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Nicola
W. M. Suck
L’ARTICOLO
2 DELLA LEGGE 7 AGOSTO 1990, N. 241 ED IL TERMINE NEL PROCEDIMENTO
AMMINISTRATIVO
SOMMARIO:
– 1.
Introduzione; 1.1. Definizione del termine e distinzioni; 1.2. Il silenzio
come patologia nel decorso del tempo; 1.3. Il tempo dell’azione
amministrativa e le tipologie del silenzio; 1.3.1. Il silenzio significativo;
1.3.2. Il silenzio – rifiuto; 2.La
reazione al silenzio della p.a.; 2.1. La concezione attizia; 2.2. L’accertamento
dell’obbligo a provvedere; 2.3. La soluzione definitiva: l’articolo 3 del
T.U. n. 3/1957; 3. Il termine nel
procedimento amministrativo e l’articolo 2 della legge n. 241/1990; 3.1
Opinioni critiche; 4. La struttura
ed i principi dell’articolo 2 della legge n. 241/1990; 4.1 Il dovere di
conclusione espressa del procedimento; 4.2. Il sistema dei termini; 4.3. Il
termine residuale; 4.4. Funzione del termine; 4.5. Regime del termine; 5.
Inosservanza del termine e reazioni; 5.1. Superamento del meccanismo
tradizionale; 5.2. Contenuto della tutela; 6.
Conclusioni.
1.Introduzione.
In
via del tutto generale, il termine rappresenta un concetto cronologico
a carattere dinamico, che mentre il tempo decorre, individua un preciso
momento di esso nel quale, sino al quale o dal quale un atto, una attività, o
un effetto, possono o devono realizzarsi. Nel diritto amministrativo, il tema
del termine si ricollega alla generale tematica del decorso del tempo e del
silenzio nel procedimento amministrativo, e delle relative possibilità di
tutelare gli interessi di quei terzi che possono trarre pregiudizio dalla
situazione di incertezza che si viene a determinare. Il presente lavoro,
delimitando il campo di indagine, si propone di riassumere il regime del
decorso del tempo anteriormente all’entrata in vigore dell’articolo 2
della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo, per trarne
degli spunti alla luce dei quali cogliere la portata ed i limiti di tale nuova
disposizione, e giungere quindi ad un superamento del silenzio come istituto
necessario nel procedimento amministrativo.
1. 1. Definizione del termine; distinzioni.
Il
termine è dunque uno strumento di identificazione temporale, che isola e fissa un
particolare momento del tempo come entità astratta, rendendo tale momento
concreto, percettibile, e rilevante per determinati fini. Questi fini, a loro
volta condizionanti rispetto ai suddetti atti o effetti cui il termine
riferisce, possono rilevare sul piano della semplice realtà fattuale, come
anche sul piano del diritto. La individuazione concreta del momento temporale
isolato dal termine, o meglio il raggiungimento, nell’ambito della dinamica
temporale, di quel preciso momento, sono comunemente detti scadenza del termine. Il concetto di scadenza, a sua volta, evoca l’idea
di un venire meno, di un esaurimento, ovvero di un indefinito mutamento degli
elementi di fattispecie che compongono la situazione, riduzione o mutamento
percettibile sul piano delle possibilità di azione; questo secondo concetto
della scadenza è solo in apparenza riferibile al termine in quanto tale,
mentre in realtà individua la mutata identità della situazione sottostante.
In breve, la scadenza del termine
produce sulla situazione cui esso è riferito delle conseguenze, e mentre la
scadenza è concetto che riguarda esclusivamente il fatto del decorso del
tempo, le conseguenze possono essere fattuali quanto giuridiche.
Giuridicamente, il termine si precisa quindi come un avvenimento (nel senso anzidetto) futuro e certo, dal quale o sino al quale possono o debbono prodursi determinati effetti o compiersi determinati atti giuridicamente rilevanti; individuando il termine, l’ordinamento limita il tempo dell’inizio o della cessazione di atti o effetti giuridici. Ciò può avvenire in tutti i rami del diritto, in quello civile come in quello pubblico: è sempre l’ordinamento che con una norma attribuisce rilevanza alla individuazione di un dato momento del tempo in funzione di determinate conseguenze giuridiche. Quale sia il momento individuato dal termine giuridico, può dipendere invece da una norma dell’ordinamento, come dalla volontà di soggetti che di quell’ordinamento fanno parte. Così precisato in via generale come decorso del tempo cui l’ordinamento attribuisce rilevanza giuridica, il termine suole essere distinto in determinato o indeterminato, a seconda che il relativo momento da isolarsi nel decorso temporale sia immediatamente individuato ed individuabile a priori (es. il 15 marzo), ovvero consista in un evento certo solo nell’an, ma non anche nel quando (es. alla mia morte); si parla inoltre di termine di efficacia in riferimento all’operare di effetti giuridici, e di adempimento in relazione al compimento di determinate attività; e di termini iniziali e finali con riguardo all’inizio o alla cessazione della possibilità degli effetti o degli atti.
Tradizionalmente, il termine come istituto giuridico appartiene al diritto civile sia sostanziale, nell’ambito del quale si collocano i termini di efficacia, di adempimento, iniziali e finali, sia processuale, nel quale i termini iniziali e finali rilevano come dilatori ed acceleratori, e rispetto al quale si distinguono i termini perentori, eccezionali, inderogabili e comportanti la decadenza, e quelli ordinatori, derogabili e prorogabili, come ipotesi normale [1] .
Nell’ambito del diritto amministrativo, a causa delle tradizionali concezioni del diverso rapporto tra l’amministrazione ed il privato ad essa soggetto, l’istituto del termine non è stato rilevante per la produzione di effetti giuridici sino a tempi assai recenti, ed il decorso del tempo veniva riferito invece al diverso '‘istituto'’ del silenzio nelle varie forme che la dottrina ha elaborato da questo fenomeno, che nei fatti è sempre uguale a se stesso [2] Solo con la legge 7 agosto 1990, n. 241, il termine come istituto giuridico nel senso anzidetto entra ufficialmente a fare parte degli elementi giuridicamente rilevanti nell’attività amministrativa [3] , e ciò in maniera assai più incisiva che nella tradizione civilistica. Infatti, mentre nei rapporti privati il termine assume rilevanza per volontà espressa delle parti, ed è tradizionalmente uno degli elementi accidentali del rapporto/negozio, nel diritto amministrativo il termine rileva sempre e per volontà di legge, e si configura quindi come elemento essenziale del procedimento, destinato anzi a superare l’istituto del silenzio sostituendosi integralmente ad esso.
1.2. Il silenzio come patologia nel decorso del tempo.
Abbiamo detto che il termine individua un momento nel decorso del tempo e lo isola, e che il raggiungimento di quel momento produce delle conseguenze giuridiche rilevanti per il compimento di determinati atti e per la produzione di determinati effetti. Si tratta quindi di vedere, dopo un sommario richiamo alla concezione risalente e tradizionale del decorso del tempo nel procedimento, quale incidenza produce il nuovo istituto del termine, quali sono le conseguenze della sua scadenza, ed infine cosa questo significa per le possibilità di reazione giuridica alla situazione che si determina dopo la scadenza stessa. Su questo percorso, si può giungere a trarre delle conclusioni sull’identità del termine nel diritto amministrativo, e sulla sopravvenuta irrilevanza del silenzio come categoria da abbandonare con decisione, se si vuole affermare il principio della certezza del tempo nell’agire della Pubblica Amministrazione.
Quest’ultimo principio ci conduce verso l’articolo 2 della menzionata legge 7 agosto 1990, n. 241, che sancisce il principio stesso stabilendo che ciascuna amministrazione deve concludere i procedimenti con un provvedimento espresso ed entro un termine certo, individuato in un sistema articolato su tre livelli [4] : termine predeterminato dalla legge o da un regolamento; termine stabilito da ciascuna amministrazione per i singoli procedimenti che ad essa fanno capo; termine residuale di 30 giorni in difetto di ogni altra previsione. Prima di esaminare la complessa struttura di questa previsione normativa, che accanto a significative novità presenta anche alcune decisive lacune [5] , occorre accennare alla situazione precedente l’introduzione dell’articolo stesso.
1.3. Il tempo dell’azione amministrativa e le tipologie
di silenzio:
Tradizionalmente,
la Pubblica Amministrazione è ritenuta sovrana del proprio tempo sotto ogni
punto di vista; giuridicamente quindi, l’elemento del tempo non entra in
alcun modo a fare parte della fattispecie costitutiva del potere
amministrativo, né esso rileva dall’esterno, come elemento condizionante l’estrinsecazione
di tale potere e l’attività amministrativa in genere. In questo contesto,
il termine può avere una valenza tutt’al più organizzativa o statistica,
nell’ambito endoprocedimentale, ma ad esso non si collegano effetti
giuridici. I tempi del procedimento sono affidati alla discrezionalità dell’amministrazione
procedente, e dipendono dall’organizzazione dell’attività e dalle
esigenze degli uffici nel singolo caso, nonché da elementi anche sopravvenuti
in corso di procedimento. Il dovere
[6]
dell’amministrazione di provvedere, anche quando sancito da una
norma espressa, non si specifica né rispetto al come,
né rispetto al quando, ed è in
sintesi un mero dovere di procedere,
privo di garanzie concrete sui tempi e sui modi.
In questo contesto, emerge ovviamente il problema della inerzia dell’amministrazione procedente, della assoluta mancanza di una qualsiasi manifestazione di volontà da parte dell’amministrazione stessa – il silenzio quindi, come mero fatto giuridico, non classificabile né individuabile cronologicamente. Invero, il silenzio si pone rispetto al tempo in un rapporto di relazione [7] , per cui esso silenzio può produrre determinati pregiudizi in capo a coloro che sono coinvolti nel procedimento, interessati alla conclusione dello stesso, e costretti a subire la situazione di incertezza, sia che l’attesa riguardi un provvedimento ad essi favorevole, sia un effetto sfavorevole. Il problema si specifica in un duplice ordine di questioni: a) come, con quali strumenti fare valere il pregiudizio prodotto dall’incertezza protratta dal silenzio? b) da quale momento, da quando, l’incertezza da fisiologica situazione di attesa può dirsi con certezza patologica situazione di silenzio, di cui lamentare la sicura illegittimità, e l’eventuale pregiudizio conseguente? In sintesi, da quando e come può farsi valere il pregiudizio arrecato dal silenzio illegittimo?
Da questi interrogativi, emerge anzi tutto un dato: a prescindere dalle elaborazioni che ne sono state fatte per le ragioni di cui immediatamente in appresso, il silenzio, qualificato o meno, deve essere considerato non un istituto, ma una patologia del procedimento, un esito non naturale e deviato dello stesso. Invero, il silenzio produce o protrae sempre una situazione di incertezza che, anche ove significativa, non può ritenersi conclusiva del procedimento, e ciò senza che occorra configurare un apposito obbligo di conclusione univoca ed espressa [8] . Queste considerazioni verranno approfondite in seguito. In questa sede, occorre rilevare che per le ragioni esposte, il silenzio deve essere sempre impugnabile, e soffermarsi sulle modalità di impugnazione.
1.3.1. Il silenzio significativo.
Tradizionalmente,
si ritiene che il silenzio possa anzi tutto essere reso rilevante e
qualificato da una norma di legge; sorge così il concetto di silenzio
significativo
[9]
, nel duplice senso di silenzio – accoglimento,
quando la mancata determinazione deve essere interpretata come determinazione
positiva, e di silenzio – diniego,
quando l’inerzia deve interpretarsi come determinazione negativa, di rigetto
dell’istanza. Il silenzio – diniego, o silenzio – rigetto, è ritenuto
la forma tradizionale di silenzio significativo, in omaggio alla posizione di
sovranità dell’amministrazione in ordine al procedimento ed a modi e tempi
di gestione dello stesso. Si è
poi ravvisato nel silenzio – accoglimento, o silenzio – assenso, un modo
recente per decongestionare l’attività amministrativa, renderla più celere
ed agevolare il privato istante e la tempestiva soddisfazione degli interessi
del medesimo
[10]
. In ogni caso, sembra che spesso si ritenga che il silenzio
significativo superi l’incertezza e quindi il problema dell’impugnazione
del silenzio, che resterebbe esclusa. Ma è così solo in apparenza, e la
ragione si ravvisa proprio nei termini appena utilizzati per descrivere il
fenomeno: in entrambi i casi, si tratta
infatti di interpretare il silenzio, ed è noto come il processo
interpretativo possa dare luogo a soluzioni diverse, nessuna delle quali
certa, assoluta, definitiva. Inoltre, il silenzio, anche quando ha valore
legale tipico, nulla dice su quelle che potrebbero essere le reali
determinazioni dell’amministrazione, quando al silenzio stesso non
corrisponda una effettiva volontà di non esprimersi, bensì un semplice
ritardo, un ostacolo alla determinazione, una svista. Il
privato vede solo l’effetto, non la causa. Ancora, nel caso di silenzio
– accoglimento, la mancata determinazione espressa impedisce di sapere se l’istanza,
ed il connesso procedimento, presentino tutti i requisiti perché quell’accoglimento,
raggiunto con il silenzio piuttosto che con il provvedimento, sia legittimo ed
efficace; così come non è certo se sia legittimo il rigetto sulla base dei
requisiti e caratteri di istanza e procedimento; in entrambi i casi, manca
comunque una valida motivazione alla luce della quale comprendere gli effetti
prodottisi, e sulla quale fondare una eventuale impugnazione, anche da parte
di possibili controinteressati a che una istanza non venga accolta (Cfr. in
proposito la nota n. 12). In breve: il silenzio significativo da luogo ad un difetto
di motivazione
[11]
e non elimina affatto l’incertezza
e le sue conseguenze
[12]
. Esso deve quindi restare impugnabile, e da questo punto di vista
non può differire da quella assenza di determinazione che evidenzia il
carattere patologico del silenzio stesso: il ‘silenzio
– inadempimento’, tradizionalmente sorto come ‘silenzio – rifiuto’
[13]
, a causa del carattere dei rimedi che vi erano e sono
collegati.
