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TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO - Inaugurazione dell’anno giudiziario 2004 - Relazione del Presidente Corrado Calabrò (Roma, 10 febbraio 2004).
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Quando la legge 6 dicembre 1971 n. 1034 vide finalmente la luce e vi si potè leggere che la giurisdizione amministrativa in primo grado veniva devoluta integralmente ai Tribunali amministrativi regionali, un anziano collega (per anziano intendo dell’età che ho io adesso) mi affrontò (ricordo ancora esattamente il posto: sulla soglia che dà dall’aula della I^ Sezione all’anticamera del Presidente, a palazzo Spada) e mi disse: «Avete declassato la giustizia amministrativa al livello delle Giunte provinciali amministrative!»
Ebbene: nel 2002 il 90% (90,14%)* delle sentenze dei TAR non sono state appellate.
Si dirà: «Non per questo può affermarsi ch’esse siano appaganti; saranno prevalse ragioni di economia; o di stanchezza». E’ probabile che queste, ed altre ragioni, abbiano concorso. Si tratta, del resto, di considerazioni che valgono per qualsiasi giudizio. E tuttavia mi ha colpito nella relazione del Procuratore generale della Cassazione del 12 gennaio scorso che i ricorsi in Cassazione siano invece aumentati.
Mettiamo accanto a quello riferito un altro dato: la percentuale di sentenze dei TAR riformata in appello è del 39% (39,84%). Il che significa che le sentenze di primo grado che definiscono il giudizio perché non appellate o perchè confermate in secondo grado, costituiscono il 96% (96,07%) del totale.
Questa è oggi la giurisdizione dei TAR, questa è oggi la giustizia amministrativa.
Si osserverà che la risposta viene in primo luogo attraverso le misure cautelari. Innegabilmente la straordinaria prontezza delle misure cautelari del giudice amministrativo nonché l’incisività, la multiformità, l’atipicità e l’adattabilità di tali misure giocano un ruolo determinante per l’efficacia della nostra giustizia.
Non sarà mai abbastanza considerata l’importanza del fattore tempo: per i ricorrenti ma altresì per l’Amministrazione, con la cui linea d’azione è destinata a interagire la pronunzia del giudice amministrativo.
Viene osservato che la giustizia cautelare è sommaria. E’ vero: ma ai cittadini piace; piace meno all’Amministrazione che a volte non fa in tempo a difendersi. Ci sono comunque dei correttivi: alcuni li ha introdotti la legge (in primis la legge n. 205 del 2000, poi la legge sui collaboratori di giustizia -13.2.2001 n. 45, art. 10-, quindi il decreto legislativo sulle opere infrastrutturali –20.8.2002 n. 190-; infine il decreto legge sul calcio -19.8.2003 n. 220-; altri si devono all’avvertenza e al senso di misura del giudice amministrativo, altri ancora scaturiscono dalla prassi e/o dall’accentuata attenzione dell’Amministrazione (almeno per gli atti per essa più importanti) nonchè dal reciproco fair play delle parti.
Certo, l’obbligo di motivazione delle ordinanze cautelari è una sfida: farsi capire in poche righe anziché spiegarsi in decine di pagine è una sfida degna di un La Rochefoucauld o di un Ungaretti. Ma in genere le parti capiscono: a volta capiscono addirittura l’antifona.
Se questo è il sistema, e questo è il suo funzionamento, ne consegue che è consigliabile riflettere, riflettere molto prima di metterci le mani: vuoi sottraendo alla giurisdizione di primo grado i ricorsi contro le Authorities, vuoi interponendo una Corte d’appello tra i TAR e il Consiglio di Stato, vuoi interpolando e sovrapponendo un giudizio nomofilattico al giudizio amministrativo in corso o definito; vuoi, persino, introducendo nuove norme di procedura quando ancora non sono state bene assimilate o assestate le innovazioni della legge 205.
La legge 205 è una miniera che non è stata ancora esplorata a fondo. E alcuni suoi fondamentali filoni non sono stati ancora consolidati dal giudizio della Corte costituzionale.
Fondamentale, anzi rifondante, è la concentrazione del giudizio derivante dall’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione per blocchi di materia al fine di evitare diversificazioni di iter processuali, defatiganti duplicazioni di giudizi e sconcertanti diversità di esiti. La giurisdizione per blocchi di materie non mira solo a evitare la dissociazione tra questioni connesse riguardanti interessi legittimi e diritti soggettivi, ma risponde complementariamente all’esigenza –finalizzata a un tempo alla tutela dei cittadini e alla salvaguardia del ruolo dell’Amministrazione- di non sottrarre al giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica controversie in cui il potere è sì vincolato ma per tutelare innanzi tutto l’interesse pubblico. Un grande progresso sulla via della semplificazione, economicità, tempestività, univocità, e in definitiva effettività, della tutela giurisdizionale.
L’incorporazione della risarcibilità del danno nel giudizio annullatorio porta addirittura a una nuova lettura interattiva delle regole e dei criteri-guida del diritto amministrativo in combinazione con le norme del diritto comune, finalizzata a una valutazione –funzionalmente sostenibile e al tempo stesso quanto più possibile sostanziale- del comportamento dell’Amministrazione agli effetti risarcitori. In applicazione del criterio, riaffermato dal Consiglio di Stato, dell’abbinamento della tutela risarcitoria con quella di annullamento, è stato ritenuto (TAR Lazio, I^ bis, sentenza n. 6382/2003) che la domanda di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale ed extracontrattuale sia ammissibile e resti procedibile solo a condizione che sia tempestivamente impugnato il provvedimento illegittimo e sia stato coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento.
Qualora la Corte costituzionale dovesse sottrarre al giudice amministrativo la giurisdizione in materia di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, non si avrebbero soltanto due giudici per una controversia fondamentalmente unitaria: si avrebbero due diverse valutazioni di essa da due diversi punti di vista. Infatti, con la risarcibilità degli interessi legittimi è progressivamente emersa una nuova correlazione tra gestione del pubblico interesse e responsabilità, non riconducibile a schemi civilistici che prescindano dalla valutazione funzionale del potere esercitato. In particolare, si stenta a vedere come il giudice ordinario possa (con una vera mutatio elenchi) condannare l’Amministrazione al risarcimento del danno in forma specifica senza con ciò interferire funzionalmente sull’esercizio del potere amministrativo, effetto questo precluso alla radice dalla legge sul contenzioso amministrativo e dalla legislazione susseguente che ha istituito, correlativamente, la giurisdizione amministrativa. Spetta per sua natura e vocazione al giudice amministrativo collocarsi nell’ottica e sull’asse dell’azione amministrativa per correggerne l’angolazione secondo le indicazioni conformatrici della sua sentenza. Di tale principio ha fatto applicazione –appunto in tema di risarcimento del danno- questo TAR, ordinando, in conseguenza dell’annullamento (e caducazione) di tutti gli atti di gara, il rifacimento della procedura concorsuale e indicando tale modalità risarcitoria in forma specifica quale rimedio principale per le lesioni subite (I^ bis, sentenze n. 5527, 5528 e 7326/2003).
