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Articoli e note

n. 1/2004 - © copyright

MATTEO BARBERO (*)

Prime indicazioni della Corte costituzionale
in materia di “federalismo fiscale” (**)

 

Con alcune sentenze depositate negli ultimi giorni dell’anno appena terminato, la Corte Costituzionale [nella perdurante inerzia del legislatore statale ordinario; si veda, sotto questo profilo, l’articolo 2, comma 20, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 - Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004), che ha prorogato i termini per la conclusione dei lavori da parte dell’Alta Commissione di studio istituita con l’articolo 3, comma 1, lettera b) della legge 27 dicembre 2002, n. 289 - Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003)] ha posto alcuni importanti tasselli nel mosaico di quel federalismo fiscale “all’italiana” introdotto dall’articolo 5 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (recante “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) che ha modificato, fra gli altri, il testo originario dell’articolo 119 della Costituzione.

In precedenza, con le sentenze n. 296/2003 e n. 297/2003 (pubblicate nello scorso mese di ottobre), la Consulta aveva posto i primi “paletti” in una materia finora trascurata dalla legislazione ordinaria di attuazione della c.d. riforma federalista, delineando una nozione di tributo regionale proprio probabilmente troppo restrittiva e certamente penalizzante (a fronte, soprattutto, della evidente scarsità di basi imponibili libere) per l’autonomia tributaria delle Regioni. Il predetto orientamento è stato successivamente ribadito dalla stessa Corte nella sentenza n. 311/2003, relativa alla legge finanziaria regionale per l’anno 2002 della Regione Campania, che (analogamente a quanto disposto dalle leggi regionali piemontese e veneta che avevano originato il giudizio risolto con le due sentenze sopra citate) aveva prorogato i termini per il recupero delle tasse automobilistiche dovute alla Regione medesima per l’anno 1999.

La prima sentenza degna di essere (brevemente) annotata è la n. 370/2003, pronunciata nei giudizi di legittimità dell'articolo 70 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002”), promossi con ricorsi delle Regioni Marche, Toscana, Emilia - Romagna e Umbria. I rilievi sollevati dalle Regioni ricorrenti riguardavano, in particolare, le disposizioni relative alla istituzione (nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali) ed alla conseguente gestione (da parte dello stesso Ministero del Welfare, di concerto con quello dell’Economia e con il parere non vincolante della Conferenza Unificata) di un fondo per gli asili nido; tali disposizioni, secondo le ricorrenti medesime, si sarebbero poste in contrasto (fra l’altro) con l’articolo 119 della Costituzione, poiché quest’ultimo non ammetterebbe (nella sua attuale versione risultante dalla riscrittura operata dalla citata legge costituzionale 3/2001, ad eccezione di quanto previsto dal comma 5 in relazione alle risorse aggiuntive ed agli interventi speciali a favore di enti territoriali determinati e per la realizzazione di scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni) fondi statali o risorse statali aggiuntive a destinazione vincolata per le Regioni e gli enti locali. Secondo il nuovo modello costituzionale, infatti, le funzioni pubbliche “normali” attribuite agli enti sub-statali e non coperte dal gettito dei tributi propri o dalle compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al territorio degli enti stessi dovrebbero essere finanziate esclusivamente mediante i proventi di uno o più fondi perequativi privi di vincoli di destinazione.

La Corte, sotto questo profilo, ha accolto le censure regionali, sottolineando che “nel nuovo sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed enti locali, lo Stato può erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui all'art. 119, terzo comma, della Costituzione”. Poiché la gestione delle attività degli asili nido rientra nella sfera delle funzioni proprie delle Regioni e degli enti locali (in quanto riconducibile, secondo la persuasiva ricostruzione operata dalla Consulta, alle materie dell’istruzione e della tutela del lavoro, entrambe oggetto di potestà legislativa concorrente) “è contraria alla disciplina costituzionale vigente la configurazione di un fondo settoriale di finanziamento gestito dallo Stato, che viola in modo palese l'autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa delle Regioni e degli enti locali e mantiene allo Stato alcuni poteri discrezionali nella materia cui si riferisce”.