1. 3. 2. Il silenzio- rifiuto.
Invero,
la locuzione ‘silenzio – rifiuto’,
come illegittima inerzia dell’amministrazione nei casi in cui essa è invece
tenuta a provvedere potrebbe ingenerare confusione terminologica con l’apparentemente
diverso silenzio – rigetto, che è ipotesi dal
valore legale tipico. “Rifiuto” implica ovviamente che è stato
rifiutato qualcosa…e dunque a rigore di termini dove sarebbe l’inadempimento,
dove la differenza rispetto al silenzio significativo? Tale differenza
dovrebbe rinvenirsi nel termine di
riferimento delle locuzioni: il ‘rigetto’ è riferito all’istanza
del privato, il ‘rifiuto’ invece al provvedimento. Nel silenzio –
rigetto è rigettata l’istanza del privato, con un tacito provvedimento di
diniego. Nel silenzio – rifiuto è rifiutata l’attività del provvedere,
il provvedimento dell’amministrazione, ed ove vi sia dovere di provvedere
[14]
, ciò è illegittimo e costituisce inadempimento. Se non ché
proprio qui i due concetti iniziano a sovrapporsi: perché ove
obbligo di provvedere non via sia, cosa che il silenzio non chiarisce, quello
stesso silenzio automaticamente non sarà più silenzio - rifiuto, ma silenzio
– rigetto; l’istanza del privato affinché si provveda è legittimamente
rifiutata poiché non vi è obbligo di provvedere, e quindi si può
legittimamente rifiutare il provvedimento; ancora una volta, si tratta di
interpretare, poiché comunque nulla di espresso è detto. Inoltre, la
differenza accennata tra i due concetti, è smentita dalla stessa storia dell’elaborazione
del silenzio – inadempimento: concetto nato in relazione al tradizionale carattere
impugnatorio e demolitorio del ricorso al giudice amministrativo come
unico rimedio contro le conseguenze del silenzio, nel momento in cui questo
ragionevolmente può rilevare e diviene impugnabile: il ricorso al giudice
amministrativo era ed è strutturato per demolire (o confermare) un
provvedimento espresso, e quindi per ricorrere occorre(va) impugnare un
provvedimento espresso; ma nel silenzio come assenza di qualsiasi
determinazione di volontà, come mero fatto nemmeno necessariamente giuridico,
cosa si può impugnare? Dunque, la giurisprudenza ha configurato il silenzio
rifiuto come fatto giuridicamente rilevante e con una fictio iuris lo ha assimilato ad un provvedimento negativo espresso, affinché ci fosse ‘qualcosa’
da impugnare con il ricorso – esattamente come avviene per il silenzio
significativo avente valore tipico di rigetto, e rispetto al quale
paradossalmente si vorrebbe asserire una certezza esclusiva di quello stesso
interesse alla impugnazione che costituisce la base storica del silenzio –
inadempimento. Si torna alla conclusione per cui il silenzio come incertezza patologica deve essere impugnabile sempre ed
a prescindere dal significato, che può avere valore meramente indicativo e
provvisorio. Ove si volesse invece mantenere ferma la distinzione
tradizionale, il silenzio – inadempimento andrebbe appunto inteso solo come
illegittimo diniego dell’attività del provvedere, superando completamente l’assimilazione
al provvedimento di rifiuto e mantenendo fermo il solo inadempimento di un
obbligo preciso; si giunge così alle novità introdotte dall’articolo 2
della legge 7 agosto 1990, n. 241, e su questa strada, come vedremo meglio in
seguito, si può giungere a ritenere del tutto irrilevante e superato lo
stesso concetto di silenzio, a favore di un comune inadempimento cui si
ricollegano i rimedi ordinari esperibili contro tale atteggiamento. Occorre
tuttavia prima precisare e concludere l’esposizione della evoluzione storica
del silenzio – inadempimento e dei relativi rimedi, così come accennata,
per meglio apprezzare i mutamenti e le novità introdotte successivamente.
2. La reazione al silenzio della p.a.
Come appena accennato, tradizionalmente l’amministrazione è ritenuta sovrana del proprio tempo, per cui essa deve potere provvedere nei tempi necessari in relazione alle proprie esigenze organizzative, e disporre di tutto il tempo che si rendesse necessario, anche in corso di procedimento. Si configura quindi una necessaria attesa, come elemento fisiologico del procedimento. Ove però questa attesa si protragga oltre dei tempi ragionevoli, senza che l’amministrazione tenuta a provvedere assuma alcuna determinazione, l’attesa fisiologica diviene incertezza patologica, dal quale può sorgere pregiudizio per i soggetti coinvolti; quindi, l’attesa oltre limiti ragionevoli e commisurati alla situazione, concretizza una situazione illegittima di silenzio, la quale va rilevata per tutelarsi dalle conseguenze dannose che può determinare. Sorge allora il triplice problema per cui occorre determinare a) chi adire per tutelarsi; b) con quali strumenti reagire; c) essendo il silenzio un fatto intangibile, come fare ad individuare il momento dal quale il decorso del tempo da attesa fisiologica diviene silenzio illegittimo e giuridicamente rilevante; in breve: da quale momento in poi è superato il limite ragionevole e si giustifica una reazione sul piano dell’ordinamento? Abbiamo già delineato i tratti sommari della soluzione, elaborata ovviamente dalla giurisprudenza, che si è confrontata con la situazione di fatto dell'inerzia dell'amministrazione tenuta a provvedere: presupposto indefettibile è l’obbligo a provvedere, per cui occorre un soggetto che abbia la possibilità e l’autorità per accertare tale obbligo; nel procedimento amministrativo sono coinvolti interessi legittimi dei soggetti interessati, quindi a) il soggetto da adire per reagire al silenzio è il giudice amministrativo; quanto agli strumenti, non esiste una apposita azione di accertamento dell’inerzia, ed il giudice amministrativo si pronuncia su provvedimenti amministrativi che sono impugnati dagli interessati con un ricorso, che introduce un procedimento impugnatorio e demolitorio; dunque b) il silenzio è impugnato con ricorso come fittizio provvedimento di rifiuto, che è annullato per difetto di motivazione, o più in generale per eccesso di potere; quanto al momento in cui il silenzio diviene giuridicamente rilevante come inadempimento, essendo il decorso del tempo un fatto ed il provvedimento negativo una mera finzione, occorre un atto giuridicamente rilevante e tangibile che formalizzi l’inerzia individuando un preciso momento del tempo, dal quale in poi esso può essere percepito come incertezza ed inerzia; in conclusione c) il silenzio è avvertito come incertezza dal privato che la formalizza in un espresso atto di istanza, diffida o messa in mora, che isola il momento di rilevanza giuridica del silenzio.
2. 1. La concezione pattizia.
Ecco
come, a cavallo tra i due secoli, il silenzio – inadempimento è stato
elaborato dalla giurisprudenza come istituto necessario per fare rilevare
giuridicamente l’inerzia dell’amministrazione tenuta a provvedere. Il
Consiglio di Stato, rilevata la possibilità che tale inerzia protratta oltre
un certo limite potesse danneggiare gli interessati, ammise che il privato
potesse sollecitare l’amministrazione a provvedere entro un termine congruo
(non ancora fissato a priori), mediante un atto di intimazione
[15]
. Decorso inutilmente il termine, il silenzio veniva qualificato in
virtù della descritta fictio iuris
come provvedimento negativo, volontà di non provvedere, suscettibile di
autonoma impugnazione.
2. 2. L’accertamento del dovere di provvedere.
All’inizio degli anni ‘60 poi, la giurisprudenza si accorge che talvolta appare arbitrario assimilare la semplice inerzia ad un vero e proprio provvedimento tacito da impugnare [16] in quanto tale, potendosi ben trattare, piuttosto che di volontà di non provvedere, semplicemente di non – volontà.di provvedere, anche inconsapevole. Ma dal momento che il sistema era sempre lo stesso, fondato sul ricorso impugnatorio, l’abbandono del descritto sistema attizio avrebbe comportato l’impossibilità di tutelare gli interessi pregiudicati dal silenzio. Si afferma così la possibilità del ricorso al giudice amministrativo a prescindere dalla impugnazione di un provvedimento fittizio, sulla base della affermazione del pregiudizio derivato dall’illegittima inerzia, per ottenere la dichiarazione del dovere di provvedere; il meccanismo resta tuttavia quello incentrato sulla diffida intesa a formalizzare il momento di violazione del dovere di provvedere, la cui sussistenza continua ad essere presupposto essenziale della possibilità di ricorrere contro il silenzio – inadempimento, ancora agganciato al superamento di un canone relativo di ragionevolezza nel decorso del tempo. Precisamente, alla generica descrizione del meccanismo di intimazione e assegnazione di termine congruo, di elaborazione giurisprudenziale, la stessa giurisprudenza [17] sostituisce l’individuazione di una specifica norma ritenuta applicabile in via analogica al fine di impugnare il silenzio: l’articolo 5 del T.U. delle leggi comunali e provinciali del 3 marzo 1934, n. 383, in materia di silenzio - rigetto dell’autorità gerarchica sui ricorsi, recante la previsione di una serie di precisi adempimenti a carico del soggetto interessato, per ottenere la formazione di tale silenzio significativo ed il relativo accertamento, ai fini dell’impugnazione davanti al giudice. Con tale applicabilità analogica, si riteneva di superare la mancanza di una disciplina espressa ed apposita per il caso dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere indipendentemente dalla presentazione di un ricorso contro un atto espresso (silenzio – rifiuto).
2.3. La soluzione definitiva; l’articolo 3 T. U. n. 3/1957.
Il sistema dei ricorsi amministrativi, dal quale fu tratta la norma sul silenzio rigetto ritenuta applicabile per analogia al silenzio rifiuto, è poi stato radicalmente modificato dal D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, ed in particolare dall’articolo 6, che prevedeva un termine espresso di 90 giorni, scaduto il quale il silenzio sul ricorso avverso un provvedimento doveva senz’altro intendersi come respingimento “a tutti gli effetti” del ricorso stesso, senza necessità di ulteriori adempimenti e con immediata ricorribilità giurisdizionale o straordinaria. Questa disposizione supera senz’altro il più macchinoso articolo 5 del T.U. 383/1934, e difatti il Consiglio di Stato ha dichiarato quest’ultima norma di fatto abrogata dall’articolo 6 del D.P.R. n. 1199/1971. Tuttavia, nella stessa occasione, si è affermata anche l’inapplicabilità del citato articolo 6 all’impugnabilità del silenzio – rifiuto, in quanto norma specifica dettata esclusivamente per i ricorsi e non estensibile analogicamente. Di fronte al vuoto di disciplina determinato dall’abrogazione fattuale dell’articolo 5 del T.U. n. 383/1934 e dall’inapplicabilità dell’articolo 6 del D.P.R. n. 1199/1971, occorreva dunque individuare una ulteriore norma applicabile in via analogica per disciplinare il silenzio rifiuto al di fuori dell’inerzia nei ricorsi. Nella nota sentenza n. 10/1978 [18] , che segna l’orientamento definitivo in materia anteriormente (e per certo periodo anche successivamente) alla legge 7 agosto 1990, n. 241, il Consiglio di Stato individua tale disciplina nell’articolo 25 del T. U. delle leggi per gli impiegati civili 10 gennaio 1957, n. 3. Si afferma in tale modo la possibilità di reagire avverso il silenzio – inadempimento notificando all’amministrazione silente a mezzo di ufficiale giudiziario, decorsi 60 giorni dalla presentazione di una istanza o dall’avvio di un procedimento d’ufficio, una diffida formale ad adempiere entro un termine non inferiore a trenta giorni. Trascorso inutilmente tale ulteriore periodo, l’interessato può adire il giudice amministrativo per ottenere la dichiarazione dell’inadempienza ed il risarcimento dei danni che si siano già prodotti in seguito al ritardo. Come si nota, non si parla più di ricorso. La giurisprudenza resta tuttavia ferma nel rinvenire ipotesi di disciplina normativa che prevedano sempre lo schema della previa diffida con messa in mora ed assegnazione di termine ulteriore per adempiere. I termini espressamente fissati dall’articolo 25 del T. U. 3/1957 in 60 ed almeno 30 giorni non sono poi ancora termini del procedimento, ma semplicemente termini per l’impugnazione; difatti, hanno la struttura non di termini finali, e quindi acceleratori, ma all’opposto sono configurati come termini dilatori. In conclusione, pur essendo definitivamente superato il sistema attizio nei suoi termini formali, resta ferma la necessità che, sul presupposto del dovere di provvedere, l’inerzia dell’amministrazione sia formalizzata con un espresso atto di diffida che individui il momento di rilevanza del silenzio – inadempimento [19] , a fronte di una situazione che, in assenza di termini procedimentali espressi, come unico dato offre il fenomeno di fatto del silenzio genericamente protratto, ed il canone di relazione della ragionevolezza. Sul punto, la giurisprudenza non ha più dimostrato oscillazioni per ben quindici anni, ed anche la dottrina ha continuato a parlare di silenzio – rifiuto o di silenzio impugnabile, secondo una tradizione terminologica che affonda le radici nella superata concezione attizia. Invero, la diversa locuzione di silenzio – inadempimento, sino ad oggi impiegata come equivalente rispetto alla precedente, reca una intrinseca portata innovativa che solo i nuovi principi introdotti nel 1990 possono chiarire e sviluppare pienamente.