Non è questo l’approccio, non è questa la soluzione più rispondente per tutti?
In tale proiezione funzionalmente interattiva del giudizio amministrativo, più avanti che in altre materie il giudice amministrativo si è spinto nel contenzioso nei confronti delle Autorità amministrative indipendenti. E’ nota al riguardo la sentenza di questo TAR (I^, 16.1.2002, n. 398) con la quale si è riconosciuto che l’Amministrazione (nella specie l’Antitrust) possa e debba emendare il suo provvedimento, pur dopo la conclusione del procedimento amministrativo, secondo le indicazioni impartite dal giudice amministrativo; e che ciò porti all’estinzione del processo per sopravvenuto difetto d’interesse del ricorrente.
L’irrogazione di sanzioni in tale materia è la necessitata conseguenza delle valutazioni espresse nel provvedimento che forma oggetto del giudizio amministrativo. E infatti, con disposizione ch’era sembrata meramente dichiarativa, le legge 5 marzo 2001 n. 57 (art. 6) ha espressamente riconosciuto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le sanzioni in materia assicurativa.
Inopinatamente, -e non erano ancora passati due anni-, in diametrale controtendenza rispetto alle scelte fondamentali fatte con la legge 205, un intervento del legislatore delegato (art. 1 del d. lgs. 17.1.2003 n. 5) ha fatto macchina indietro, stabilendo che il contenzioso sulle sanzioni pecuniarie previste dal testo unico delle legge bancarie sia devoluto al giudice ordinario, scindendolo così da “tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito” (art. 33 del d. lgs. n. 80 del 31.3.1998, come sostituito dall’art. 7 della legge n. 205), rientranti nella giurisdizione, anche esclusiva, del giudice amministrativo. Si riapre così quella divaricazione che il legislatore aveva da poco finalmente ricomposto e risorge con essa la possibilità di valutazioni incomplete, divergenti e contrastanti, tanto più che tra esse non c’è pregiudizialità. Oltre tutto il giudice amministrativo –che la dottrina, dopo la concentrazione di giurisdizioni, ha definito giudice naturale dell’interesse pubblico nell’economia- è di straordinaria prontezza nella definizione dei giudizi concernenti le Autorità indipendenti (tra cui va annoverata la Banca d’Italia), come di tutti quelli cui l’art. 23 bis della legge 205 attribuisce la precedenza. Una velocità prima non conosciuta dalla giustizia, ordinaria e amministrativa, né di questo Paese né –ch’io sappia- di altri Stati. Difficile capire quindi le ragioni di questo passo fuori del quadro.
Un passo verso l’integrazione della giurisdizione è stato mosso invece dalla Cassazione a Sezioni Unite (15-10-2003 n. 15403), che, riorientando il proprio precedente indirizzo, ha assegnato al giudice amministrativo la giurisdizione per le controversie procedurali relative alle selezioni interne (per promozioni, non solo per assunzioni), assimilandole così a quelle sui pubblici concorsi. Questo TAR aveva sempre declinato la giurisdizione in materia, salvo in un caso in cui l’aveva invece ritenuta perché la selezione era aperta anche a personale appartenente ad altre Amministrazioni e non era sembrata quindi identificabile in toto con un concorso interno (I^, 7.2.2002, n. 874).
Indubbiamente il giudice amministrativo ha maggiore e specializzata esperienza delle regole e delle modalità tipiche dell’azione amministrativa e quindi di procedure concorsuali e più in generale di procedure ad evidenza pubblica: lo conferma la sua giurisprudenza dedicata a procedure di aggiudicazione, affidamento e esecuzione di opere e servizi pubblici, anche se gestite da soggetti non rientranti nella pubblica Amministrazione (organismi di diritto pubblico). L’assimilazione delle selezioni interne a quelle concorsuali risponde quindi a criteri di razionalizzazione. Il rischio, tuttavia, è che accentuandosi la vocazione specialistica del giudice amministrativo per la fase procedurale, esso finisca poi per venire estraniato dagli sviluppi successivi, come avviene già per il pubblico impiego per la fase successiva all’approvazione della graduatoria, per gli appalti una volta stipulato il contratto; in particolare, per le opere infrastrutturali, la legge precisa che la sospensione o l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione non determina la risoluzione del contratto già stipulato (cfr. art. 2, co. 2, d. lgs. n. 190/2002).
A chi temesse un’attenuata tutela dei privati da una giurisdizione ultra limina del giudice amministrativo, potrebbe farsi notare che, mentre il giudice dei diritti soggettivi ha per decenni e fino a ieri ritenuto che l’impresa che pure avesse contestato con successo l’illegittimità subìta in una gara pubblica non potesse chiedere l’invalidazione del contratto nel frattempo concluso con l’Amministrazione dall’illegittima aggiudicataria (contratto che si diceva essere annullabile solo ad iniziativa della parte pubblica), sono bastati un paio d’anni di giurisdizione del giudice degli interessi per far profilare soluzioni diverse, che saldano la scissione tra momento pubblicistico (la gara) e la gestione negoziale iure communi.
Il procedimento amministrativo -affermava Feliciano Benvenuti- «è la forma della funzione amministrativa»; e Aldo Sandulli ha scritto in proposito pagine che appartengono alla storia del diritto amministrativo. Ma il giudice amministrativo non può limitarsi a garantire il rispetto delle regole del gioco né a fare il regolatore del traffico. Il procedimento è garanzia ed è partecipazione; ma un’esasperata procedimentalizzazione può isterilire l’operatività amministrativa in un rito fine a se stesso. Parallelamente il giudizio di valore sull’esercizio del potere amministrativo –ch’è quello che contraddistingue e giustifica la giurisdizione amministrativa- non è confinabile in una fase propedeutica, in un circuito esterno avulso dall’ulteriore sviluppo teleologico della linea d’azione perseguita. No, il giudizio amministrativo è tendenzialmente rivolto al vivo dell’azione amministrativa, in concomitanza prima tendenziale e poi effettuale e immanente (in sede di esecuzione delle ordinanze cautelari e delle sentenze non definitive, in prima e seconda battuta; in sede di giudizio di ottemperanza, al postutto) con lo svolgimento in atto dell’azione amministrativa e col correlativo assetto d’interessi da essa determinato, sul quale è predisposto ad interferire progressivamente.
