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MASSIMILIANO BRUGNOLI (*)
Le gestioni dirette di lavori, servizi e forniture degli enti locali alla luce della sentenza del Consiglio di Stato 10 marzo 2003, n. 1289 e della giurisprudenza comunitaria.
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La sentenza in argomento (pubblicata in questa Rivista: clicca qui per consultarla) appare assai rilevante per due fondamentali ordini di ragioni.
In primo luogo, in quanto segna un contrasto assai radicale con la giurisprudenza comunitaria in ordine all’individuazione della stessa ratio delle direttive aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti e le relative norme nazionali di recepimento.
In secondo luogo perché appare idonea – se i principi in essa contenuti dovessero consolidarsi in giurisprudenza – a produrre effetti dirompenti sull’organizzazione degli enti locali.
La fattispecie concreta oggetto della pronuncia in esame è costituita dall’affidamento diretto da parte di un comune ad una propria azienda speciale del servizio di riscaldamento e manutenzione degli impianti degli edifici di proprietà comunale.
Il C.d.S., attribuendo la qualifica di servizio non pubblico a tale tipologia di attività economica, ha concluso che esso non potrebbe essere assunto da un comune direttamente, senza esperimento di una procedura ad evidenza pubblica disciplinata dalla normativa comunitaria di settore, individuata, nel caso di specie, nel D.L.vo n. 158/95.
La parte rilevante della sentenza commentata non sembra essere tanto la premessa da cui essa muove – natura pubblica o meno di un servizio, questione su cui si potrebbe a lungo discettare – bensì sulle conseguenze che se ne dovrebbero trarre.
Non trattandosi della gestione di un servizio pubblico, bensì di un mero appalto di lavori – come ritenuto nel caso di specie – ovvero di servizi o forniture, un comune non sarebbe, infatti, libero di assumerlo direttamente.
“Peraltro – si legge in motivazione – anche per meglio chiarire le (solo) apparenti difformità di giudizio svolte dalla Sezione, ritiene il Collegio di dover meglio puntualizzare la qualificabilità del servizio pubblico ex art. 22 L. N. 142/90, confermata dal successivo art. 112 del D.P.R. n. 267/2000 che prevede che gli Enti locali possono provvedere direttamente alla gestione dei “servizi pubblici” (anche tramite proprie aziende speciali), servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali” (1).
Ne consegue che, a giudizio del Consiglio di Stato, il principio non riguarda soltanto gli affidamenti rivolti ad un’azienda speciale (art. 113, lett. c) del T.U.) – come nella fattispecie concreta - ma tutte le forme di gestione diretta di attività economiche diverse dai servizi pubblici secondo i moduli previsti dalla T.U. sugli Enti locali e dunque - anche ed a maggior ragione - la gestione in economia (art. 113, lett. a) del T.U.) che è gestione diretta per eccellenza.
In virtù di tale principio generale sembra doversi dedurre che l’affidamento del servizio di riscaldamento e manutenzione degli impianti sarebbe stato – del tutto coerentemente - giudicato illegittimo dal Collegio anche se – in ipotesi – fosse stato attribuito anziché ad un proprio ente pubblico strumentale – così sono definite le aziende speciali dall’art. 114, comma 1, del T.U. - al settore lavori pubblici interno alla stessa amministrazione comunale.
Ad analoghe conclusioni si dovrebbe giungere per tutti gli altri servizi – e più in generale per tutti i contratti anche misti – rivolti a soddisfare esigenze proprie dell’amministrazione comunale e dunque non riconducibili, data tale loro caratteristica, al novero dei servizi pubblici, così come enucleato dal Consiglio di Stato, suscettibili di gestione diretta (si pensi, a titolo d’esempio, ai servizi informatici).
Analoga fattispecie – si trattava della gestione del servizio riscaldamento di taluni edifici comunali – è stata oggetto della sentenza 18 novembre 1999 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (caso Teckal srl).