3.
Il termine nel procedimento
amministrativo e l’articolo 2 della legge 241/1990.
Nel sistema procedimentale anteriore alla legge 241/1990, salve poche eccezioni rinvenibili in talune leggi di settore, non erano previsti termini per i procedimenti, ed i tempi dell’azione amministrativa non erano certi né conoscibili a priori [20] . Il termine come istituto generale era assente. Volendone ugualmente definire l’operatività nel diritto amministrativo, esso veniva descritto come concetto statico, in riferimento al momento di conclusione effettiva del procedimento: termine come segnale della conclusione del procedimento e del conseguente perfezionamento del provvedimento, in tal senso, il termine coincide con l'emissione del provvedimento conclusivo; il punto di riferimento del procedimento non è il termine, ma il provvedimento perfetto [21] . Ovviamente, il termine così inteso, tecnicamente è qualcosa di diverso da quello definito in apertura di queste pagine: esso è identificabile a posteriori come fatto, e non fornisce alcuna utilità o indicazione sulla certezza dei tempi ed il momento di produzione di effetti giuridici: una nozione statica e, se vogliamo, accademica.
In tale contesto, le elaborazioni teoriche intorno al concetto di silenzio erano necessario punto di riferimento per la reazione avverso le conseguenze dannose provocate dall’incertezza originata dall’illegittima inerzia dell’amministrazione. La diffida aveva la funzione di individuare il momento di rilevanza del silenzio e di formalizzare l'inerzia dell’amministrazione [22] : in pratica, essa assolveva la medesima funzione del termine nell’individuare un momento nello scorrere del tempo.
Per effetto dell’articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, tale momento è ora individuato a priori da una disposizione normativa di principio. Da tale articolo emerge infatti l’obbligo dell’amministrazione di concludere i procedimenti con un provvedimento espresso entro un termine certo. Prima di esaminare le articolazioni di questa disposizione, dobbiamo dare brevemente conto di alcune reazioni a tale nuovo precetto, che per la prima volta introduce nell’ordinamento amministrativo il concetto di termine finale come istituto giuridico, nel senso di concetto dinamico con rilevanza intersoggettiva, quale è stato descritto in apertura di queste pagine.
3. 1. Opinioni critiche.
Si è autorevolmente sostenuto che tale previsione sarebbe addirittura peggiorativa rispetto al precedente assetto di elaborazione giurisprudenziale, poiché l’ampia discrezionalità attribuita alle singole amministrazioni nella fissazione degli specifici termini per i singoli procedimenti, oltre che alla creazione di un regime fatto di innumerevoli termini diversi porterebbe alla dilatazione dei termini stessi da parte delle amministrazioni, con l’avvallo di una norma di legge; mentre in precedenza si poteva contare su un termine unico, ragionevolmente fissato in sessanta giorni dall’avvio del procedimento, e seguito da altro periodo non inferiore a trenta giorni ma comunque certo [23] . A queste considerazioni vale forse obiettare che, con riguardo all’assetto precedente, i termini individuati dalla giurisprudenza tramite l’applicazione dell’articolo 25 del T.U. 3/1957 sono, come già accennato, non termini finali del procedimento, bensì termini dilatori per l’impugnazione, in nessun modo riferibili in modo diretto al procedimento amministrativo ed all’azione della P.A. Tale regime giurisprudenziale non favorisce in nessun modo la certezza dei tempi dell’azione amministrativa, se non a posteriori, quando è già subentrata la incertezza patologica. Si potrebbe anzi sostenere che in quel momento favoriscono ulteriormente l’amministrazione in danno del privato, che è l’unico ad incontrare limiti temporali alle proprie iniziative, mentre l’amministrazione inadempiente si vede attribuire tempi ulteriori per provvedere. In sintesi, nel regime ex T.U. 3/1957, sono scanditi a posteriori i tempi di impugnazione, e non definiti a priori i termini del provvedere.
Inoltre,
sempre con riferimento all’orientamento esposto, con riguardo alla ampia
discrezionalità dell’amministrazione nella fissazione di tanti termini
diversi, si può notare che a) anche se diversi per i vari procedimenti, tutti
i termini dovranno essere fissati con atti normativi regolamentari (cfr. oltre
nel testo) e pubblicati, per cui dovrebbero essere comunque conoscibili; b) La
discrezionalità nella fissazione deriva dalla comunque innegabile natura
unilaterale in senso stretto del potere dell’amministrazione
[24]
; essa non impedisce che alla fase
discrezionale nella fissazione astratta, corrisponda poi una fase
vincolata nell’osservanza concreta del termine, che non può essere
trasgredito dall’amministrazione che se lo è dato autovincolandosi in
attuazione di un dovere legislativo
[25]
.
Altri hanno ritenuto che in realtà la disposizione di cui all’articolo 2 della legge 241/90 non rechi alcuna novità sul piano delle possibilità di tutela, in quanto la giurisprudenza da tempo si spinge oltre la lettera delle norme, ammettendo la reazione contro l’inerzia anche nel caso di procedimenti discrezionali, e non solo nel caso del dovere di provvedere espresso [26] come sancito dallo stesso articolo 2. Questa impostazione, corretta nell’individuazione di un dovere di provvedere rilevante ai fini del ricorso anche in presenza di attività discrezionali, invero trascura di cogliere la reale portata innovativa della disposizione in oggetto, che non si coglie sul piano del dovere di provvedere in quanto tale, da tempo efficacemente delineato dalla giurisprudenza. Tale novità incisiva muove piuttosto dal diverso principio del dovere di provvedere in un certo modo, vale a dire espressamente: la vera novità, foriera di significative implicazioni, non è nel comma 2 che sancisce il principio della certezza nel tempo dell’azione amministrativa e supera la necessità della diffida, ma nel comma 1 che introduce il principio dell’obbligo [27] di provvedere espressamente, rendendo superfluo il ricorso alle elaborazioni in tema di silenzio. Vediamo perché.
4.
La struttura ed i principi dell’articolo
2 della legge 241/1990:
L’articolo
2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo viene
comunemente designato come l’articolo concernente il termine del
procedimento; in realtà, tale disposizione presenta una struttura assai
articolata, dalla quale si evincono diversi principi, collegati da un rapporto
di funzione con riguardo al principio di certezza, ma formalmente
distinguibili ed autonomi.
4.
1. Il dovere di conclusione espressa
del procedimento:
Stabilisce l’articolo 2 comma 1 che “Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la Pubblica Amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso.” A parte l’origine dell’obbligo a provvedere, sul quale effettivamente nulla di nuovo è detto, quello che immediatamente si nota è che l’obbligo di provvedere stesso si specifica e trasforma nel diverso obbligo a provvedere espressamente [28] ; viene aggiunto un nuovo elemento di vincolo della fattispecie, il vincolo modale del provvedimento espresso, sola vera forma di conclusione del procedimento; il che significa due cose: a) una volta avviato il procedimento, l’amministrazione non può scegliere le modalità del provvedere, affidandosi ad esempio ad una qualificazione legislativa del silenzio, il che vorrebbe dire che l’amministrazione stessa non “conclude” realmente il procedimento: ora, il procedimento avviato dovrà essere sempre effettivamente concluso; b) essendo la sola effettiva conclusione quella espressa [29] , “si bandisce definitivamente dall’ordinamento italiano la legittimità del silenzio della pubblica amministrazione.” [30] Il che ha conseguenze rilevanti, teoriche e pratiche. Anzi tutto, nei procedimenti avviati su istanza di parte, l’amministrazione è vincolata a prendere in considerazione effettiva le richieste dell’istante, ad analizzarle, ed infine a pronunciarsi espressamente sulle stesse [31]
4.2. Il sistema dei termini.
L’articolo 2 comma 2 stabilisce poi che “Le pubbliche amministrazioni determinano per ciascun tipo di procedimento, in quanto non sia già direttamente disposto per legge o per regolamento, il termine entro cui esso deve concludersi. Tale termine decorre dall’inizio d’ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte.” Viene in tal modo sancito il principio della certezza dei tempi [32] dell’azione amministrativa.
Questa disposizione contiene una serie di elementi rilevanti; anzi tutto, essa evidenzia due dei tre livelli in cui si articola il nuovo sistema dei termini: il termine predeterminato per legge o regolamento (livello normativo), ed il termine determinato dalle singole amministrazioni (livello regolamentare amministrativo). Dalla disposizione in oggetto emergono inoltre seguenti questioni: a) la discrezionalità attribuita alle amministrazioni che fissano i termini liberamente; b) le modalità di fissazione dei termini “di secondo livello”; c) la quantificazione dei termini; d) la conoscibilità dei molteplici e diversi termini che verranno in essere. Quanto alla prima questione, ai rilievi sull’eccessiva libertà attribuita all’amministrazione, autorizzata dalla legge a dilatare a dismisura i termini, e sulla conseguente “inopportunità” dell’attribuzione all’amministrazione della facoltà di libera fissazione dei termini, si è già rilevato come da un lato, la libertà attribuita alle singole amministrazioni nella quantificazione del termine è conseguenza necessaria e diretta del carattere unilaterale in senso stretto del potere amministrativo, distinto da quello legislativo; e, dall’altro lato, come solo le singole amministrazioni possono conoscere ed impostare l’organizzazione concreta dei propri uffici in modo sufficientemente diretto e puntuale da poterne determinare i tempi in modo realistico ed adeguato ai casi concreti [33] . Inoltre, abbiamo già accennato come al momento discrezionale della quantificazione astratta, corrisponda poi un momento vincolato nella osservanza concreta del termine che l’amministrazione stessa si è data, autovincolandosi in maniera definitiva in attuazione di una previsione legislativa.
Con riguardo alla questione relativa alle modalità di fissazione dei termini, curiosamente la legge tace, e sembra essere anzi volutamente generica nel parlare di “determinazioni”, in modo assolutamente atecnico. Anche qui, è stato compito della giurisprudenza specificare la questione. Infatti, il Ministero della Funzione Pubblica, geloso della tradizionale posizione di supremazia e discrezionalità della Pubblica Amministrazione, ha tentato di affermare che, essendo il termine rilevante solo per l’organizzazione dell’attività amministrativa, i vari termini potessero essere fissati dalle amministrazioni con semplici atti amministrativi generali, ed anche con mere circolari [34] . Tuttavia, dal momento che il termine come istituto introdotto dall’articolo 2 comma 2 della legge 241/90 non ha più rilevanza solo interna ed ordinatoria, ma al contrario rileva all’esterno nei rapporti intersoggettivi in cui è parte l’amministrazione, tanto che il comma 4 dello stesso articolo ne prescrive la idonea pubblicità, gli atti amministrativi generali non possono certo ritenersi sufficienti. E difatti, il Consiglio di Stato [35] ha stabilito che la fissazione del termine da parte delle amministrazioni è esercizio di una potestà normativa di natura generale e astratta, prevista da una norma di principio dell’ordinamento, e deve quindi estrinsecarsi nelle forme garantite della normazione erga omnes; di conseguenza, i termini devono essere fissati dalle amministrazioni con veri e propri regolamenti a norma della legge 23 agosto 1988, n. 400, con validità esterna e generale [36] .