Forse è ispirata dalla preoccupazione per questo rischio la decisione del Consiglio di Stato (V^ Sezione, 14.7.2003 n. 4167) che, annullando una sentenza di questo TAR (Sez. II^, 28.1.2003 n. 506), ha proiettato ultrattivamente la funzione garantistica cui obbedisce il procedimento ad evidenza pubblica sull’effettivo, conseguente perseguimento dell’interesse pubblico, a procedimento propedeutico esaurito: mi riferisco alla cessione della centrale del latte di Roma. La controversia verteva sulla validità di una transazione con la quale erano state modificate talune rilevanti condizioni dell’aggiudicazione trasfuse nel contratto e, correlativamente, sull’illiceità dell’omesso esercizio da parte dell’Amministrazione dei poteri assegnatile da una clausola risolutiva espressa che avrebbe dovuto garantire la stabilità del contratto in cui era sboccata la procedura di affidamento. Il Consiglio di Stato ha ritenuto che sussista al riguardo la giurisdizione del giudice amministrativo, declinata dal TAR.
Ecco, proprio in materia di privatizzazione un insigne studioso ha accusato i TAR (rectius: il giudice amministrativo; ma a volte si parla a nuora perché suocera intenda) di voler continuare a tenere le società privatizzate sotto principi riconducibili a un regime pubblicistico.
Beh, se tener presenti principi pubblicistici comporta che un ricercatore per ottenere un computer debba sottostare a un’estenuante trafila burocratica, più e prima ce n’affranchiamo e meglio è. E questo non solo nelle società privatizzate, anche all’interno dello stesso apparato tradizionale della pubblica Amministrazione. Si proclama (e l’obiettivo è ormai fissato dalla legge: l. n. 241/1990) che la pubblica Amministrazione, nello svolgimento delle sue funzioni e nell’erogazione dei suoi servizi, deve informarsi a criteri di semplificazione, snellezza, rapidità, economicità (imprenditorialità, insomma) e poi ai dirigenti-manager non si lascia alcun potere nella provvista di uomini e, quanto alla provvista di mezzi, si nega loro addirittura l’autonomia d’iniziativa che il diritto vivente riconosce a un ragazzino di 14 anni: sì, con la centralizzazione degli acquisti e delle provviste, persino per l’acquisto di una scrivania o di una lampada occorre passare attraverso procedure macchinose.
Non era a questo che pensavano Benvenuti e Sandulli. E non è a questo che mira la nostra giurisprudenza: quello cui è attaccata, quello che pretende è che la pubblica Amministrazione, in qualsiasi forma e in qualsiasi regime giuridico agisca, non prescinda dalla considerazione dell’interesse pubblico. L’assunto poteva apparire scontato fino a qualche tempo addietro. Ma oggi viene posto radicalmente in discussione. Si parte dalla giusta osservazione che ormai l’interesse pubblico presenta tante facce quante sono le angolazioni sotto le quali lo si guarda. La molteplicità e la sovrapposizione di competenze, l’instabilità delle organizzazioni ad esse preposte, lo strabismo degli obiettivi perseguiti, rendono difficile, complessa, composita l’individuazione di un interesse pubblico che innanzitutto sia comune alle pubbliche Amministrazioni che lo perseguono. Se poi si tiene conto che tale polimorfico (plurimo, incoerente e a volte conflittuale) interesse pubblico deve coniugarsi, nell’azione amministrativa, con l’interesse privato in combinazione col quale deve determinare il giusto assetto d’interessi, la difficoltà si accresce ulteriormente.
All’esatta rilevazione della perdita di riferimento unico allo Stato, dell’eclissi del Governo e dell’erosione della supremazia della pubblica Amministrazione la dottrina contrappone un’irruzione sul campo degli organismi sociali in genere e sindacali in specie che, per la verità, è difficile riconoscere come i nuovi portatori per antonomasia di interessi superindividuali. La nostra società attraversa una crisi di valori aggreganti e di riferimenti decisionali: dallo Stato fino alla famiglia. Ed è evidente il primato dell’economia –ieri l’industria di base, oggi l’economia consumistica- sulla politica. Ma da qui a concludere che i soli modi di rapportarsi con gli altri e con l’insieme siano la produzione, il consumo, le rivendicazioni salariali e la comunicazione televisiva ci corre parecchio. Le società moderne più sviluppate economicamente stanno diventando sempre più individualistiche; ma è un’illusione che basti far osservare le regole della libera concorrenza per assicurare alla collettività il massimo di benessere comune conseguibile e che alla pubblica Amministrazione possano relegarsi soltanto compiti di mantenimento dell’ordine e di repressione della devianza. Dallo Stato totalizzante (e, in sciagurati modelli, totalitario) si tenderebbe a passare a una società senza legami. L’oscillazione del pendolo, purtroppo, va sempre da un estremo all’altro. Se fosse davvero questa la realtà sociale che abbiamo di fronte potremmo considerare un precursore (un Giovanni Battista dei nostri tempi dissacrati) quell’avvocato che negli anni settanta, quand’ero al Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, disse, in replica all’avvocato dello Stato: «Presidente, ma noi non neghiamo che l’interesse pubblico debba essere anch’esso tutelato; certo che va tutelato, nella misura in cui è sussumibile sotto l’interesse privato!».
Che lo svolgimento dei pubblici servizi debba avvenire con strumenti giuridici di diritto comune è ormai convincimento operativamente acquisito (l’economicità è un po’ più difficile da realizzare …); e che anche lo svolgimento delle pubbliche funzioni debba essere sempre meno legato a schemi formali si può convenire. In particolare da condividere era l’affermazione dell’irrilevanza dei vizi puramente formali, che rigenerava la distinzione tra irregolarità vizianti e non, elaborata in epoca risalente dalla giurisprudenza pretoria del Consiglio di Stato. Ma andava troppo in là il disegno di legge A.C. 3890 prevedendo come naturale, normalizzante, per la pubblica Amministrazione l’uso di strumenti privatistici nell’azione amministrativa. Il disegno di legge A.S. 1281-B, che ha rimpiazzato il precedente, ha modificato tale impostazione secondo una visione più pragmatica (e anzi forse troppo poco innovativa).
La tematica, probabilmente, va rimessa a fuoco. Se un soggetto non persegue un interesse superiore non c’è ragione di attribuirgli poteri sovraordinati. Ma non può perseguirsi efficacemente un interesse superiore soltanto con strumenti paritetici. Quale che ne sia il modello –anche il più liberale, che certo non ci dispiace- non può esistere società senza un interesse comune; e questo interesse, nelle società evolute e organizzate, prende il nome d’interesse pubblico. Un interesse che si colloca a un livello di valore diverso da quello sul quale si dispiegano gli egoismi dei singoli (provvidi o improvvidi che siano: una volta si diceva che l’assolutismo era illuminato; ora si dice che è l’individualismo ad esserlo). Comunque sia -a nostro sommesso ma convinto modo di vedere- l’interesse pubblico è l’ago della bussola, la stella polare cui deve guardare la pubblica Amministrazione anche quando nel perseguimento dei suoi obiettivi utilizza norme di diritto privato.