La Corte ha affermato principi che si discostano sensibilmente da quelli sopra evocati.
Dopo avere qualificato come fornitura il contratto in questione – ritenendo economicamente minoritaria la parte relativa al servizio – la Corte ha osservato come non esista per le pubbliche forniture – una norma quale l’art. 6 della direttiva 92/50 – corrispondente all’art. 5, comma 2, lett. h) del D.L.vo n. 157/95 – che consente l’affidamento diretto di servizi ad altre pubbliche amministrazioni, in presenza di determinate condizioni.
Ne consegue l’affermazione della piena applicabilità, al caso di specie, della “direttiva forniture” ma con una significativa eccezione.
“Può avvenire diversamente – afferma infatti la Corte – solo nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano” (2).
Il medesimo principio viene ribadito nel dispositivo della sentenza laddove si esclude l’applicabilità della normativa “forniture” qualora l’ente affidatario non sia rispetto alla P.A. affidante“..distinto da essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa..”.
Dunque, secondo la Corte di Giustizia, un ente locale ben può affidare la fornitura di beni a proprio vantaggio ad un proprio ente strumentale, mentre per i servizi, data la norma sopra richiamata, non è neppure necessario che l’amministrazione affidataria possieda tale caratteristica.
La citata sentenza non si sofferma sulla questione relativa all’eventuale affidamento in amministrazione diretta di una fornitura – o di un servizio o di un lavoro – alle strutture interne della stessa pubblica amministrazione, la cui piena legittimità, come si è visto, viene data per scontata.
La ragione di tale silenzio si evince dal ragionamento complessivamente svolto dai giudici comunitari che esclude in radice che un simile quesito possa anche semplicemente essere posto.
E’ evidente che, a giudizio della Corte, qualunque “organismo di diritto pubblico” ben può affidare ai “..propri servizi..” qualunque incarico avente ad oggetto la produzione di lavori, servizi o forniture a proprio esclusivo vantaggio, senza trovare ostacolo alcuno nelle norme che disciplinano le procedure di scelta del contraente imposte dalle direttive comunitarie.
E’ proprio qui, nell’interpretazione della ratio complessiva di tali istituti di derivazione comunitaria, che si coglie la radicalità del contrasto – cui si è fatto cenno all’inizio del presente articolo – tra la posizione del Consiglio di Stato e quella della Corte di Giustizia.
Quest’ultima, infatti, muove dal presupposto che le direttive comunitarie sui contratti si applichino nei casi in cui le pubbliche amministrazioni intendano acquisire un lavoro, un servizio o una fornitura rivolgendosi al mercato e solo in tale ipotesi.
In tale ottica, si comprende come non possa neppure porsi il problema di un ipotetico contrasto con tali disposizioni di affidamenti diretti ad un settore interno della stessa stazione appaltante o ad un proprio ente strumentale: in tali casi, infatti, la pubblica amministrazione decide di servirsi della propria stabile struttura organizzativa, in alternativa rispetto al possibile ricorso agli operatori presenti sul mercato. Di conseguenza non può esservi alcun pericolo di violazione della concorrenza ai danni di imprese presenti sul mercato comunitario in quanto la P.A. non ha alcuna intenzione servirsi di loro, disponendo, al proprio interno, di alternative ritenute più utili e convenienti.
E’ evidente come la prospettiva del Consiglio di Stato sia completamente differente e per certi aspetti rovesciata rispetto a quella appena vista: essa dà per scontato che la pubblica amministrazione che intenda acquisire lavori, servizi e forniture debba – e non semplicemente possa - rivolgersi al mercato nel rispetto degli istituti di derivazione comunitaria. Solo in presenza di norme derogatorie – quali, per l’appunto, quelle che disciplinano la gestione dei servizi pubblici locali – sarebbe possibile optare per diversi moduli organizzativi, quali, per l’appunto, le diverse forme di organizzazione diretta previste dall’art. 113 del T.U. n. 267/2000.