Rispetto al problema della quantificazione, è sì vero che la libertà riconosciuta alle amministrazioni è espressione del carattere unilaterale in senso stretto dell’amministrazione, sola a potere inquadrare l’organizzazione ed i tempi concreti dei propri uffici; ma è anche vero che qui emerge forse una prima lacuna di una legge che in apparenza sembrava volere rendere certi i tempi dell’attività amministrativa: la libertà è infatti totale ed illimitata normativamente, sganciata anche da semplici direttive o suggerimenti di riferimento, che pure sarebbero stati utili anche quando non vincolanti; ne consegue che, ancora una volta, sarà la giurisprudenza a dovere prendere posizione sull’elaborazione di canoni di valutazione [37] ; in realtà, rispetto alla situazione precedente, qui non sembrerebbe si siano fatti grandi passi in avanti, se non nella formalizzazione dell’obbligo di fissare un termine; per quanto concerne la quantificazione concreta dello stesso, questa resta ancorata al solo dato della ragionevolezza, come in precedenza elaborato ed applicato dalla giurisprudenza [38] .
Infine, quanto alla conoscibilità dei termini, la disposizione del comma 4 del medesimo articolo 2 prevede che “Le determinazioni adottate ai sensi del comma 2 sono rese pubbliche secondo quanto previsto dai singoli ordinamenti.” Inoltre, il Consiglio di Stato ha senza incertezze affermato la necessità del regolamento generale ed astratto per la fissazione dei termini ad opera delle amministrazioni. Se ne desume che i termini devono e dovranno essere pubblicati in Gazzetta Ufficiale. Dunque, deve ritenersi che, a prescindere dalla moltiplicazione dei termini, sussistono tutte le condizioni per una piena conoscibilità dei vari termini da parte di tutti gli interessati.
4.3. Il termine residuale.
L’articolo 2 comma 3 infine stabilisce che “Qualora le amministrazioni non provvedano ai sensi del comma 2, il termine è di trenta giorni.”, e detta quindi una norma di chiusura del sistema individuando il terzo livello del sistema: il termine residuale, unico, indifferenziato, e brevissimo. In correlazione con la libertà attribuita all’amministrazione dal comma 2, si è sostenuto anche il carattere sanzionatorio del termine residuale, nel senso che la assoluta inerzia nella fissazione del termine da parte dell’amministrazione concreterebbe un “rifiuto di libertà” [39] meritevole di una sanzione, che è quella di costringerla a provvedere entro pochissimo tempo; senonché, a parte che non sembra utile per gli interessi coinvolti e per la ponderazione del procedimento “vessare” l’amministrazione abbreviandole i tempi quasi come un “dispetto”, e che non si vede come possa avvenire la effettiva “costrizione” dell’amministrazione, questo carattere sanzionatorio non è in linea con la natura indifferenziata del suddetto termine. Infatti, tale termine, è uguale per procedimenti semplicissimi e di rapida esperibilità, come per procedimenti complessi ed implicanti molteplici adempimenti ed interessi. Ora, rispetto a procedimenti semplici e snelli, il termine residuale sarà facile da osservare, e magari è di entità anche inferiore a quella che avrebbe fissato la stessa amministrazione coinvolta; per cui, esso non ha niente di sanzionatorio, ed anzi esonera a priori l’amministrazione dalla seccatura di fissare un termine. Al contrario, nei procedimenti per definizione lunghi e complessi, è chiaro fin dall’inizio che il termine residuale non potrà mai essere rispettato [40] . Ma non si vede come da ciò possa trarsi la conclusione che il termine residuale scoraggi l’amministrazione dal non fissare il termine, dal momento che alla previsione del termine volutamente breve non corrisponde alcuna effettiva costrizione normativa alla sua effettiva osservanza; il che è logico, poiché ad impossibile nemo tenetur. Infatti, da questo punto di vista, il termine residuale si risolve, come già accennato, non tanto in una ‘sanzione’, quanto piuttosto in un ‘dispetto’ e non certo all’amministrazione: per rendere effettiva l’osservanza del termine residuale, occorrerebbe infatti una ‘sanzione alla sanzione’, che invece manca completamente; in conclusione, il termine residuale non è una sanzione, ma al contrario un precetto privo di sanzione, poiché l’articolo 2 nulla dice sulla disciplina delle conseguenze dell’inosservanza dei termini, siano essi fissati, ovvero residuali [41] . Il ‘dispetto’ svolge i suoi effetti nei confronti dei soggetti interessati al procedimento, che fin dall’inizio sanno che il termine di trenta giorni non sarà rispettato, e si devono immediatamente confrontare con quella incertezza che il principio della certezza dei tempi avrebbe dovuto superare. Né in realtà il terzo comma dell’articolo 2 può dirsi norma di chiusura [42] , dal momento che una tale norma dovrebbe garantire l’effettiva attuazione di un sistema in tutti i casi, anche non previsti o prevedibili; mentre il sistema del termine certo non sarà effettivo [43] proprio nei casi in cui è scontata l’impossibilità di osservare il termine residuale unico ed indifferenziato, con assoluta incertezza in ordine alle conseguenze di tale inosservanza. In conclusione, al termine residuale sembra potersi ascrivere il solo valore del tutto formalistico di confermare il vincolo generale dell’amministrazione ad un termine ed alla sua fissazione [44] , poiché “un termine ci deve essere comunque”.
4. 4. Funzione del termine.
Veniamo ora all’esame della funzione del nuovo istituto giuridicamente rilevante del termine nell’ordinamento amministrativo, ed al regime concreto del termine stesso nel procedimento, anche con riferimento alle possibilità di reazione e tutela contro l’inerzia, che a questo punto si specifica nella inosservanza del termine, immediatamente riscontrabile sul piano formale e fattuale. Funzione e regime ovviamente si riferiscono all’istituto nel suo complesso, per cui occorre combinare l’obbligo di provvedere in modo espresso di cui al comma 1 e le relative conseguenze, con l’obbligo di fissare un termine e di osservarlo di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 2.
Funzione
immediata del termine, oltre a quella di
scandire i tempi del procedimento in modo certo, è quella di
tutelare gli interessi dei soggetti interessati al provvedimento. Da
questo punto di vista però, la recentissima dottrina
[45]
ha utilmente distinto una diversa operatività del termine nell’ambito
dei diversi tipi di procedimento: più volte abbiamo infatti accennato sia a
procedimenti avviati ad istanza di parte,
e che si dovrebbero concludere con il richiesto provvedimento che amplia la
sfera giuridica dell’istante, e di procedimenti avviati d’ufficio affinché un provvedimento restringa la sfera
giuridica di un soggetto interessato. Ovviamente, le situazioni soggettive
coinvolte rilevano in modo diverso nei due tipi di procedimenti, e diversi
saranno anche gli interessi in gioco e la rilevanza del termine rispetto ad
essi.
Un
importante dato di partenza è che il combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’articolo
2 configurano in capo alle amministrazioni tenute a provvedere un vero e
proprio obbligo il cui inadempimento è immediatamente rilevabile alla scadenza
del termine. Ma come opera questo termine nei diversi tipi di
procedimento?
Nei procedimenti avviati ad istanza di parte, alle tradizionali posizioni dell’obbligo a provvedere in quanto tale in capo all’amministrazione, e dell’interesse legittimo pretensivo alla corretta adozione del provvedimento di accoglimento o rigetto, si affianca un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere un provvedimento espresso [46] ; per effetto dell’istanza, si instaura tra istante ed amministrazione un autentico rapporto obbligatorio secondo lo schema civilistico del diritto e di uno speculare obbligo. Il termine opera quindi in funzione dell’esecuzione dell’obbligo, come un termine di esecuzione civilistico. La mancata osservanza del termine come fatto autonomamente rilevante, a prescindere dal diverso fatto dell’inerzia nel provvedere, fa sorgere il problema dell’inadempimento, e della responsabilità per i danni che da tale inadempimento derivano; si configura inoltre per la prima volta la possibilità di responsabilità per adempimento tardivo [47] , tenendo presente che, come nel rapporto obbligatorio la scadenza del termine non fa venire meno il dovere di adempiere salva la responsabilità per il ritardo, anche nel procedimento ad istanza di parte la scadenza del termine non fa venire meno l’obbligo di provvedere, purché permanga l’interesse pretensivo al provvedimento; funzione del termine è quindi la tutela di questo interesse. Nel caso del procedimento ad istanza di parte quindi, se permane l’interesse al provvedimento ampliativo [48] , non vi è contraddizione nel mantenere fermo il tradizionale principio dell’inesauribilità del potere amministrativo, anche senza dovere fare riferimento alla definizione squisitamente processuale del termine ordinatorio che non provoca decadenza. Questa categoria, nel caso in esame, non ha alcuna utilità pratica.
Nei procedimenti avviati d’ufficio e che si concludono con un provvedimento che restringe la sfera giuridica del destinatario, questi ovviamente non ha interesse al provvedimento stesso, ed anzi vanta un interesse a che il provvedimento non venga emanato. Il potere dell’amministrazione di emanare il provvedimento si configura invece similmente ad un potere privato di natura sostanziale cui corrisponde la soggezione [49] del destinatario, l’esercizio del potere è soggetto ad un termine alla cui scadenza sorge il diritto del destinatario ad esso soggetto alla perdurante integrità della sfera giuridica. Lo schema delle situazioni soggettive è quindi ridotto al potere cui corrisponde un interesse legittimo oppositivo, ed il termine opera come limite di esercizio legittimo del potere: la sua scadenza comporta la decadenza dalla possibilità di esercitare legittimamente il potere, che non può più produrre gli effetti per i quali fu conferito. La responsabilità per i danni sorge a causa della mancata adozione del provvedimento, ma soltanto per l’adozione di un provvedimento tardivo dopo la scadenza del termine; i danni non sono prodotti dal ritardo, ma dal provvedimento fuori termine; in questo caso, il termine può operare in due modi: o come elemento negativo della fattispecie, per cui la sua scadenza si configura come fatto impeditivo dell’esercizio del potere, ed il provvedimento fuori termine sarebbe nullo perché affetto da carenza sopravvenuta di potere; la relativa azione di nullità è proponibile al giudice ordinario e ovviamente non soggetta a termini di decadenza; ovvero, come modalità temporale di esercizio del potere, all’interno della sequenza potere amministrativo – interesse oppositivo; in questo caso, il provvedimento fuori termine è illegittimo, ed annullabile per violazione di legge, entro il termine di decadenza per il relativo ricorso.
L’autore
cui si deve questa originale ed illuminante impostazione conclude in favore
della prima ipotesi, che individua nel potere un elemento negativo della
fattispecie, trattandosi di un limite esterno all’esercizio del potere, a
tutela degli interessi privati, che possono giovarsi della carenza
sopravvenuta di potere, in forza della quale “l’atto tardivo non può
produrre l’effetto costitutivo tipico”. L’assenza di termini di
decadenza tutelerebbe ulteriormente gli interessi privati.
Tuttavia, si può spezzare una lancia anche a favore della seconda impostazione, relativa alla modalità temporale dell’esercizio del potere, che consente di mantenere ferma l’idea della inesauribilità del potere amministrativo senza rinunciare alla tutela degli interessi oppositivi: difatti, la inesauribilità del potere in quanto tale, non impedisce la decadenza dallo stesso, decadenza che colpisce appunto solo la possibilità che esso venga validamente esercitato, nel momento in cui scade il termine [50] ; l’atto tardivo, se si accoglie la prima ricostruzione, non sarebbe neppure qualificabile come provvedimento, mentre non si può negare che in prima battuta esso produce comunque degli effetti propri di quest’ultimo. Inteso il termine come modalità temporale di esercizio del potere invece, esso termine rimane un limite esterno appunto all’esercizio del potere stesso, limite esterno il cui mancato rispetto comporta che l’atto emanato è sì un provvedimento, che però costituisce esercizio illegittimo di un potere esistente ma colpito da decadenza, cioè da preclusione formale di esercizio; e la reazione possibile, sul piano della violazione di legge, non è necessariamente soggetta al termine decadenziale ordinario, poiché la scadenza del termine non formalizza la generica inerzia, ma l’inadempimento di uno specifico obbligo previsto dalla legge, e che formalmente perdura anche scaduto il termine [51] , per cui si può configurare l’ordinario termine per la prescrizione del diritto sostanziale al provvedimento entro il termine [52] . In sintesi, non vediamo ostacoli alla configurazione del termine come modalità temporale per l’esercizio del potere, e quindi come limite esterno a tale esercizio la cui inosservanza temporale comporta per l’amministrazione la decadenza intesa come preclusione di esercitare il potere che di per se resta integro, e come impossibilità di produzione degli effetti costitutivi tipici del provvedimento, la cui mancata o tardiva adozione costituisce non solo violazione di legge, ma anche inadempimento di un obbligo ex 1218 cc. [53] . In conclusione, il termine ha la funzione di limite esterno all’attività amministrativa, a tutela degli interessi privati coinvolti nel procedimento. Riteniamo comunque sempre sussistente un diritto al provvedimento entro il termine, anche quando restrittivo. Nei procedimenti d’ufficio, tale diritto si estrinseca nel diritto a che, una volta avviato il procedimento, la sfera del destinatario sia ristretta entro il termine, e non dopo. Peraltro, la tutela basata sulla carenza di potere, che si riconduce alle elaborazioni in materia di eccesso di potere, era stata configurata già in tempi risalenti, addirittura sotto il vigore della concezione attizia originale; mentre la reale novità di tutela ci sembra ravvisabile proprio nel rilievo immediato di una violazione di legge generale, relativa ad un obbligo preciso, cioè quello di provvedere entro il termine.