Un’altra importante innovazione della legge 205 ha trovato immediata e coerente applicazione in questo Tribunale amministrativo, ad opera tanto degli avvocati che dei collegi giudicanti: quella, rispondente a una visione quanto più possibile concentrata e concludente della controversia, che stabilisce che «tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti» (art. 1, che sostituisce il primo comma dell’art. 21 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034).
E’ il principio del simultaneus processus. Da esso possono trarsi alcuni corollari, sui quali si discute.
Il primo è che può ammettersi l’impugnazione di un atto lesivo anche quando il procedimento non sia stato ancora completato. Cospicuo esempio di tale ipotesi è offerto dalle delibere del Consiglio superiore della magistratura, delle quali questo TAR ha, da tempi risalenti, ammesso l’immediata impugnazione, sebbene non fosse stato ancora emanato il pedissequo decreto del Ministro della giustizia. Malgrado una prolungata resistenza dell’Avvocatura dello Stato, questa interpretazione va consolidandosi; e la recente sentenza n. 380 del 18/30 dicembre 2003 della Corte Costituzionale -che colloca il baricentro decisionale nella deliberazione del Consiglio superiore della magistratura- dimostra che avevamo visto giusto.
Tale notazione potrebbe avere un risvolto, e cioè che adesso sia meno giustificabile l’opinione che consentiva il differimento dell’impugnazione dell’atto lesivo fino al momento in cui se ne fosse conosciuta appieno la portata e/o la motivazione. Infatti la reazione immediata ben può essere integrata, melius re cognita, da motivi aggiunti.
Un altro corollario è che deve ormai ammettersi (e pretendersi) l’integrazione in progress del contraddittorio, non potendosi tenere fuori dal giudizio i soggetti potenzialmente pregiudicati dalla sentenza solo perchè la loro posizione (col correlato interesse) si è definita e radicata in un momento successivo alla proposizione del ricorso. In questo senso si è pronunciato questo TAR (I^, 18.7.2003 n. 6359; n. 340/2004, ch’è stata pubblicata il 16 gennaio 2004, ma decisa nel novembre 2003; per l’ammissibilità dei motivi aggiunti anche quando essi estendono il novero delle parti necessarie del giudizio: Cons. St., V, 21.11.2003 n. 1879).
Ma il principio affermato nell’art. 1 della legge 205 sottende un principio più profondo, un principio che caratterizza il sistema della giustizia amministrativa: vale a dire che tale sistema funziona adeguatamente solo se il giudizio amministrativo è concomitante allo svolgimento in atto dell’azione amministrativa e interagisce con essa. Sua primaria funzione, infatti, è di orientarla, correggendola in quanto occorra. E orientamento e correzione sono tanto più efficaci quanto più tempestivi: è questa l’effettività del sistema della giustizia amministrativa, il quale solo così giustifica la ragione per cui è stato istituito, con una missione differenziata rispetto a quella del giudice ordinario. Si tratta di una differenza qualitativa, categoriale, riconosciuta a livello costituzionale, con riflessi sullo stesso principio della separazione dei poteri.
Da tale principio, come ricordato, questo TAR ha dedotto la conseguenza più mirata con la richiamata sentenza 398/2002. Ma fin dal 1996 aveva ritenuto di poter imporre all’Amministrazione, in sede cautelare, un criterio operativo cui attenersi nell’ulteriore svolgimento della sua azione (futuri trasferimenti in applicazione scorrente della graduatoria, contestata ma non annullata e nemmeno sospesa, per non sconvolgere situazioni che in sede cautelare si era ritenuto opportuno non rimuovere (TAR Lazio, I^, ordinanza n. 3171/96).
Non c’è settimana, poi, che da quel principio non si traggano applicazioni in tema di verificazioni. Aspiranti dichiarati fisicamente inidonei alla visita d’arruolamento o di reclutamento impugnano quel giudizio tecnico. Il TAR dispone una verificazione (in genere presso una diversa Amministrazione) o una consulenza tecnica: se, all’esito, l’aspirante viene riconosciuto idoneo, il ricorso viene accolto; o, se l’Amministrazione abbia già provveduto in conformità, viene dichiarata la cessazione della materia del contendere (ma il vario modo d’interferenza della pronuncia giurisdizionale con la riedizione del potere amministrativo può anche portare alla dichiarazione del sopravvenuto difetto d’interesse).
Tutto questo quasi sempre avviene in sede cautelare, con istruttorie che s’innestano in quella fase.
Non dissimile è quanto si verifica in sede d’impugnazione di prove abilitanti o concorsuali (esami per avvocato, concorsi per notaio o per uditore giudiziario). In questi casi il giudice amministrativo, se accoglie l’istanza cautelare, adotta un provvedimento propulsivo ordinando alla stessa Commissione esaminatrice (in diversa composizione e con accorgimenti idonei a salvaguardare l’anonimato) di riesaminare le prove del ricorrente. L’esito, a prima vista, può apparire singolare perché è lo stesso sia che il candidato venga ammesso agli orali sia nell’ipotesi opposta: il sopravvenuto difetto d’interesse. Nel primo caso perché, attraverso una nuova valutazione dell’Amministrazione, il ricorrente ha conseguito il risultato cui praticamente tendeva; nel secondo perché c’è una nuova valutazione sfavorevole che sostituisce la prima, non potendo essere considerata meramente confermativa. Ma anche per l’Amministrazione deve ritenersi che normalmente sia venuto meno l’interesse alla prosecuzione del processo. Chiaramente, non basta che venga proposto ricorso perché sia disposta la verificazione/ricorrezione: occorre che siano addotti elementi e/o argomenti che facciano dubitare seriamente della legittimità dell’operato dell’Amministrazione. Ma una volta che la rivalutazione sia stata effettuata, la vicenda processuale non può non tener conto di tale evoluzione della vicenda sostanziale.
La pronuncia prima ricordata (la n. 398/02) è stata accolta piuttosto bene in dottrina ed è stata sostanzialmente confermata in appello (Cons. St., VI^, 25.2.03 n. 1054). L’esito processuale conseguente alle verificazioni e alle ricorrezioni viene invece risolutamente contestato.
Si fa rilevare che l’ordinanza cautelare non può portare a un esito del ricorso diverso da quello determinabile con la sentenza: o le censure sono fondate e allora il ricorso va accolto o non lo sono e allora va respinto. La ricorrezione dei compiti sarebbe un’attività svolta dall’Amministrazione non spontaneamente bensì in doverosa esecuzione di un’ordinanza. E’ questo il punto: nelle nostre pronunzie abbiamo ritenuto che anche un’attività amministrativa indotta da un’ordinanza propulsiva possa interagire col processo in corso se ha portato a una valutazione non spontanea sì ma tuttavia autonoma, non essendo stata la rivalutazione predeterminata dal giudice nei suoi contenuti e nel suo esito. Le censure deducibili col ricorso sono in effetti solo sintomatiche e strumentali. Il giudice amministrativo non può ricorreggere il compito (come in sostanza vorrebbe il ricorrente) ma può farlo correggere nuovamente dall’Amministrazione (o da un consulente tecnico). E una volta che la ricorrezione abbia dato esito positivo la verificazione (perché di questo si tratta) non varrebbe nulla? Perché dunque sarebbe stata disposta? D’altronde non si vuole che il giudice amministrativo sia sempre più attento al fatto? E la consulenza tecnica d’ufficio non mira forse a superare la barriera che impediva di ficcare lo sguardo nella discrezionalità tecnica? Nel nostro caso, addirittura, ex ore tuo existimo!