La Corte, inoltre, non ha mancato di lanciare un monito circa la necessità di una rapida e puntuale attuazione dell’articolo 119 della Costituzione al legislatore statale ordinario, la cui attuale inerzia (richiamata in apertura di queste brevi note) rischia di “azzoppare” la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, favorendo la permanenza o addirittura (come nel caso di specie) la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni e degli enti locali in contrasto con il nuovo quadro costituzionale e (conseguentemente) esponendo a “rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali”.

Viceversa, la Corte ha disatteso i rilievi di costituzionalità sollevati dalla Regione Marche in relazione al comma 6 del citato articolo 70 della legge 448/2001, nella parte in cui non escluderebbe che la deducibilità delle spese di partecipazione alla gestione dei micro-asili e dei nidi nei luoghi di lavoro dalle imposte sul reddito di genitori e datori di lavoro possa riferirsi a tributi diversi da quelli statali. Tal censura sarebbe fondata, secondo la Consulta, su una erronea lettura della disposizione da ultimo citata, la quale non si riferisce a imposte regionali o locali ma riguarda le sole imposte statali (sui redditi), rispetto alle quali Regioni ed Enti locali possono semplicemente aggiungere aliquote addizionali senza alcun potere ulteriore in tema di determinazione degli oneri deducibili.

Tali affermazioni (senz’altro condivisibili se calate nella fattispecie oggetto della sentenza in commento) potrebbero, peraltro, laddove si volesse trarre da esse un principio generale, portare ad effetti fortemente limitativi dell’autonomia tributaria degli enti sub-statali (e delle Regioni in particolare).

Alla luce, infatti, della (restrittiva) nozione di tributo regionale proprio (rilevante ai fini di cui all’articolo 119 della Costituzione) fatta propria dalla Consulta nelle sentenze richiamate in apertura (ovvero le sentenze n. 296/2003, 297/2003 e 311/2003) e della correlativa (ampia) nozione di tributo statale proprio ricavabile in negativo da tali pronunce, lo Stato potrebbe, attraverso la “generosa” previsione di oneri deducibili da imposte (come l’Irap o la tassa automobilistica regionale) formalmente (ossia dal punto di vista della fonte che le istituisce) statali ma sostanzialmente (ossia dal punto di vista della destinazione del relativo gettito) regionali, accentuare (in contrasto con la ratio sottesa alla novella dell’articolo 119 della Costituzione operata dalla legge costituzionale 3/2001) il carattere derivato della finanza regionale (e locale). In effetti, a fronte della richiamata (restrittiva) nozione di tributo regionale proprio accolta dalla Corte, i poteri tributari attualmente spettanti alle Regioni [poteri che la stessa Consulta non esita a definire, nella parte finale della motivazione della sentenza in commento e malgrado le richiamate modifiche costituzionali, come (tuttora) “limitati” e che sono sempre più spesso ulteriormente compressi da provvedimenti statali di varia natura sulla cui legittimità costituzionale appare lecito dubitare] rendono inevitabile la persistente copiosa erogazione di risorse finanziarie dal centro alla periferia, stravolgendo il senso del rinnovato disegno costituzionale che vorrebbe i trasferimenti statali limitati ai territori con minore capacità fiscale per abitante (sotto forma di erogazioni del fondo perequativo) ovvero finalizzati al raggiungimento, da parte di enti territoriali determinati, delle particolari finalità (comunque eccedenti il normale esercizio delle funzioni ad essi spettanti) di cui al già citato comma 5 dell’articolo 119 della Costituzione (sotto forma di risorse aggiuntive o di interventi speciali). Non a caso, infatti, la Corte, pur accogliendo i rilievi sollevati dalle Regioni ricorrenti e ritenendo la previsione di un fondo settoriale e vincolato di finanziamento di funzioni proprie delle Regioni e degli enti locali in contrasto con l’autonomia di entrata e di spesa spettante ai medesimi livelli istituzionali, è costretta, data la “particolare rilevanza sociale del servizio degli asili-nido, relativo a prestazioni che richiedono continuità di erogazione in relazione ai diritti costituzionali implicati” a fare “salvi gli eventuali procedimenti di spesa in corso, anche se non esauriti”.