4.5. Regime del termine.
Quanto al regime del termine, come sulle modalità di quantificazione, la legge 241/1990 tace. La giurisprudenza è concorde nell’affermare che l’articolo 2 della legge 241/90 ha portata di principio generale dell’azione amministrativa [54] . Esso ha dimensione intersoggettiva e rilevanza giuridica esterna, e condiziona quindi non solo l’azione amministrativa, ma anche i rapporti tra l’amministrazione ed i cittadini. Si tratta di un vincolo sia esterno relativo all’esercizio dei poteri, sia interno, rilevante come vincolo che la stessa amministrazione si fissa in attuazione della legge, e che essa amministrazione è tenuta rigorosamente ad osservare. Spunti specifici possono trarsi dalla bozza di regolamento generale elaborato nel 1991 dalla Commissione Cassese per l’attuazione della legge stessa: ai fini del computo del termine e della comunicazione e pubblicazione del medesimo, non rilevano le varie fasi endoprocedimentali ed i singoli termini necessari per l’attività dei singoli uffici coinvolti [55] ; il termine del procedimento deve essere unico ed onnicomprensivo, riferito all’intero procedimento come figura unitaria: si tratta quindi di un termine unitario e finale [56] in senso tecnico. Non sono ammesse proroghe per motivi generici ed i termini a regime dovranno essere ragionevoli e commisurati alle reali esigenze delle amministrazioni. Come già esposto, i termini devono essere fissati erga omnes con regolamenti a norma della legge 400/1988. La rilevanza giuridica del termine quindi si estrinseca sia sul piano interno della organizzazione efficiente degli uffici e della eventuale responsabilità disciplinare, sia con riguardo all’affidamento che i privati maturano in ordine all’effettiva osservanza di tempi certi [57] , sia infine in ordine ai profili esterni della sollecitazione a provvedere tempestivamente e della eventuale responsabilità civile sia per l’inadempimento in quanto tale, sia per l’eventuale ulteriore profili dei danni conseguenti anche solo al ritardo [58] . E questi profili di rilevanza esterna ci portano a trattare delle possibilità di reazione giuridica nei confronti della inosservanza del termine.
5. Inosservanza del termine e reazioni; la diffida.
Abbiamo visto le possibilità di reazione alla inerzia assoluta nel provvedere, come elaborate dalla giurisprudenza in precedenza alla legge 241/90. Rispetto al quadro allora delineato, ed incentrato da un lato sul semplice obbligo a provvedere in genere, e dall’altro sulla formalizzazione di quella generica inerzia per renderla rilevante ed impugnabile, l’articolo 2 introduce rilevanti novità: la trasformazione del dovere di provvedere in obbligo a provvedere espressamente, e l’obbligo di osservanza non più di tempi ragionevoli valutati ex post, ma di un termine specifico fissato ex ante e subito conoscibile. In sintesi, vi può essere ora uno specifico inadempimento di un obbligo puntuale di provvedere, immediatamente riscontrabile alla scadenza del termine. Il che comporta implicazioni tutt’altro che trascurabili appunto sul piano della reazione giurisdizionale. In pratica, si tratta di esaminare la opportunità di rivedere il meccanismo di tutela elaborato dalla giurisprudenza prima secondo lo schema della assegnazione di un termine congruo previa intimazione [59] , poi sulla diffida a provvedere entro almeno 30 giorni ex articolo 25 T. U. 3/1957 [60] . In particolare, è ancora utile o necessario l’espediente della previa diffida con assegnazione di ulteriore termine per provvedere?
Prima della introduzione del termine espresso come istituto giuridico rilevante nell’attività provvedimentale, la situazione di mero fatto della assoluta mancanza di determinazione oltre un limite temporale ragionevole rendeva necessario formalizzare il silenzio che determinava incertezza patologica, al fine di ricorrere contro tale illegittima situazione di fatto sul piano del diritto. L’atto di diffida aveva appunto la funzione essenziale di formalizzare il silenzio individuando il preciso momento dal quale in poi il silenzio stesso rilevava come inerzia. Da quel momento in poi, l’assenza di determinazione poteva considerarsi nota all’amministrazione e, ove persistente, anche intenzionale e quindi ricorribile. Chi ritiene la diffida ancora oggi necessaria [61] , sostiene tale necessità sulla base dell’assenza di una nuova ed espressa disciplina dell’impugnazione del silenzio nell’articolo 2 della legge 241/90, per cui occorrerebbe necessariamente fare riferimento al meccanismo elaborato sino ad oggi dalla giurisprudenza. Inoltre, la necessità della diffida tutelerebbe anche il privato, poiché lo metterebbe al riparo da decadenze provocate a sua insaputa dal decorso del tempo, una volta scaduto un termine. Questa argomentazione, di deciso segno conservatore, trascura alcuni dati importanti: è vero che l’articolo 2, e tutta la legge 241/90, non prevedono nuove disposizioni in materia di impugnazione del silenzio; ma vi sono nuove disposizioni in tema di obblighi precisi dell’amministrazione, ed inoltre il problema non riguarda specificamente l’impugnabilità della situazione silenzio, ma più specificamente la reazione contro la diversa situazione inadempimento, riferita ad un obbligo puntuale; è contro questo inadempimento che occorre reagire, non più contro il silenzio. Infine, l’argomento della tutela da decadenza ignota è superato, oltre che dalla possibilità di subordinare una azione diversa dal ricorso all’ordinario termine di prescrizione relativo ad un diritto sostanziale, sulla quale possibilità allo stato attuale possono esprimersi dubbi, anche dalla circostanza che l’articolo 2 configura un espresso obbligo di provvedere tempestivamente il cui inadempimento può essere rilevato immediatamente alla scadenza del termine, e produce una situazione di illegittimità che ovviamente si protrae da quel momento in poi, per cui non dovrebbe potersi produrre una decadenza [62] .
5.1. Superamento del meccanismo tradizionale.
Se così è, il meccanismo di cui all’articolo 25 T. U. 3/1957 deve ritenersi superato [63] : la necessità del decorso di almeno 60 giorni dall’istanza o dall’avvio del procedimento è sostituita dal necessario decorso dello specifico termine predeterminato o fissato ex articolo 2 comma 2; la necessità della diffida per formalizzare il silenzio ed individuare il momento di rilevanza dello stesso è invece superata dal fatto che ora è il termine a individuare quel momento di rilevanza, e la violazione dello stesso è immediatamente riscontrabile nei fatti, senza che occorrano ulteriori ed appositi atti [64] . Ed a fronte del principio della certezza dei tempi, e della violazione palese di un obbligo, immediatamente riscontrabile, non si vede la ragione per cui all’amministrazione debba essere assegnato un ulteriore termine per adempiere, offrendo all’amministrazione stessa la possibilità, priva di ogni fondamento logico o positivo, di sanare una illegittimità determinatasi ex lege. Scaduto il termine, si configura inadempimento, il contegno dell’amministrazione è illegittimo, ed il privato deve avere immediato accesso alla tutela giurisdizionale. Dunque, si dovrebbe potere ricorrere davanti al giudice amministrativo appena scaduto il termine, senza necessità di previa diffida. Questo orientamento è colto e condiviso da alcune recenti sentenze amministrative [65] . Ma in questi termini, la questione è più che altro procedurale, e non comporta alcuna novità sul contenuto della tutela [66] : cosa si chiede al giudice?
5. 2. Contenuto della tutela.
Così come in precedenza, si ricorre per ottenere l’accertamento dell’inerzia illegittima. In dottrina si legge di una “declaratoria che, accertata l’inadempienza dell’Amministrazione, imponga alla stessa di provvedere”, e quindi tecnicamente sembrerebbe profilarsi una pronuncia, oltre che di accertamento, anche di condanna a provvedere. Ma se i dubbi in ordine alla possibilità che il giudice “condanni” l’amministrazione sono facilmente superabili, e certo non si pongono configurando il procedimento da concludersi espressamente entro un termine certo come rapporto obbligatorio a tutti gli effetti, ci si interroga sulle possibilità effettive della esecuzione di quella condanna, ed a maggior ragione sulla possibilità di ottenere una sentenza costitutiva che produca i medesimi effetti del provvedimento negato, sul fondamento dell’articolo 2932 c.c.; tale possibilità confliggerebbe con l’inesauribilità del potere amministrativo e la possibilità di un provvedimento tardivo al quale sussista ancora un effettivo interesse, e comporterebbe il rischio di una confusione di poteri; anche perché, comportando un sindacato in ordine alla fondatezza delle pretese del privato ed in ordine soprattutto all’azione dell’amministrazione, vi sarebbe una ingerenza in ambiti discrezionali riservati alla valutazione dell’amministrazione [67] . In sintesi, è certo da escludersi che l’amministrazione possa essere effettivamente costretta a provvedere, per cui, dal momento che il giudice non può sostituirsi all’amministrazione nell’adozione del provvedimento, sembra che l’unica forma di tutela ulteriore all’accertamento dell’obbligo e dell’inadempimento dello stesso, possa ottenersi sul piano del risarcimento del danno – che era configurato anche prima della legge 241/90. Quindi, se vi sono state novità sul piano procedurale, sul terreno del contenuto della tutela non sembra si siano fatti dei passi avanti.
6. Conclusioni.
In
conclusione e riassumendo: il termine è un concetto
di individuazione temporale che isola determinati momenti nel decorso
del tempo ai fini della produzione di effetti o del compimento di atti. La
scadenza del termine da atto della mutata situazione di fatto. Sul piano
giuridico, il termine è l’istituto che attribuisce rilevanza ad un momento
nel decorso del tempo per il compimento di atti o la produzione di effetti
giuridici. Prima della legge 241/90, in ambito amministrativo non erano di
regola previsti termini per la conclusione dei procedimenti, se non in
particolari ed eccezionali casi; il decorso del tempo poteva rilevare al più
a fini organizzatori o statistici, all’interno dell’amministrazione. Il
decorso del tempo in termini di attesa era un dato fisiologico da affrontare
nel procedimento senza certezze di partenza; tuttavia, il decorso del tempo
oltre limiti ragionevoli valutati ex post, poteva causare incertezza pregiudizievole, contro la quale
era ammessa la reazione dapprima attraverso l’impugnazione di un
provvedimento negativo fittizio, poi attraverso il ricorso per i danni subiti
per l’inerzia nel dovere di provvedere, e comunque sempre in base al
meccanismo del ricorso previa diffida e messa in mora con l’attribuzione di
un termine, all’inizio ‘congruo’, poi di almeno trenta giorni. Potendosi
rilevare il solo dato fattuale del comportamento omissivo come fatto, l’impugnazione
era riferita al silenzio inteso come istituto, nelle varie forme del silenzio
significativo e del silenzio – rifiuto o silenzio – inadempimento (del
dovere di provvedere). In tutto questo, il termine finale del procedimento
come istituto non trova alcuno spazio.
Con la legge 241/90, viene introdotto il termine unitario finale del procedimento, e viene sancito il principio dell’obbligo di conclusione espressa [68] del procedimento ex articolo 2 comma 1 entro un termine certo individuato in un sistema a tre livelli dall’articolo 2 commi 2 e 3. Vige ora il principio della certezza dei tempi dell’azione amministrativa. Il dovere di provvedere si trasforma e specifica nell’obbligo di provvedere espressamente [69] , distinguibile in obbligo di concludere il procedimento e obbligo di provvedimento espresso. Da decorso del tempo ragionevole si passa a scadenza del termine certo, ed il ricorso al silenzio come categoria giuridica non è più necessario in nessuna delle forme tradizionalmente elaborate. Questo quando, paradossalmente, solo con la legge 241/90 il concetto di silenzio – inadempimento può assumere reale consistenza terminologica.