Sotto tale profilo, le norme sui servizi pubblici locali sembrano trovare residua applicazione grazie al principio di specialità: in quanto “servizi” rientrerebbero nel genus dei contratti disciplinati dal D.L.vo n.157/95, ma, data la loro riconosciuta natura “pubblica”, possono essere affidati secondo i moduli organizzativi del T.U. sugli enti locali. Ritenuto insussistente tale connotato pubblicistico – nel caso di specie, perché il servizio era rivolto a vantaggio del comune e non della generalità dei cittadini – tornerebbe a trovare applicazione la disciplina generale con conseguente obbligo di rivolgersi al mercato.
Disciplina che, nella prospettiva del Consiglio di Stato, non avrebbe, dunque, la sola funzione di garantire la concorrenza tra le imprese ma anche quella, ben più penetrante, di incidere nelle stesse forme di organizzazione interna degli enti pubblici, costringendoli ad appaltare all’esterno tutte le attività economiche astrattamente riconducibili ai contratti disciplinati dalle direttive comunitarie, salvo che disposizioni speciali non consentano loro di organizzarsi diversamente.
A dire il vero, che questa fosse la volontà che ha guidato il legislatore comunitario, nell’emanazione delle varie “direttive contratti” o quello nazionale, all’atto del loro recepimento, appare assai dubbio, quanto meno perché di essa non vi è traccia alcuna nelle disposizioni in esame.
In esse, al contrario, si rinviene una norma che induce ad optare per l’opposta tesi sostenuta dalla Corte di Giustizia. Si tratta dell’art. 24, comma sesto della “Legge Merloni” che, ponendo un tetto massimo al valore dei lavori pubblici che le stazioni appaltanti possono realizzare in amministrazione diretta, impone loro di appaltare all’esterno tutte le opere che superino tale soglia.
Dunque, quando il legislatore ha voluto imporre alle P.A. di rivolgersi al mercato, vietando il ricorso alla loro organizzazione interna per lo svolgimento di attività economiche, lo ha detto espressamente ed in maniera assai dettagliata (ad esempio differenziando la disciplina dei lavori in economia eseguiti a mezzo delle truppe e dei reparti del Genio militare che non sono soggetti ad alcuna limitazione) non ritenendo, evidentemente, che tale divieto potesse derivare dalla ratio di tali istituti.
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(*) Avvocato - Dirigente responsabile dei contratti e del contenzioso, presso AGEC, azienda speciale del Comune di Verona.
(1) Pur non essendo espressamente richiamate le
precedenti pronunce della sezione che sarebbero solo apparentemente difformi da
quella in commento, se ne rinvengono alcune sicuramente in senso contrario: si
veda, ex plurimis, C.d.S. 2605/2001, proprio relativo al caso Teckal; C.d.S.,
pareri, 366/1996; TAR Lazio, 93/98).
(2) Sulla natura di enti strumentali delle aziende speciali, la giurisprudenza è oramai assolutamente uniforme (es: C.d.S. 4563/2002; C.d.S. Sez. Un. 12708/1998): in virtù di tale caratteristica si è esclusa la possibilità delle aziende speciali di operare al di fuori del territorio comunale nonostante diverse previsioni statutarie, sia mediante affidamenti diretti che partecipando a procedure ad evidenza pubblica (es: C.d.S. 5515/2001); lo stesso affidamento previa convenzione tra comuni ai sensi dell’art. 5 del DPR 902/86 è stato ritenuto legittimo solo a condizioni particolarissime, in concreto, assai difficili da riscontrare (es: C.d.S. 1874/2002). Più in generale, il controllo degli enti locali sulle aziende speciali è assai penetrante, concretizzandosi nella nomina e revoca degli amministratori, nell’approvazione degli atti fondamentali – tra cui i bilanci – nell’emanazione di indirizzi vincolanti, etc.