La seconda sentenza meritevole di alcuni brevi cenni di commento è la n. 376/2003, con la quale la Corte Costituzionale ha deciso i giudizi di legittimità relativi ai primi due commi dell’articolo 41 della legge 448/2001 (già sopra citata in quanto costituente oggetto anche della pronuncia della Consulta precedentemente annotata) sollevati (con motivazioni in gran parte analoghe) dalle medesime Regioni Marche, Toscana, Emilia - Romagna e Umbria (già parti della controversia decisa dalla sentenza n. 370/2003), con l’aggiunta della Regione Campania.

Il citato articolo 41 (rubricato “Finanza degli enti territoriali”), al fine di “contenere il costo dell'indebitamento e di monitorare gli andamenti di finanza pubblica”, prevede, al comma 1, l’attribuzione al Ministero dell’economia e delle finanze di un potere di coordinamento nei confronti delle Regioni e degli enti locali per quanto concerne l’accesso da parte dei medesimi al mercato dei capitali. Allo stesso fine e per consentire l’esercizio del predetto potere di coordinamento, il medesimo comma 1 dell’articolo 41 pone a carico degli enti sub-statali un onere di comunicazione periodica al Ministero di via XX Settembre dei dati relativi alla propria situazione finanziaria. Contenuto e modalità tanto del coordinamento quanto dell’invio dei dati sono stabiliti con decreto ministeriale, da emanare sentita la Conferenza Unificata e contenente, altresì, le norme relative all'ammortamento del debito e all'utilizzo degli strumenti derivati da parte degli stessi enti.

Il comma 2 dell’articolo 41 disciplina, più specificatamente, le principali modalità di indebitamento degli enti sub-statali, ovvero l’emissione di titoli obbligazionari (i c.d. B.O.R., B.O.P. e B.O.C.) e la contrazione di mutui, imponendo, per l’ammortamento del relativo debito, la previa costituzione di un fondo o, in alternativa, la previa conclusione di un contratto di swap con funzione di copertura.

Inoltre, in presenza di condizioni di rifinanziamento che consentano una riduzione del valore finanziario delle passività totali, al netto delle commissioni e dell'eventuale retrocessione del gettito dell'imposta sostitutiva di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, e successive modificazioni, la norma de quo consente a Regioni ed enti locali di provvedere alla conversione dei mutui contratti successivamente al 31 dicembre 1996, anche mediante il collocamento di titoli obbligazionari di nuova emissione ovvero mediante rinegoziazioni, anche con altri istituti, delle condizioni contrattuali.

I rilievi delle Regioni ricorrenti lamentano, in sintesi:

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la violazione della competenza legislativa regionale in materia della finanza regionale e locale (competenza ritenuta residuale o concorrente), sull'assunto del carattere di dettaglio delle disposizioni sopra sommariamente richiamate;
 

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la violazione dell'art. 117, sesto comma, della Costituzione per l'attribuzione al Ministro dell’economia e delle finanze di una potestà sostanzialmente [anche se non formalmente, non essendo espressamente riconosciuta (se non per il riferimento alle “norme” relative all'ammortamento del debito e all'utilizzo degli strumenti derivati da parte degli enti sub-statali) la natura normativa del relativo decreto)] regolamentare in materia non riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, o comunque l'illegittimità della attribuzione allo stesso Ministro di una potestà di coordinamento "innominato”. Sotto questo secondo profilo, le ricorrenti sottolineano come il potere statale di indirizzo e coordinamento possa essere esercitato solo in stretto collegamento con i titoli (nella fattispecie non ricorrenti) di competenza legislativa statale esclusiva di cui al nuovo comma 2 dell’articolo 117 Costituzione (come dispone l’articolo 8, comma 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131, c.d. legge “La Loggia”) e comunque con il rispetto delle garanzie procedurali (nella fattispecie assenti) previste dalla giurisprudenza costituzionale e dalla legislazione precedente alla riforma del titolo V, parte seconda, della Costituzione (in particolare la collegialità governativa e la necessaria previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni);
 