Per le possibilità di tutela, sulle quali la legge tace, ciò significa che il termine sostituisce la diffida nell’individuazione del momento rilevante del decorso temporale, l’inerzia diventa inadempimento di un obbligo e tale inadempimento è immediatamente rilevabile senza che occorra ancora formalizzarlo con apposito atto: la diffida diventa inutile e resta superata dalla immediata ricorribilità per fare constatare l’inadempimento; a tale novità procedurale non sembra corrispondano novità incisive sul piano dei contenuti della tutela o della pronuncia del giudice; l’amministrazione inadempiente non può essere costretta ad adottare il provvedimento, che sarebbe comunque tardivo perché il termine è irrimediabilmente scaduto; la sola tutela ulteriore può aversi sul piano risarcitorio [70] .
Abbiamo rilevato che il ricorso alla categoria del silenzio a fini di tutela non è più necessario; potremmo spingerci anche oltre, sostenendo il completo superamento del silenzio come istituto giuridico. Ricordiamo anzi tutto le opinioni di chi vede nel ritardo una forma tipica ed abusata di eccesso di potere, e considera il silenzio uno strumento utilizzabile ed utilizzato a fini non solo dilatori, ma addirittura deviati [71] . Altri rilevano, come si è fatto anche in queste pagine, che il “silenzio” è stato elevato a rango di istituto per errore, facendolo diventare un fenomeno necessario ed inevitabile di fronte ad un atteggiamento fisiologico e ricorrente dell'amministrazione; quando invece la regola dovrebbe essere la determinazione espressa, ed il silenzio una situazione patologica ed eccezionale, certo non meritoria di elaborazione dottrinaria. Orbene, ci sembra che con i principi dettati dall’articolo 2 della legge 241/90, si possa dare ancora maggiore credito a questa opinione, superando del tutto la categoria del silenzio, e relegandola dal terreno giuridico nella sua giusta dimensione di fenomeno di fatto patologico ed inutile a livello teorico e pratico, dal momento che non si pone più il problema dell’impugnazione del silenzio, ma quello della tutela contro l’inadempimento.
In passato, forse sarà stato necessario considerare il silenzio come fatto e dargli rilevanza giuridica per poterlo qualificare, formalizzando un ‘qualcosa’ di impugnabile; altrimenti, non si sarebbe avuto alcun riferimento per le necessarie iniziative di tutela. Grazie all’articolo 2 invece, dal fatto che formalizza l’atto si passa a considerare un dato reale già esistente concretamente e giuridicamente: l’obbligo, come entità diversa dal fatto e dall’atto [72] . Diversa sarà quindi anche la reazione concreta alla violazione dell’obbligo. Dunque, a) non occorre più il concetto anche solo fattuale del silenzio, poiché dall’atto si passa a considerare il rapporto nel quale l’obbligo si inserisce; b) non occorre più l’impugnazione dell’atto, ma si passa all’accertamento dell’obbligo. Alla pronuncia demolitoria in un giudizio impugnatorio, si sostituisce definitivamente una pronuncia di accertamento in un giudizio cognitorio. Questo dato era stato riconosciuto in parte anche prima della legge 241/90, che avrebbe potuto trarne le opportune conseguenze configurando una autonoma, semplice e diretta azione di accertamento, fondata sulla diversa causa petendi in luogo del ricorso amministrativo ancorato al petitum, che ancora resiste. Ma solo ora tale dato diviene evidente in tutta la sua portata, rendendo del tutto inutile la categoria del silenzio – rifiuto. In breve, il silenzio non è più carattere fisiologico del sistema amministrativo; la regola, quali che siano i tempi effettivi, sui quali non sembrano registrarsi grandi progressi, sono il tempo certo ed il provvedimento esplicito, in ogni caso; il che supera completamente anche le ipotesi di silenzio significativo, ormai incompatibili con i nuovi principi del sistema in tutte le loro forme. Che si tratti di silenzio – assenso o di silenzio – diniego, infatti, tali qualificazioni non fanno venire meno la situazione di incertezza, che è in assoluto contrasto con il principio generale della certezza. L’articolo 2 detta infatti un principio generale, valido per tutto l’ordinamento, ed assorbente tutte le situazioni con esso contrastanti [73] . Inoltre, il silenzio significativo è in netto e insuperabile contrasto con l’articolo 3 della legge 241/90, che prescrive il generale obbligo di motivazione di ogni provvedimento; ovviamente, nel silenzio non è rinvenibile alcuna motivazione intelligibile. In conclusione, se nel contenuto della tutela non si registrano particolari progressi, almeno è definitivamente spaziato via il silenzio in ogni sua forma, e con esso l’erronea concezione che si rassegnava di considerarlo un dato fisiologico nei rapporti cittadino – pubblica amministrazione.
[1]
Tradizionalmente, il termine è definito come un periodo
di tempo al cui decorso l’ordinamento attribuisce un determinato rilievo.
Più specificamente nel diritto processuale, si tratterebbe di un periodo di tempo che la legge stabilisce per il valido compimento dei
singoli atti del processo. In realtà, ci sembra che il termine non si
identifichi con l’intero periodo
di tempo, ma, trattandosi di uno strumento per isolarne un momento specifico
cui collegare determinati effetti, si limiti e denotare un momento iniziale o finale di quel periodo, il cui decorso è un
fatto.
[2]
Termine e silenzio sono
pertanto due concetti ed istituti diversi e, a nostro avviso, del tutto
indipendenti l’uno dall’altro, tanto che la dottrina ha elaborato e
configurato il secondo anche e soprattutto in un contesto caratterizzato
dalla normale assenza del primo. Tuttavia, CLARICH, in Termine
del procedimento e potere amministrativo, Torino 1995, inquadrando il
silenzio – inadempimento come mancanza di un provvedimento che concluda in
modo espresso il procedimento alla scadenza del termine – e la definizione
come punto di partenza ci sembra riduttiva poiché il silenzio –
inadempimento era stato elaborato anche e proprio per i casi di assenza di
termine, come silenzio – rifiuto illegittimo, sicché l’Autore nella
definizione prospettata sembra già saltare alle conclusioni consentite
successivamente all’introduzione del termine nel 1990 – descrive termine
scaduto e silenzio come le due facce della medesima medaglia. Tra silenzio e
termine scaduto vi sarebbe la stessa relazione necessaria che tra termine e
ritardo nell’adempimento. Per le ragioni esposte, entrambe le relazioni
non ci sembrano poi realmente necessarie, ed anzi il silenzio come categoria
subentra proprio in assenza di un termine, la cui sussistenza tuttavia pone
il diverso problema della scadenza ictu
oculi e della relativa difformità dello stato di fatto da quello di
diritto. Tale difformità non deve essere necessariamente valutata in
termini di silenzio; può ad esempio rilevare come inadempimento, come
illegittimità, come decadenza, etc. In breve, termine e silenzio non sono
in una relazione necessaria, e sono anzi concetti autonomi ed indipendenti.
Ricordiamo che iul silenzio è stato elaborato in assenza di un sistema di
termini. Ciò non esclude che i diversi concetti possano trovare la loro
collocazione lungo una linea evolutiva ideale del tipo tempo – silenzio
– termine – inadempimento; che è poi il percorso concluso dalla legge 7
agosto 1990, n. 241. L’Autore citato rileva invece correttamente come in
assenza di termine, il rapporto – questo sì necessario – è tra tempo e
silenzio. Infatti, “il decorso del tempo è elemento costitutivo ed
essenziale del silenzio come istituto giuridico”, in LIGNANI, Silenzio
(Diritto Amministrativo), in Enciclopedia
del Diritto, p. 564.
[3]
In precedenza, di
regola non erano stabiliti termini per il compimento delle attività
procedimentali, se non in poche eccezionali ipotesi, in cui peraltro il
termine serviva più che altro ad attribuire un certo significato alla
mancata determinazione. Cfr. G. GUARINO, Atti
e poteri, in Dizionario
Amministrativo, Milano 1983, p. 149.
[4]
La struttura a triplice
livello è rilevata da CLARICH, Termine
del procedimento e potere amministrativo, Torino 1995.
[5]
Segnatamente, l’assenza
di criteri di quantificazione dei termini ‘di secondo livello’, la
mancanza di una disciplina per l’ipotesi di inosservanza del termine e per
il contenuto della relativa tutela, il carattere indifferenziato ed
irrealistico del termine residuale. L’incertezza come fenomeno correlato
al tempo non viene insomma eliminata, ma spostata
su di un piano diverso, quello delle conseguenze.
[6]
Dovere che si configura
come situazione soggettiva attiva avente come contenuto una fattispecie di
potere; mentre non si tratta ancora di un obbligo (cfr. tuttavia la
lungimirante anticipazione di LEDDA, Il
rifiuto del provvedimento amministrativo, Torino 1964, in nota n. 45)
poiché non vi corrisponde una diversa situazione soggettiva attiva di
diritto. Cfr. G. GUARINO Potere
giuridico e diritto soggettivo, Napoli 1990 (rist.).
[7]
Cfr. la nota n. 2, in
fine.
[8]
Come ha fatto la legge
7 agosto 1990, n. 241, con l’articolo 2 comma 1, avente valore di
principio generale.
[9]
Cfr, SANDULLI, Manuale
di diritto Amministrativo, Napoli 1990; cfr. anche SCOCA, Il
silenzio della pubblica amministrazione, Milano 1971: il silenzio
equiparato per legge ad un provvedimento non è vero silenzio, ma è
espressivo di un provvedimento positivo o negativo. Il problema sorge se non
c’è questa qualificazione legislativa.
[10]
Lo nota tra gli altri
M. A. SANDULLI, Riflessioni sulla
tutela del cittadino contro il silenzio della Pubblica Amministrazione,
in Giustizia Civile, Milano 1994,
pp. 485 e ss., che rileva una “vera e propria esplosione” del silenzio
– assenso, ma ne trae conclusioni tutt’altro che positive, di cui subito
nel testo, sul piano della certezza.
[11]
Che ora dovrebbe
rilevare ex articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, rendendo
illegittimo ogni forma di silenzio significativo. Cfr. oltre in queste
pagine.
[12]
Cfr. M. A. SANDULLI, cit.,
che esamina attentamente le molteplici implicazioni sul piano concreto. Ad
esempio, il controinteressato all'’esercizio di una attività che si
asserisce tacitamente autorizzata -–oggi per effetto della legge 537/1993
anche con semplice autodenuncia – è costretto ad una duplice
azione per ottenere l’inibizione di quella attività: da un lato, deve
denunciare alla competente autorità amministrativa giudiziaria l’esercizio
abusivo di una attività non autorizzata o ritenuta tale per assenza di
tutti i requisiti per la formazione del silenzio - assenso, poiché il
silenzio appunto non chiarisce la sussistenza effettiva di tutti i requisiti
che rendono legittima e formalmente autorizzabile l’attività stessa; dall’altro
lato e contemporaneamente, ha l’ulteriore onere di impugnare il silenzio
formatosi illegittimamente per assenza dei presupposti! Peraltro, se l’attività
fosse svolta realmente in modo abusivo e quindi non autorizzabile, non
sembra giusto onerare il controinteressato di un giudizio impugnatorio di
uno stato di fatto – l’Autrice parla ancora di provvedimento tacito –
privo dei presupposti per la sua formazione, quando quel soggetto ha
interesse proprio all’accertamento del mancato
venire in essere di quello stato di fatto, che invece è costretto ad
impugnare come se esistesse, solo perché l’ordinamento non contempla una
autonoma azione di accertamento quale sarebbe necessaria.
Inoltre,
anche per il soggetto interessato allo svolgimento dell’attività
tacitamente autorizzata, restano rilevanti elementi di incertezza e rischio:
dal momento che il silenzio determina una fictio
senza che sia detto che vi sono tutti i presupposti per la sua
formazione, al privato che decide di intraprendere ugualmente l’attività
viene accollata una valutazione di conformità e legittimità che dovrebbe
essere invece compiuta dall’amministrazione. Né sembra configurabile una
richiesta di accertamento della avvenuta formazione del silenzio –
assenso, poiché questo si forma in modo automatico e fattuale, e non in
relazione a situazioni soggettive azionabili. Rileva infatti la
giurisprudenza come, nell’impossibilità di una soluzione giurisdizionale
dell’incertezza, l’assenso si forma “a rischio e pericolo dell’interessato”:
Cons. St. V 15 gennaio 1990, n. 23; T.A.R. Lombardia, Brescia, 13 ottobre
1989, n. 959; T.A.R. Abruzzo, Pescara, 15 settembre 1990, n. 576. Rilievi
analoghi possono valere per l’incertezza connaturata al silenzio –
diniego ed al nuovo istituto dell’autodenuncia di cui alla legge 537/1993.
[13]
Cfr., tra i tanti
autori, LEDDA, Il rifiuto di
provvedimento amministrativo, TORINO 1964; SCOCA, Il
silenzio della pubblica amministrazione, Milano 1983; G. GUARINO, Dizionario
Amministrativo, Milano 1983, p. 154.