Certo, se questa opinione è giusta bisogna conseguentemente ammettere che il gioco processuale e l’interazione tra le pronunzie interinali del giudice e l’azione amministrativa possono portare anche a esiti diversi da quelli che –senza quell’interazione- sarebbero conseguiti dalla sentenza definitiva. Che è quanto qui si voleva porre in rilievo. Il salto non è piccolo ma ostacoli normativi e concettuali ben maggiori (addirittura di livello costituzionale: il principio della separazione dei poteri) sono stati affrontati e superati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato quando ha introdotto e sviluppato in tutte le sue potenzialità il giudizio di ottemperanza al giudicato.
Del resto è naturale che il primo a sperimentare le potenzialità insite nelle innovazioni legislative (e la legge 205 ne arreca tante) sia il giudice d’avamposto. Nel nostro caso, peraltro, la giurisprudenza di questo TAR trova un forte aggancio nella pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (27.2.2003 n. 3). Il dibattito comunque è aperto; attendiamo una pronunzia ex professo del giudice sovraordinato e uniformatore.
Ma tutti gli interessi che danno titolo a partecipare al procedimento amministrativo sono ammessi alla connessa tutela giurisdizionale? No. L’ampiezza della partecipazione al procedimento dinanzi alle Autorità amministrative indipendenti (ad es. in materia di pubblicità ingannevole) non trova un parallelo nella legittimazione processuale. Benché bypassato da molteplici eccezioni (comitati o associazioni costituiti e adeguatamente strutturati a tutela di interessi generalizzanti), in fondo lo sbarramento eretto dalla sentenza sul chiunque della V^ Sezione del Consiglio di Stato (9.6.1970 n. 532) contro la proliferazione di azioni popolari regge ancora. E si può capire: se non ci fosse un argine, la giustizia amministrativa verrebbe sommersa dall’assalto degli interessi meno qualificati a scapito di quelli più direttamente meritevoli di tutela. Tuttavia, quando il denunciante è anche titolare di un interesse che risente direttamente un pregiudizio dal provvedimento, la questione si pone con particolare rilievo. Sulla scia di certi orientamenti comunitari la risposta di questo TAR è stata negativa (I^, 5.5.2003 n. 3861) anche nei confronti di un’impresa che contestava una concentrazione d’imprese sue concorrenti, autorizzata dall’Antitrust. La questione è ora all’esame del Consiglio di Stato.
Due rilevanti questioni questo Tribunale amministrativo aveva sollevato, sottoponendole, rispettivamente, alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia della Comunità europea, ai sensi dell’art. 234 del Trattato (III^, ordinanza 8.2.2003, n. 803; e I^, ordinanza 4.4.2001, n. 2919).
La Corte costituzionale (con sentenza 24/29 settembre 2003, n. 301) ha ritenuto sostanzialmente fondati i dubbi di costituzionalità prospettatile dal TAR riguardo alla normativa di legge sulle Fondazioni bancarie, dichiarando l’illegittimità costituzionale di alcune norme e dando ad altre un’interpretazione tale da conformarle alle norme e ai principi costituzionali.
La Corte di giustizia, con sentenza dello stesso mese (9 settembre 2003 -proc. C-198/01), ha affermato, in materia di libertà di concorrenza, che l’obbligo di disapplicare una normativa nazionale in contrasto con il diritto comunitario incombe non solo al giudice nazionale, ma anche a tutti gli organi dello Stato, comprese le Autorità amministrative indipendenti (nella specie l’Antitrust): un principio, questo, gravido di sviluppi nel nostro ordinamento.
Risale invece al 2001 la pronuncia della Corte di giustizia (n. 285/2001) che ha affermato che il procedimento di verifica dell’anomalia delle offerte nelle gare d’appalto debba obbligatoriamente svolgersi in contraddittorio. A tale criterio si è uniformemente attenuta la giurisprudenza di questo Tribunale (tra le tante: I^ bis, sent. 2599/03).
Anche nel 2002 il tasso di litigiosità massimo è stato registrato nel Lazio: 0,30% (nel 2001 era stato dello 0,32%). Come numero di ricorsi proposti, però, la Campania è passata in testa: 16.451. La Campania è pure la Regione che ha il più forte arretrato: 213.397 ricorsi nel 2002.
Quanto alla distribuzione per materia dei ricorsi presso questo TAR, il pubblico impiego è al primo posto con 4.677 ricorsi: seguono la Campania con 1.746 ricorsi e la Puglia con 1.481. Tanto per dare la misura del divario, in Piemonte i ricorsi in materia sono stati 146, in Lombardia 329, in Abruzzo 180, in Basilicata 46 (dati 2002).
In questa materia questo TAR (Sezione III^ bis) è stato fortemente impegnato, anche nel 2003, dalle controversie relative all’attuazione del regime delle graduatorie permanenti per l’immissione in ruolo dei docenti abilitati. In proposito il legislatore è intervenuto (con la legge n. 333/2001) a rimodulare il sistema, semplificandolo secondo le indicazioni delle nostre sentenze. Ma è poi sopravvenuto il regolamento per la formazione e l’integrazione delle graduatorie permanenti per l’anno scolastico 2003/2004 (d.m. n. 40 del marzo 2003). Mentre le sentenze del luglio e dell’agosto 2002 (confermate dal Consiglio di Stato) avevano indicato i limiti legislativi all’assegnazione di punteggi aggiuntivi per le abilitazioni presso le S.S.I.S., le sentenze del luglio 2003 hanno in parallelo negato la legittimità di analoghi, ancorché più ridotti, punteggi aggiuntivi attribuiti ai docenti abilitati per canali diversi dalle S.S.I.S. (cosiddetti «precari storici»).
Fuori del pubblico impiego, ma in area adiacente, si collocano le controversie relative alla nomina dei vertici degli enti pubblici e al loro commissariamento. Al riguardo è stata affermata la giurisdizione di questo TAR ed è stata ritenuta l’illegittimità del commissariamento del CNR e della revoca e sostituzione del commissario straordinario dell’Istituto sperimentale per l’olivicoltura, ridimensionando l’applicazione del c.d. spoil-system (III^ ter, 6.3.2003 n. 1778; II^ ter, 8.4.2003 n. 3276).