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la violazione dell'autonomia finanziaria garantita agli enti sub-statali dall'art. 119 della Costituzione. La norma impugnata disciplinerebbe,infatti, con previsioni di dettaglio non riconducibili ai principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario di cui al comma 2 dell’articolo 119 della Costituzione, l'indebitamento delle Regioni e degli enti locali, che costituisce una componente essenziale della rispettiva autonomia finanziaria. In particolare, la pretesa da parte dello Stato di disciplinare l’indebitamento degli enti locali sarebbe in contrasto con il sistema costituzionale vigente che rimette la relativa normativa alle Regioni nel quadro dei principi fondamentali stabiliti dalla legge statale;
 

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la violazione del principio di leale collaborazione, per il ruolo marginale attribuito alla Conferenza Unificata in ordine al decreto ministeriale previsto.

La Consulta disattende i rilievi critici sollevati dalle Regioni ricorrenti sulla base di motivazioni troppo lineari e sintetiche per essere anche esaurienti.

In prima approssimazione, la disciplina delle condizioni e dei limiti dell'accesso degli enti territoriali al mercato dei capitali viene (correttamente) ricondotta nell’ambito del "coordinamento della finanza pubblica" di cui al comma 3 dell’articolo 117 della Costituzione e, quindi, in seno alla potestà legislativa concorrente Stato-Regioni.

Costretta, peraltro, a salvare disposizioni volte a dettare norme palesemente di dettaglio, difficilmente riconducibili a quei principi fondamentali cui (secondo il testo costituzionale) dovrebbe limitarsi la normazione statale cornice, la Corte introduce due ulteriori argomentazioni:

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da un lato (forse per giustificare l’attribuzione ad un Ministro di un potere regolamentare o, comunque, di un potere di indirizzo e di coordinamento e, quindi, dovendo, per le ragioni sopra evidenziate, trovare un aggancio nell’elenco delle materie attribuite dall’articolo 117, comma 2, della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato) sottolinea come in tema di accesso degli enti territoriali al mercato dei capitali, i poteri di coordinamento che possono legittimamente essere attribuiti ad organi centrali siano connessi per l'oggetto con la competenza statale in materia di "tutela del risparmio e mercati finanziari" di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e, della Costituzione, che riguarda in particolare la disciplina delle forme e dei modi in cui i soggetti – e così anche, in particolare, gli enti territoriali – possono ottenere risorse finanziarie derivanti da emissione di titoli o contrazione di debiti (punto 3 del Considerato in diritto);
 

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dall’altro lato, evidenziando la specificità della materia incisa dalla norma impugnata e richiamando (con argomentazione che riecheggia quanto sostenuto dalla medesima Corte nella ormai famosa sentenza n. 303/2003 a proposito della valenza del principio di sussidiarietà quale criterio dinamico di distribuzione delle competenze normative oltre che amministrative) la necessità, ai fini del coordinamento finanziario, di esercitare anche poteri amministrativi di regolazione tecnica, di rilevazione dei dati e di controllo, chiarisce come la disciplina di tali poteri non possa ritenersi preclusa alla legge statale, “anche in forza dell'art. 118, primo comma, della Costituzione” (punto 3 del Considerato in diritto). Secondo il Giudice delle leggi, infatti, “il carattere "finalistico" dell'azione di coordinamento esige che al livello centrale si possano collocare non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia, ma altresì i poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento – che di per sé eccede inevitabilmente, in parte, le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali – possa essere concretamente realizzata”.

Naturalmente, il potere di coordinamento in materia finanziaria attribuito allo Stato dalle norme oggetto della sentenza in commento e fatto salvo dalla Consulta sulla base delle argomentazioni sopra succintamente esposte non può non incontrare, a tutela dell’autonomia (costituzionalmente garantita) delle Regioni e degli enti locali, corposi limiti al di là dei quali (come afferma la stessa Corte) “si trasformerebbe in attività di direzione o in indebito condizionamento dell'attività degli enti autonomi”.