[14]
Sul dovere di
provvedere come presupposto essenziale per l’impugnazione del silenzio si
sono pronunciati molti autori. In particolare, per il contenuto e l’evoluzione
del fondamento del dovere di provvedere, cfr. QUATTRINI, L’articolo
2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 come strumento di tutela degli interessi
del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in Iustitia
1/1996, pp. 30 e ss.; T.A.R. Calabria RC, 20 maggio 1992, n. 438, è
espressione della giurisprudenza che afferma il dovere di provvedere in
considerazione della dovuta correttezza e trasparenza dell’azione
amministrativa. T.A.R. Piemonte II, 19 dicembre 1991, n. 443, e T.A.R.
Liguria, 17 dicembre 1991, n. 684, sono esempi dell’affermazione del
generalizzato obbligo a provvedere sulle istanze dei privati anche motivando
il diniego; ma si tratta di pronunce rese nel contesto dei nuovi principi
introdotti dalla legge 241/90. In precedenza, dal dovere di provvedere
sussistente quando espressamente configurato dalla legge, si era giunti al
procedimento doveroso come espressione del principio di legalità, il che
comportava conseguenze anche per il dovere di provvedere in modo espresso e
motivato; es. Cons. Stato IV, 9 novembre 1954, n.733; Cons. St. V, 2 marzo
1957, n. 87; Cons. St. VI, 11 febbraio 1959, n. 104. In principio, il
ricorso si ammetteva solo quando il dovere di procedere risultava
chiaramente e specificamente da una disposizione che, anche se non lo
prevedeva espressamente, fosse comunque riferibile alla situazione concreta,
prevedendo ad esempio il potere del privato di presentare una certa domanda
ad una determinata autorità, competente poi ad adottare un provvedimento
individuato dalla norma. Successivamente, ed abbandonata peraltro la
concezione attizia di cui più avanti nel testo, si ritenne che il dovere di
provvedere potesse sorgere anche da norme del tutto generiche, ivi compresi
i principi informatori dell’attività amministrativa, quali ad esempio il
principio di imparzialità, quando si era già provveduto in ordine a
soggetti diversi in posizioni analoghe: Cons. St. IV, 14 novembre 1986, n.
730; T.A.R. Lazio III, 2 novembre 1988, n. 1283; T.A.R. Lazio I, 23 novembre
1988, n. 1636, e molte altre; ovvero il principio di buon andamento, come in
T.A.R. Molise, 28 maggio 1986, n. 65; o il principio di legalità. In
sintesi, dalla previsione espressa del dovere di provvedere, si è giunti
alla configurazione dello stesso anche in presenza di attività
originariamente del tutto discrezionali, quando vi fossero norme generiche o
principi che rendevano concretamente doverosa l’attività astrattamente
discrezionale; cfr in particolare TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, in Diritto
processuale amministrativo, rivista trimestrale, Milano 1/1992, pp. 534
e ss.
[15]
Cons. St. IV, 2 agosto
1902, n. 429; si tratta della famosa pronuncia resa nel caso Longo, in un
ricorso proposto da un alunno di cancelleria; il termine congruo venne all’epoca
fissato in dieci giorni. Cfr. MURRA, Il
silenzio – rifiuto, un istituto da rivedere, in Temi Romana 1990, pp. 694 e ss.; GALASSO – MODESTI, Il
silenzio in diritto amministrativo, generalità sulla figura del silenzio
– intesa, in Nuova rassegna 1995, n. 11/12, pp. 1276 e ss.
[16]
Cfr. TODARO
cit., p.536.
[17]
Cfr. la fondamentale
Cons. St. Ad. Plen., 3 maggio 1960, n. 8, in cui si inizia a rilevare l’arbitrarietà
della concezione attizia.
[18]
Cons. St. Ad. Plen., 10
marzo 1978, n. 10
[19]
Cfr. Cons. St. VI, 6
giugno 1984, n. 335, per la quale il silenzio – rifiuto non è
configurabile senza l’atto di messa in mora che assegni un termine minimo
per provvedere.
[20]
Cfr. la nota n. 3.
[21]
In questo senso,
CARNEVALE, Il termine nel procedimento
amministrativo, in Nuova rassegna,
1991, n. 11/12. Pp. 1126 e ss.; questo autore, con riguardo al termine ex
legge 241/90, ne individua i caratteri sanzionatorio,
alla luce anche della disciplina penale dell’omissione o rifiuto di atti d’ufficio;
stimolatorio, inteso ad evitare
ritardi; esortativo alla
formalizzazione documentale delle fasi procedimentali e relativi tempi, che
devono risultare da una valutazione ed essere ragionevoli; propulsivo dell’azione amministrativa nel suo complesso.
[22]
Su struttura e funzione
della diffida e del giudizio impugnatorio del silenzio, cfr. tra gli altri
POLITI, Formazione del silenzio –
rifiuto e disciplina del procedimento amministrativo, in Tribunali Amministrativi Regionali 1995 II, pp. 552 e ss.
[23]
L’argomentazione è
sostenuta con decisione e netta presa di posizione critica dal MARONE, L’impugnativa
del silenzio – rifiuto. Ipotesi per colmare una lacuna legislativa, in
Foro Amministrativo 1993, pp. 313 e ss.
[24]
Per questo rilievo, cfr.
CLARICH, Termine del procedimento…,
cit.
[25]
CLARICH, cit.
[26]
In questo senso TODARO,
cit.; si richiama in proposito la ricostruzione dell’evoluzione del
dovere di provvedere, ora desumibile anche da norme generiche e dai principi
informatori dell’attività amministrativa, elaborata dall’Autore e
riassunta nella nota n. 13.
[27]
Rileva quindi anche la
trasformazione del dovere come
situazione giuridica attiva in obbligo
cui corrisponde una situazione di diritto, in capo ai terzi interessati, al
provvedimento espresso. Cfr. la nota n. 6, e, con riguardo alla natura
originaria di obbligo riguardo all’esercizio della funzione
amministrativa, LEDDA, Il rifiuto del
provvedimento amministrativo, Torino 1964, riportato nella nota n. 45.
[28]
Nel quale obbligo, come
subito nel testo, è consentito ravvisare sia l’obbligo di conclusione, sia l’obbligo di provvedimento
espresso.
[29]
Contra, cfr. però
TRUINI, Il termine per l’adozione
dei provvedimenti, in Nuova rassegna, n. 19/1992, pp. 2097 e ss.: questo
autore ribalta il concetto, rilevando l’opportunità di seguire la
giurisprudenza nell’utilizzare la locuzione “obbligo di procedere”,
piuttosto che “di provvedere”; potendo tale obbligo essere adempiuto non
solo con provvedimenti di merito, ma anche con decisioni di rito per ragioni
di carattere procedurale, l’obbligo riguarderebbe non l’adozione di un
atto esterno finale, ma la conclusione in quanto tale, in qualunque modo; a
parte il rilievo, compiuto anzi tutto dal CLARICH op.
cit. , sulla inadeguatezza delle categorie procedural - civilistiche nel
diritto amministrativo, riteniamo che anche la decisione di rito non esoneri
l’amministrazione da una estrinsecazione formale delle ragioni procedurali
– ed è anche questo un provvedimento espresso.
[30]
Così MURRA, Il
silenzio – rifiuto: un istituto da rivedere, in Temi
Romana 1990, pp. 694 e ss. In giurisprudenza, cfr. T.A.R. Lazio, 23
novembre 1993, n. 1440: “Gli articoli 2 e 3 della legge 241/90…sanciscono
definitivamente l’intrinseca illegittimità del silenzio – rifiuto,
riconnettendolo ad una situazione…di lesione sintomatica dell’interesse
legittimo di colui che sarebbe comunque dovuto essere destinatario di una
pronuncia – non importa se positivva, negativa o interlocutoria – da
parte dell’autorità adita.” Nello stesso senso, più recente, T.A.R.
Lazio, 14 dicembre 1994, n. 1527, che collega il silenzio rifiuto,
illegittimo per definizione, ad un comportamento di inerzia dell’amministrazione.
[31]
Il combinato disposto
con l’articolo 3 richiede che tale pronuncia espressa sia anche motivata.
Cfr. QUATTRINI, L’articolo 2 della
legge 241/1990 come strumento di tutela degli interessi del cittadino dei
confronti della pubblica amministrazione, in IUSTITIA
1/1996, pp. 30 e ss. Secondo il T. A. R. Campania sez. I Napoli, 18
febbraio 1993, n. 99, l’amministrazione deve obbligatoriamente esprimersi
in maniera esplicita e valida sull’istanza rivoltale.
[32]
CLARICH, cit.
[33]
Da questo punto di
vista, termini rigidi fissati legalmente in via generale ed astratta
rischierebbero di sortire un effetto contrario a quello preso di mira,
ponendo in essere degli inutili e vuoti vincoli formalistici inadeguati a
soddisfare gli interessi in causa; il che non toglie che almeno la
previsione di criteri orientativi e di riferimento nella quantificazione
sarebbe stata più che opportuna.
[34]
Circolare Min. Funzione
Pubblica, 8 gennaio 1991, n. 60397 – 7/463, in G. U. 23 gennaio 1991, n 19
[35]
Parere Cons. St. Ad.
Plen. 21 novembre 1991, n. 141 sullo schema di decreto del Ministro degli
Interni concernente il regolamento di esecuzione degli articoli 2 e 4 della
legge 241/90; in tale occasione, la legge stessa è definita come “legge
generale” sul procedimento, che individua dati valori ordinamentali
fondamentali.
[36]
Parere 21 novembre
1991, n. 141 cit.
[37]
Nel Parere 23 gennaio
1992, n. 10, sullo stesso oggetto del precedente parere 141/91, si legge le
amministrazioni non possono prevedere termini irragionevolmente lunghi; “la
legge, ponendo, in via generale, termini brevi per la conclusione dei
procedimenti, ammette delle motivate eccezioni: ma queste potrebbero suonare
come elusione delle chiare finalità della norma, se contemplassero termini
obiettivamente molto lunghi.” Cfr. anche la nota successiva.
[38]
E difatti, contro
pratiche elusive quali la fissazione di termini eccessivamente lunghi, quali
1800 giorni per il certificato di prevenzione incendi del Ministero degli
Affari Interni, il parere dell’Adunanza Generale del Consiglio di Stato
del 23 gennaio 1992 ha fatto presente che la giurisprudenza non è disposta
ad avallare termini “irragionevolmente lunghi”; la legge tuttavia sembra
avere fatto proprio questo, il che riduce la portata del principio della
certezza dei tempi, svuotandolo nel suo aspetto quantitativo – tempi
certi sì, ma ancora lunghi; d’altra parte, dovendo il termine, e
giustamente, essere ancorato alle esigenze funzionali ed organizzative dei
singoli uffici, realisticamente conoscibili e valutabili dalle sole
amministrazioni, tali elementi difficilmente saranno sindacabili dalla
giurisprudenza. Può questa esprimersi sulla richiesta di uno sforzo di
coscienza, ancorato a clausole in bianco che non è possibile riempire di
contenuto realmente “giuridico”?
[39]
In tal senso,
CARNEVALE, Il termine nel procedimento
amministrativo, cit.
[40]
In proposito, si
ricordano i rilievi di chi in genere ha espresso dubbi sulla temporizzazione
dei procedimenti: la fissazione di un tempo – limite in astratto non
terrebbe conto della molteplicità degli eventi che possono presentarsi in
concreto, e delle diverse esigenze da ponderare; la fissazione di termini
comporterebbe il mutamento degli interessi sottostanti il procedimento: da
ponderazione ed acquisizione ordinata e completa di interessi, a velocità e
velocizzazione ad ogni costo, anche, ad esempio, prescindendo da un
importante parere obbligatorio come possibile ex art. 16 della legge 241/90.
La fissazione di termini certi sarebbe un rimedio rischioso e superficiale.
Se a questi rilievi, compiuti dal MELE a commento di CARNEVALE cit.,
in generale si può rispondere che, proprio per evitare tali inconvenienti,
i termini non sono fissati in astratto, ma affidati nella quantificazione
concreta alle singole amministrazioni che conoscono e valutano le esigenze
da ponderare, gli stessi rilievi sono utilissimi proprio per considerare
come, se si pretendesse l’osservanza ad ogni costo del brevissimo termine
residuale, invero le esigenze di superficiale celerità ad ogni costo
rischierebbero di prevalere sulle esigenze di ponderazione e completezza
proprio nei procedimenti più complessi e delicati, ad esempio in materia
ambientale!
[41]
Più precisamente:
conseguenza dell’inosservanza dell’obbligo di fissare il termine, è l’operatività
del termine residuale sul piano formale; la conseguenza dell’inosservanza
dell’obbligo di rispettare il termine, prefissato o residuale, non è
invece stabilita; in questo senso si parla di precetti senza sanzione.