Subito dopo il pubblico impiego viene, da noi, l’edilizia ed urbanistica (3.334 ricorsi) e poi l’attività varia della pubblica Amministrazione (2.394 ricorsi), comprensiva delle Autorità amministrative indipendenti: il relativo contenzioso costituisce una peculiarità di questo Tribunale.
Nel campo delle Authorities ha subito un forte incremento il contenzioso nei confronti dell’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, investendo anche la questione dell’estensione dei poteri dell’Autorità nei confronti delle società (c.d. S.O.A) deputate a rilasciare le attestazioni alle imprese ai fini della partecipazione alle gare (III^, n. 1355/2003; n. 1868/2003; n. 2988/2003; n. 7052/2003).
In materia elettorale è stato affermato (Sez. I^ ter, 16.5.2003 n. 4264) che, per lo scioglimento del Consiglio comunale per dimissioni della metà più uno dei suoi componenti, è necessario, affinché si verifichi l’effetto dissolutorio, che le manifestazioni di volontà siano univoche e contemporanee (o almeno contemporaneamente presentate).
Elevato rimane il numero di ricorsi per l’esecuzione o l’ottemperanza al giudicato proposti nei confronti delle Aziende unità sanitarie locali sulla base di sentenze di questo stesso TAR o del giudice ordinario. Le pretese dei creditori sembrano quindi trovare più rapida ed agevole soluzione attraverso il duttile strumento del commissario ad actus anziché mediante la procedura esecutiva del codice di procedura civile.
Frequente, in materia, è anche il ricorso al decreto ingiuntivo del giudice amministrativo, che dà luogo all’esaurimento del processo in tempi rapidissimi e avverso il quale nell’80% dei casi non viene proposta opposizione.
Un nuovo forte impatto ha avuto l’anno scorso l’annosa questione delle «quote-latte». Al riguardo un folto gruppo di ricorsi ha avuto sollecita definizione attraverso l’adozione d’ufficio, in luogo della misura cautelare, di sentenze immediate ai sensi del comma 10 dell’art. 21 della legge 1034.
Nell’estate scorsa questo Tribunale è stato investito dalla «questione calcio», che aveva suscitato grande scalpore in seguito alle misure cautelari adottate da alcuni TAR. Con decreto legge 19.8.2003 n. 220 (poi convertito, con modificazioni, nella legge 17.10.2003 n. 280) la competenza in materia è stata attribuita in via esclusiva al TAR di Roma.
Si tratta di un ulteriore riconoscimento ex lege della competenza giurisdizionale di questo TAR dopo quello sui provvedimenti riguardanti i magistrati (art. 4 della legge 12.4.1990 n. 74, che ha sostituito un comma dell’art. 17 della legge 24.3.1958 n. 195), quello per le controversie relative agli atti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, quello concernente il contenzioso nei confronti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Nei confronti di quest’ultima Autorità la competenza del TAR di Roma è dichiarata dalla legge inderogabile, così come adesso stabilisce, per il calcio, la legge n. 280 del 2003: ma per il calcio la legge precisa espressamente che l’inderogabilità vale anche per le misure cautelari.
La questione è stata affrontata immediatamente con provvedimenti monocratici (adottati, peraltro, assicurando il contraddittorio) e in sede collegiale, con convocazione anche, a tal fine, di una sessione speciale della camera di consiglio feriale. Successivamente, nel corso dell’udienza di merito prontamente fissata, tutti i ricorrenti (ad eccezione del Cosenza Calcio) hanno rinunciato ai ricorsi. Ne è risultata così confermata la rilevanza della fase cautelare ai fini della soluzione o del componimento delle controversie, e l’importanza di avere in settori particolarmente sensibili una giurisprudenza dedicata ed uniforme già nel primo grado (che nella grande maggioranza dei casi resta l’unico).
La percentuale di accoglimento dei ricorsi è stata nel TAR del Lazio (nel 2002) del 54,06%: perfettamente in linea con la media nazionale, ch’è stata del 54,86%. Le punte estreme, in tale quadro, sono rappresentate dalla Campania col 68,14 % di accoglimenti, e dal TAR di Trento con solo il 27,42%.
E’ il momento di tirare le somme.
L’interrogativo in cui sfocia tutta questa esposizione è: la giustizia amministrativa funziona? E’ questo, in definitiva, che interessa a tutti, addetti ai lavori e non.
Vediamo assieme alcune cifre.
Nel 2002 complessivamente sono stati proposti dinanzi ai Tribunali amministrativi 73.811 ricorsi e ne sono stati definiti 97.951.
Il numero dei ricorsi complessivamente pendenti in primo grado è sceso da 905.444 a 881.304.
Il numero dei ricorsi pendenti dinanzi al TAR del Lazio (compresa la Sezione staccata di Latina), è passato da 185.205 nel 2001 a 184.817 nel 2002 (con un decremento dello 0,21%). Tale trend è stato confermato nel 2003 con un’ulteriore diminuzione a 183.966 ricorsi (-0,46%).
I ricorsi definiti nel 2002 dal TAR del Lazio sono stati 15.933; quelli proposti 15.545.
Nel TAR di Roma i ricorsi pendenti nel 2001 erano 173.307; nel 2002 173.114 (con decremento dello 0,12%); nel 2003 172.115 (con un ulteriore decremento dello 0,58%).
Quelli definiti sono stati:
11.935, a fronte di 15.516 proposti, nel 2001;
14.269, rispetto a 14.076 proposti, nel 2002;
14.628, a fronte di 13.629 proposti, nel 2003.
Queste cifre si avvalorano se si fa il confronto col passato. Così, ad esempio, nel 1995 sono stati introitati dal TAR del Lazio 17.678 ricorsi e ne sono stati definiti 2.522.
L’analisi di questi dati offre il destro a qualche commento.
Nel 2002, su 97.951 pronunzie definitorie in primo grado, solo 38.416 sono state emesse con sentenze sul merito. Corrispondentemente in questo TAR le sentenze, nel 2003, sono state 7.728; i decreti decisori 6.499.
Vengono utilizzati, evidentemente, gli strumenti decisori monocratici opportunamente previsti dalla 205 per i casi di rinuncia al ricorso, sopravvenuta carenza d’interesse e cessata materia del contendere. Ma soprattutto viene dichiarata con decreto l’estinzione del processo per perenzione ultradecennale, l’istituto provvidamente introdotto dall’art. 9 della 205, ch’è valso a rivelare quanta parte dell’arretrato sia puramente figurativa, se non fittizia.
L’abbattimento di questa pendenza che tanto nuoce alla buona considerazione della giustizia sarebbe stato più forte se avessimo potuto disporre di un maggior numero di funzionari amministrativi, paragonabile almeno a quello di cui dispone la magistratura ordinaria (3 a 1 rispetto ai magistrati), se non a quello della Corte dei Conti (5 a 1); da noi sono 1,9 a 1.
