere la questione di interpretazione alla Corte di giustizia, qualora ritenga che quanto statuito dal giudice superiore non sia conforme al diritto europeo.

Questa sorta di "insubordinazione" si registra anche da parte dei giudici amministrativi di prima istanza, laddove, non condividendo quanto statuito nell'Adunanza Plenaria n. 4 del 2011 sul cosiddetto ricorso incidentale incrociato in materia di contenzioso per appalti pubblici, al fine di superare l'indirizzo del supremo consesso della giustizia amministrativa, si sono rivolti al giudice europeo chiedendo l'avviso della Corte di giustizia in merito alla compatibilità della soluzione di diritto vivente scelta dall'Adunanza Plenaria, a loro avviso in contrasto con i principi di parità delle parti, di non discriminazione e di tutela della concorrenza nei pubblici appalti (sentenze Tar Lazio n. 197 del 2012 e Tar di al tema delle andature oggi Piemonte n. 208 2012). E tutti sappiamo che il principio affermato dalla Adunanza Plenaria è stato sconfessato dalla Corte di giustizia europea (C. G. E. 4 luglio 2013 C 100/12).

Risulta evidente il processo di affermazione della primazia del diritto europeo, che va sempre più unificandosi, e dove le corti sovranazionali svolgono un ruolo nomofilattico, a scapito delle magistrature superiori interne, anche nel campo del processo amministrativo, nonostante la disposizione di cui all'articolo 99 del codice.

9. In conclusione, non vi è ancora un orientamento consolidato e stabile che chiarisca se, in un giudizio in cui venga in rilievo un’incompatibilità tra la disciplina interna e il livello di tutela minima definito dal diritto comunitario o comunque dalla Convenzione europea, il giudice della controversia debba astenersi dall'applicare le disposizioni interne "ineffettive" oppure debba sollevare un'apposita questione di legittimità costituzionale.

Forse l'ultimo baluardo all’incontrollato erompere nel sistema del diritto comunitario e della funzione nomofilattica delle Corti europee, e che al tempo stesso garantisca la corretta distribuzione della stessa nell’ordinamento interno, è costituito proprio dalla Corte costituzionale. Essa è chiamata a ristabilire l’ordine di distribuzione della funzione nomofilattica così come concepita dalla nostra Costituzione, consapevole dell’esistenza di diversi ordini giurisdizionali, agendo in due direzioni: verso l’interno, facendo sì che ciascun ordine giudiziario eserciti tale funzione nell’ambito della propria giurisdizione; verso l’esterno, facendo sì che le Corti di giustizia europea rispettino il principio della libera applicazione della norma comunitaria da parte del giudice nazionale, che pure deve tenere conto dell’interpretazione fornita dalle corti stesse.

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(*) Relazione tenuta all’incontro tra il Consiglio di Stato e la Corte Suprema del Regno Unito il giorno 25 ottobre 2013 a Palazzo Spada, sul tema"Le garanzie dei diritti a fronte del potere pubblico. Due esperienze a confronto: Regno Unito ed Italia."


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