Tale potere deve, pertanto, essere inteso come potere di adottare le (sole) misure tecniche necessarie al raggiungimento delle finalità di contenimento del costo dell’indebitamento degli enti sub-statali e di monitoraggio dei conti pubblici poste dalla norma in questione, in armonia con i vincoli (fra cui, in particolare, quelli di origine comunitaria connessi con il Patto europeo di stabilità e crescita) e con gli indirizzi concernenti la cosiddetta finanza pubblica allargata, senza possibilità di “incidere sulle scelte autonome degli enti quanto alla provvista o all'impiego delle loro risorse, effettuate nei limiti dei principi di armonizzazione stabiliti dalle leggi statali, o, peggio, di adottare determinazioni discrezionali che possano concretarsi in trattamenti di favore o di sfavore nei confronti di singoli enti”.

La corretta individuazione dei suddetti limiti al potere statale di coordinamento finanziario non si accompagna, peraltro, (nelle considerazioni dei Giudici di Palazzo della Consulta) all’individuazione di efficaci misure volte a prevenirne (piuttosto che semplicemente a reprimerne) eventuali violazioni.

Sotto questo profilo, le argomentazioni delle Corte, laddove (punto 4 del Considerato in diritto), nei confronti di atti di coordinamento finanziario lesivi dell’autonomia degli enti sub-statali (e pur evidenziando la possibilità di ricorrere a tutti “i rimedi previsti dall’ordinamento”) sembrano suggerire a tali enti come rimedio principe il conflitto di attribuzioni, appaiono deboli e, soprattutto, in palese contrasto con la affermata necessità di procedere ad attività concertative e di coordinamento orizzontale e di pervenire ad intese ed accordi per attivare quella funzione dinamica del principio di sussidiarietà quale criterio ordinatore delle competenze legislative ed amministrative individuata dalla Consulta “con bagliori di potere costituente” (Morone) nella citata sentenza 303/2003 e richiamata nella sentenza in commento.

In altri termini, non appare condivisibile l’affermazione secondo cui “la previsione del parere della Conferenza Unificata sullo schema di decreto costituisce una garanzia procedimentale – in sé sufficiente, atteso l'oggetto della disciplina – atta a contrastare l'eventuale assunzione, da parte del decreto medesimo, di contenuti lesivi della autonomia garantita agli enti territoriali”; trattasi, infatti, (come giustamente rilevato dalle Regioni ricorrenti) di una garanzia meno favorevole per il complesso degli enti territoriali non statali di quelle previste dalla giurisprudenza costituzionale e dalla normativa precedenti la riforma costituzionale del 2001 e comunque insufficiente ad esercitare un’efficace funzione preventiva nei confronti di eventuali atti di coordinamento finanziario invasivi della sfera di autonomia costituzionalmente riconosciuta agli enti sub-statali.

Soprattutto alla luce delle affermazioni contenute nella più volte citata sentenza n. 303/2003, sarebbe stato lecito attendersi dalla Consulta una più efficace presa di posizione circa il necessario coinvolgimento (per mezzo di intese e non di meri pareri) di Regioni ed enti locali nella elaborazione delle norme di coordinamento in materia finanziaria, senza che la tutela della rispettiva sfera di autonomia fosse rimessa (in chiave esclusivamente repressiva) al (non agevole) strumento del conflitto di attribuzioni.

In conclusione, il processo di attuazione giurisprudenziale dell’articolo 119 della Costituzione e, più in generale, del c.d. “federalismo fiscale” procede fra luci ed ombre e, comunque, in maniera (inevitabilmente) frammentaria. Appare, pertanto, improcrastinabile la tempestiva adozione, da parte del legislatore, di organici provvedimenti attuativi tali da completare il complesso delle disposizioni di prima attuazione della riforma avviata dalla legge costituzionale 3/2001.

 

* Funzionario della Regione Piemonte e dottorando di ricerca in diritto pubblico presso l’Università degli studi di Torino.

** Le opinioni espresse nel presente lavoro costituiscono esclusivamente il frutto di elaborazioni personali e non possono, dunque, impegnare in alcun modo l’amministrazione di appartenenza dello scrivente.


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