Sarò sincero fino alla sconvenienza: non è che tutti lavorino e rendano al 100%; ma non c’è organizzazione in cui questo avvenga e possa avvenire. Abbiamo comunque fatto di tutto per incentivare il personale nei limiti delle nostre attribuzioni: in particolare sono stati fatti dei progetti finalizzati allo smaltimento dell’arretrato. Abbiamo persino estrema difficoltà nel reperire un segretario e un collaboratore per la neoistituita Sezione I^ quater, la decima di questo Tribunale.
Presumibilmente, poi, il numero dei ricorsi abbandonati sarebbe stato più cospicuo senza la legge Pinto (legge 24.3.2001 n. 89).
Se la 205 è una buona legge, la legge Pinto è ispirata da intenzioni migliori: non mira semplicemente all’eliminazione dell’arretrato ultradecennale, mira a far decidere i ricorsi in tempi fisiologici. Finché la giurisdizione in materia era esclusivamente della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’ingorgo era tale che le condanne per ritardata giustizia arrivavano col contagocce. Ma da quando la giurisdizione è stata decentrata alle Corti d’appello, le condanne fioccano come grandine: nulla die sine damnatione, potremmo dire. Conformemente agli orientamenti comunitari bastano potenzialmente due anni per far ritenere che la giustizia sia stata ingiustificatamente ritardata; sicchè la tentazione di riscuotere –quasi come una cedola- questo indennizzo (c.d. equa riparazione), per il semplice decorso di un biennio, è forte e fa da deterrente all’abbandono di ricorsi in effetti non coltivati. Una riprova si è avuta quando, avendo fissato per l’udienza ricorsi molto vecchi, nove volte su dieci ci è stato chiesto dal difensore del ricorrente di rinviarli per necessità di consultazioni col cliente. Abbiamo allora aggiunto delle udienze straordinarie con ruoli stralcio per verificare la persistenza di un’effettiva volontà di pervenire alla definizione del giudizio. Il numero delle manifestazioni di volontà al mantenimento in vita del processo è stato sorprendentemente alto rispetto al passato e non corrispondente, poi, al comportamento processuale susseguente quando il ricorso è venuto a decisione in un’udienza ravvicinata.
Capisco che possa essere imbarazzante riconoscerlo pubblicamente, ma sul campo a noi risulta questo: la legge Pinto contrasta l’eliminazione dell’arretrato, inceppando il meccanismo predisposto dalla 205, a conferma dei detti che «il meglio è nemico del bene» e che «le strade scivolose sono lastricate di buone intenzioni». Non solo: essa ha portato a un incremento del contenzioso e, in alcuni casi limite, alla sua moltiplicazione per un fattore 100: ci sono stati dei ricorsi collettivi proposti dinanzi a noi uno acto, per centinaia e centinaia di ricorrenti, che hanno dato luogo a tanti singoli ricorsi dinanzi alla Corte d’appello al fine, chiaramente, di conseguire altrettanti indennizzi, come se si trattasse di ricorsi distinti.
Di fronte a una situazione del genere non c’è moltiplicazione di sforzi che sovvenga.
Il fatto è che la legge 205 –come osservava un collega- ha immesso il motore di una Ferrari in un’utilitaria degli anni ’70. Sono state introdotte norme fortemente acceleratrici del processo. Nelle materie dell’art. 23 bis (della legge n. 1034 del 1971, inserito dall’art. 4 della 205) il processo veramente si svolge quasi in tempo reale; per tutti i ricorsi ivi previsti, non solo per quelli concernenti le Autorità amministrative indipendenti; in particolare, per i ricorsi in materia di appalti per i quali, con la collaborazione delle parti, si riesce a giungere a una decisione nel merito entro due-tre mesi. Ma sono molteplici le disposizioni acceleratrici, specie in caso di accoglimento, in primo grado o in appello, dell’istanza di sospensione cautelare. Ad esse si aggiungono le norme di leggi speciali sopravvenienti nelle materie più varie: così, per i programmi di protezione dei collaboratori di giustizia, la legge (art. 10 della legge 13.2.2001 n. 45) limita a sei mesi l’efficacia dell’ordinanza di sospensione, con obbligo di contestuale fissazione dell’udienza di merito entro quattro mesi e con riduzione alla metà di tutti i termini processuali. In attuazione della delega della legge «obiettivo» è stato stabilito (dal d. lgs. n. 190/2002) un termine di appena 45 giorni dal deposito del ricorso per la fissazione dell’udienza di merito. In materia di associazioni di promozione sociale la legge (art. 10, co. 2, l. 7.12. 2000 n. 383) prevede pur essa un rito speciale con termini abbreviati.
Appare difficile comprendere la ratio di alcuni di tali interventi; e soprattutto non sembra che il legislatore tenga ben presente il quadro d’insieme e il saldo finale di tanti impulsi: quando s’instradano troppi veicoli su una corsia preferenziale restano intasati finanche gli autobus e le autoambulanze.
Sul piano nazionale s’è registrata nel 2002 una rilevante contrazione del numero delle ordinanze di sospensione (-48,33%) che fa seguito all’ancor maggiore riduzione dell’anno precedente (-65,34%). Nel nostro Tribunale, pur risentendosi del calo generale, la riduzione è stata inferiore: ancora nel 2003 le ordinanze cautelari sono state 5.754 (6.517, compreso il TAR di Latina): il numero più elevato tra tutti i TAR d’Italia, superiore al quarto del totale delle ordinanze cautelari emesse in primo grado e corrispondente a quasi il triplo di quelle emesse dal Consiglio di Stato. La percentuale delle nostre ordinanze cautelari rispetto alle sentenze è di oltre il 74 per cento. La proporzione nazionale (nell’anno 2002) delle ordinanze cautelari rispetto alle decisioni sul merito è stata invece di 1 a 4.
Il perché di questa minore contrazione è difficile da individuare. Anche da noi si fa uso, tutte le volte in cui è possibile, delle sentenze semplificate, che sono il maggior deterrente contro un uso strumentale o avventato delle istanze cautelari. E si tende a devolvere al merito la decisione delle questioni malamente regolabili in sede cautelare. Forse dovremmo condannare più frequentemente alle spese. Ma si tratta non di rado di questioni piuttosto opinabili; inoltre nella maggior parte delle Sezioni c’è uno scarso grado di serialità nelle controversie.
Forse la ragione della persistenza di un così elevato numero di domande di sospensione presso questo Tribunale sta proprio nella sollecitudine con cui vengono decise (in genere entro quindici giorni). Ma tale conclusione mal si concilia con la constatazione che presso di noi è altresì elevato (probabilmente il più elevato d’Italia) il numero dei decreti monocratici cautelari richiesti ed emessi interinalmente dai presidenti delle Sezioni: 882. Qui, talora, sembrerebbe trapelare l’intendimento di avvantaggiarsi di un contraddittorio ancora imperfetto o di porre riparo a situazioni d’urgenza determinate dal ritardo con cui è stato proposto il ricorso. Mentre ultroneo sarebbe lo scopo di ottenere una più sollecita fissazione della camera di consiglio.
Dopo questa carrellata sulle cifre possiamo tornare all’interrogativo di base: la giustizia amministrativa funziona? E specificamente, come funziona e che prospettive ci sono nel TAR di Roma, del quale propriamente dobbiamo rendere conto?
Nonostante gli sforzi, e nonostante la tendenza virtuosa a definire più ricorsi di quanti ne vengono proposti, la diminuzione dell’arretrato è minima.
Ma di più non è umanamente possibile fare.
Dal 1978 il numero dei magistrati assegnati a questo TAR è rimasto lo stesso: intorno ai 50, toccando i 55 solo nell’ultimo trimestre dell’anno scorso. Se fossero dieci volte tanto non sarebbero troppi.
I magistrati sono in affanno, tanto che l’anno scorso c’è stata una presa di posizione collettiva che ha indotto il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (nelle riunioni del 10 ottobre e del 18 dicembre 2003), a dettare criteri che portano a una riduzione del numero delle udienze mensili (anche se potranno essere fissate delle udienze e delle camere di consiglio straordinarie).
Applicando poi ai magistrati in servizio presso questo TAR i criteri sui carichi di lavoro contestualmente deliberati dal Consiglio di presidenza, con assegnazione –beninteso- a ciascun magistrato del numero massimo consentito di ricorsi (e incrociando le dita), le sentenze quest’anno non potranno superare (e forse nemmeno raggiungere) il numero di 5000, dato l’esiguo numero di ricorsi identici, (salvo forzature consentite dalla superdisponibilità di qualche collega, che comunque, dovendoci attenere ai criteri fissati, non potranno costituire la regola).
È vero che all’estinzione dei giudizi concorrono in misura rilevante (da noi, nel 2003, per il 45,68%) i decreti decisori, ma il numero dei ricorsi abbandonati per perenzione diminuisce (presumibilmente per l’effetto frenante e di contrasto della legge Pinto).
Si colgono segni vari che destano preoccupazione, come giustamente posto in risalto dall’Associazione dei magistrati amministrativi. Cresce il numero dei magistrati amministrativi che cessano spontaneamente dal servizio in anticipo sui limiti di età; ancor più allarmante è la rinuncia ad entrare nei ruoli della magistratura amministrativa da parte di alcuni dei vincitori dell’ultimo concorso per referendario, che hanno preferito impieghi più remunerativi (attualmente anche la carriera presso l’Avvocatura dello Stato è tale).
Per quanto riguarda specificamente questo Tribunale, poi, era usuale che chiedessero il trasferimento a Roma magistrati con una certa anzianità di servizio. Negli ultimi anni la richiesta è invece venuta in assoluta prevalenza da giovani magistrati (primi referendari e referendari). Anche questo è un indizio della gravosità dell’impegno presso questo TAR. Tuttavia in prospettiva l’inconveniente potrà tradursi in vantaggio per la più lunga permanenza presso di noi dei nuovi venuti: e bisogna dire che i concorsi di accesso continuano a selezionare ottimi elementi; l’esperienza si matura sul campo.
Ho lasciato per ultima una notazione positiva: il sistema informativo della giustizia amministrativa –del quale è parte integrante quello di questo Tribunale amministrativo- funziona. Possiamo dirlo –credo- senza riserve. Alla pubblicazione delle sentenze e delle ordinanze segue immediatamente (entro 24 ore) il loro inserimento nella rete informativa, sito web della giustizia amministrativa (www.giustizia-amministrativa.it), dal quale gli avvocati (ma anche i diretti interessati), possono scaricarne il testo già dal giorno successivo alla pubblicazione. Lo stesso avviene per i calendari e i ruoli d’udienza. Un grande passo avanti verso la trasparenza, la pubblicità e la fruibilità del servizio giustizia; a costo zero, preciso.
Il nostro sistema informativo suscita interesse in altri Stati; e sono venute presso di noi delegazioni, anche di Paesi transoceanici, a informarsi a fondo sul suo funzionamento. Il nostro TAR è, inoltre, inserito nel progetto sperimentale denominato «udienza in tempo reale», che consentirà, a regime, agli avvocati di seguire direttamente dai propri studi l’andamento delle chiamate delle cause nell’udienza.
Risollevato un po’ da questo piccolo colpo d’ala vorrei provare a dare finalmente la risposta inseguita.
La nostra risposta è sì, il sistema della giustizia amministrativa funziona; ancora e malgrado tutto.
Che c’è in questo tutto ? C’è l’arretrato, innanzi tutto. C’è la carenza degli organici dei magistrati e del personale amministrativo. Ci sono le precedenze che sgomitano in forza dell’art. 23 bis della 205 e delle varie leggine. E c’è la legge Pinto, col suo effetto paradosso.
L’«ancòra», ch’è l’altra riserva, sottolinea la precarietà della situazione. E ho detto tutto.
Ecco vi ho fatto la mia esposizione. È stata un’esposizione monodica (spero non anche monocorde), perché tale è una relazione. E noi abbiamo voluto restare aderenti alla tradizionale impostazione della cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario, che si basa, appunto, su una responsabilizzata relazione.
Ma non pensiamo certamente che questo significativo appuntamento debba esaurirsi nell’ascolto di una sola voce. Diceva Gandhi che «quella che può sembrare verità ad uno, non infrequentemente è errore per l’altro. Ma questo di solito, non turba chi la cerca ». E per chi non si vergogna di citare tutt’oggi i greci («ogni grande pensiero è stato espresso per la prima volta in lingua greca» ha scritto M. Yourcenar) può ricordarsi che Socrate e Platone ci hanno insegnato che «la verità» (verità relativa, s’intende) «emerge dal confronto». Dal confronto, dal dialogo, dal contraddittorio, cui la nostra professione ci fa assistere ogni giorno, con tanto profitto, in queste aule.
Lo stesso metodo vogliamo seguire nell’esame delle questioni che così direttamente toccano noi e gli utenti del servizio giustizia. Noi siamo in trincea: può darsi che il nostro sguardo corra troppo terra-terra.
Mantenendo il carattere suo proprio, questa cerimonia si conclude qui; ma alle 14 farà seguito una tavola rotonda sulla situazione attuale della giustizia amministrativa, con un dibattito cui siete invitati.
Con questa informazione e con questo invito, dichiaro dunque aperto l’anno giudiziario 2004 di questo Tribunale amministrativo regionale.
Roma, 10 febbraio 2004.
* Cito, come sempre, quando non si tratta di dati del TAR di Roma, rilevati direttamente, i dati raccolti e elaborati da Carlo Talice (quest’anno affiancato dalla figlia) con riferimento all’anno 2002: cfr. Rass. Cons. St., 2003, n. 7/8, p. II, p. 1387 ss.