[42]
Come è definito da
TRUINI cit.
[43]
Salvo restando fermi a
concepire il ‘sistema dei termini’ non in senso dinamico come riferito
alla osservanza dei tempi certi, ma ancora in senso statico come riferito
alla mera esistenza formale di termini.
[44]
Cfr. CLARICH, op.
cit.
[45]
Ancora, e diffusamente,
CLARICH cit.
[46]
Proprio con riferimento
ai procedimenti avviati ad istanza di parte, compie una affermazione che
alla luce della nuova disciplina di cui nella legge 241/90 risulterà essere
di fondamentale importanza, e dunque, dati i tempi di estrema lungimiranza,
LEDDA, Il rifiuto del provvedimento
amministrativo, Torino 1964: il potere – dovere di esercitare la
funzione amministrativa si configura come un obbligo
di pronunciarsi sull’istanza, e quindi il privato ha il “diritto ad una risposta”, che è un diritto soggettivo.
[48]
LEDDA ult. cit., p. 114, distingue tra il dovere d’ufficio, che permane,
e l’obbligo di pronuncia, rispetto al quale c’è inadempimento; l’Autore
in pratica anticipa i tempi rispetto alla futura disciplina che sarà
dettata solo nel 1990. Inoltre, “la pronuncia può venire in
considerazione sotto due profili distinti: in quanto comportamento o
condotta, essa costituisce adempimento dell’obbligo stabilito a favore del
privato; in quanto atto, esso si configura invece come causa di estinzione
del dovere d’ufficio. L’adempimento dell’obbligo è indipendente dal
dovere di provvedere…” Le conseguenze sull’interesse perdurante al
provvedimento, e, de iure condendo sulla eventuale configurabilità di due diverse
azioni di tutela, sono piuttosto evidenti.
[49]
Secondo la
ricostruzione fatta da G. GUARINO, Potere
giuridico e diritto soggettivo, Napoli 1990 (rist.), la soggezione è una situazione
giuridica sfavorevole inattiva; ad essa dovrebbe corrispondere non il
potere, che è fattispecie normativa di comportamento, ma la diversa
situazione giuridica sfavorevole attiva del dovere, avente come
contenuto il potere. Siccome questo potere – dovere corrisponde alla
posizione in cui si trova l’amministrazione anche nel rapporto venuto in
essere con l’istanza nei procedimenti così avviati, questa identità di
situazioni dell’amministrazione dovrebbe potere superare almeno in parte
la distinzione tra i due tipi di procedimenti. Essa manterrebbe una utilità
dal punto di osservazione del privato, ed allora ci si potrebbe interrogare
sulla natura della situazione del privato stesso, e sui relativi contenuti:
diritto, o pretesa, o semplice interesse, o più cose insieme? Non dovrebbe
trattarsi di un vero diritto, poiché questo è situazione attiva, mentre in
realtà il privato non ha facoltà di azione (in senso atecnico) nei
confronti della p.a.; l’interesse sorge certamente in maniera occasionale
dalla contemplazione normativa, ma specificamente dovrebbe trattarsi di una
pretesa – cioè di una situazione favorevole inattiva - al
comportamento dell’amministrazione.
[50]
Ci si richiama, nell’inquadramento
dell’istituto decadenziale, a GUARINO, Potere giuridico e diritto soggettivo, Napoli 1990 (rist.), p. 92:
La decadenza attiene non al diritto (situazione soggettiva sulla quale può
operare la prescrizione estintiva), ma alle fattispecie dinamiche, in cui
rientra il potere. “La decadenza…non è che un modo negativo e improprio
per denotare che la fattispecie di cui si tratta… era limitata nel quando
e che il termine… è scaduto. Trascorso il termine, vi è impossibilità
che la fattispecie normativa si traduca in fattispecie reale.” In breve:
il potere in quanto tale resta integro; esso non può venire esercitato, e,
se esercitato, non produce gli effetti tipici. La decadenza non è in alcun
modo in rapporto diretto con i diritti, per cui il diritto al provvedimento,
che fonda l’impugnazione, non può decadere, ma solo prescriversi
ordinariamente.
[51]
La circostanza che il
risultato finale debba essere un provvedimento restrittivo non esclude che
scaduto il termine, permanga (non il potere di provvedere, inteso come
esercizio del potere stesso, bensì) l’obbligo di rispettare le norme
relative alla corretta gestione del procedimento: anche nel procedimento d’ufficio,
l’inosservanza del termine costituisce di per sé inadempimento e quindi
violazione di legge immediatamente rilevabile e di natura sostanziale;
infatti, il diritto dell’interessato a che la sua sfera sia ristretta
entro il termine certo, è di natura sostanziale e certo non si estingue nel
momento della scadenza del termine.
[52]
Il diritto sostanziale
al provvedimento entro il termine, ordinariamente prescrittibile, può
certamente essere fatto valere manca il provvedimento ampliativo nei
procedimenti a istanza di parte – sul piano logico, nulla esclude che lo
stesso diritto possa essere fatto valere in quanto tale se interviene un
provvedimento restrittivo tardivo. In entrambi i casi, la questione sulla
ulteriore responsabilità per i danni è una questione assolutamente
diversa.
[53]
Al riguardo, giova
tenere presente che anche nei procedimenti ad istanza di parte, in cui il
diritto al provvedimento nel termine è evidente, il provvedimento finale
può essere nei fatti restrittivo della sfera del soggetto, ove rigetti l’istanza.
La restrizione in questo caso è riferita alla potenziale espansione della
sfera giuridica del destinatario, ed è percepibile soprattutto in caso di
rigetto illegittimo, sino a quando non sia decisa la relativa impugnazione
in senso favorevole all’interessato.
[54]
Parere Cons. St. Ad.
Gen. 21 novembre 1991, n. 141, citato in precedenza; ancora prima, sulla
necessità di realizzare gli ambiziosi obiettivi di pubblicità/trasparenza
ed efficienza dell’azione amministrativa (con possibili difficoltà di
conciliare i due principi: TRUINI, Il
termine…, cit.) Parere Ad
Gen. 17 febbraio 1987, n.7. In particolare, coniugando trasparenza ed
efficienza, anche tramite il coinvolgimento del cittadino nel procedimento,
la legge 241 dovrebbe realizzare un nuovo tipo di rapporti tra la pubblica
amministrazione ed il cittadino: tra gli altri, in questo senso TRUINI cit.,
QUATTRINI cit., CLARICH cit.
Riferimento di base è l’attuazione dell’articolo 97 Cost., con speciale
riguardo all’imparzialità – tale articolo, inizialmente ritenuto vago
ed indeterminato, viene oggi considerato come avente “contenuto precettivo
indiscutibile”; cfr. M. S. GIANNINI, Diritto Amministrativo, Milano 1970
[55]
L’amministrazione di
riferimento, ovvero il responsabile del procedimento, deve tenere conto di
questi tempi endoprocedimentali interpellando le varie amministrazioni
altrimenti coinvolte e stipulando accordi con le medesime per la gestione e
ripartizione dei tempi; il termine finale dovrà considerare tutti i tempi
necessari per le varie fasi del procedimento, che però non rilevano all’esterno;
si tratta di una questione di organizzazione del lavoro degli uffici; per il
cittadino rileva esclusivamente il termine unitario finale, comprensivo di
ogni fase e subprocedimento. Cfr. CLARICH cit.
Questo rilievo supera quella parte della giurisprudenza, menzionata dal
GALLI, Corso di Diritto Amministrativo,
Padova 1991, e che riteneva, con particolare riguardo al termine residuale,
che questo si computasse autonomamente e nuovamente per ciascuna fase o
ciascun subprocedimento, risultando il tempo complessivo dall’addizione
matematica dei vari termini.
[56]
L’unitarietà del termine rappresenterebbe quindi un regime
alternativo e diverso rispetto alla possibilità che ciascuna
amministrazione coinvolta fissi uno specifico termine per quanto di sua
competenza, ed il termine finale risulti quindi dalla somma dei distinti
termini. Data la ovvia necessità del concerto tra le diverse
amministrazioni a qualunque titolo coinvolte, ci si potrebbe invero chiedere
dove sia la effettiva differenza, quando il termine unitario risulta
comunque dalla considerazione di tutti i tempi necessari. Ma vi è di più:
la circostanza che i singoli tempi necessari nelle diverse fasi non vengano
esplicitati con rilevanza esterna, ma restano
assorbiti nel termine unico ed unitario, sembra diminuire
le garanzie in ordine alla effettiva osservanza dei tempi da parte di
ciascuna amministrazione, anche perché tutta la responsabilità per l’osservanza
del termine unitario grava sulla sola amministrazione di riferimento. Da
questo punto di vista, la fissazione di un termine risultante dalla somma di
più termini tutti espressamente
predeterminati e conoscibili a priori, ciascuno con un proprio vincolo
all’osservanza da parte della singola amministrazione responsabile,
sarebbe forse stata addirittura più trasparente ed efficace in termini di
responsabilità.
[57]
Il che riduce
notevolmente i margini di quella attesa incerta fisiologica di cui si è
detto in precedenza, e dalla quale si è elaborata la figura del silenzio
giuridicamente rilevante ai fini della reazione.
[58]
CLARICH cit. individua con precisione i sei profili di rilevanza giuridica
del termine (interni, intermedi ed esterni), genericamente richiamati nel
testo.
[59]
Cons. St. IV, 2 agosto
1902, n. 429, richiamata in precedenza.
[60]
Cons. St. Ad. Plen. 10
marzo 1978, n. 10, anch’essa richiamata in precedenza.
[61]
Circolare Min. Funzione
Pubblica 8 gennaio 1991, n. 60397 – 7/463; in dottrina, cfr. VIRGA, Diritto
Amministrativo, Milano 1991, secondo il quale l’articolo 2 contiene
sono l’obbligo a provvedere, e non anche le conseguenze della sua
violazione.
[62]
Le peculiarità
impeditive della decadenza nella situazione in oggetto stanno trovando
riconoscimento graduale anche in giurisprudenza. Escludono la consumazione
del potere di impugnazione T.A.R. Veneto I, 30 novembre 1991, n. 987; T.A.R.
Lombardia, Brescia, 2 ottobre 1992, n. 1041; Cons. St. IV, 2 ottobre 1989,
n. 658, ancor prima della nuova legge! La decadenza poteva avere un senso
quando il silenzio si assimilava ad un provvedimento, mentre oggi a rigore
potrebbe anche non più parlarsi di silenzio, rilevando invece il concreto
inadempimento. La formalizzazione di questo con la scadenza del termine non
estingue il dovere di provvedere, e l’omissione da quel momento in poi
continua ad essere contegno illegittimo giorno per giorno – finché c’è
inerzia, il termine di decadenza è spinto in avanti senza potere mai
scadere. Cfr. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, in Diritto
processuale amministrativo, rivista trimestrale, Milano, 1/1992, pp. 534
e ss.; SANDULLI M. A., Riflessioni
sulla tutela…cit.
[63]
In questo senso, la
stragrande maggioranza degli autori citati in queste pagine, primi fra tutti
CLARICH, M.A. SANDULLI, MODESTI/GALASSO, POLITI, MURRA, BONORA; MARONE cit.
si richiama all’articolo 25 della legge 241/90 in materia di diritto d’accesso,
per proporre de iure condendo un tipo di tutela di accertamento caratterizzato da
tempi rapidissimi e procedure snelle; l’articolo richiamato è comunque
ritenuto non estensibile in via analogica dalla maggioranza della dottrina.
[64]
Recente, ma non
chiarissima, T.A.R. Lombardia, 27 gennaio 1996, n. 102, secondo la quale “non
sussiste…l’onere dell’interessato di gravare il silenzio rifiuto
formatosi alla scadenza del termine, potendosi sempre impugnare il
provvedimento esplicito che l’amministrazione ha la possibilità di
emanare anche dopo detta scadenza.” Sembrerebbe doversi dedurre che a)
alla scadenza del termine continua a formarsi un silenzio
rifiuto come presupposto per l’inerzia, e b) che la reazione debba
consistere comunque non nel ricorso contro l’inadempimento, ma
esclusivamente nella impugnazione del provvedimento tardivo!
[65]
La più nota e
richiamata è T.A.R. Lazio, Latina, 11 febbraio 1993, n. 138; più di
recente, T.A.R. Puglia, Lecce, 25 giugno 1996, n. 574, secondo cui “deve
concludersi per la non – necessità, dopo la legge 241 del 1990, dell’utilizzo
dei meccanismi previsti dall’art. 25 T.U. imp. civ. St. 3/57, e per la
possibilità di impugnare direttamente il silenzio – rifiuto (sic!)
in sede giurisdizionale una volta decorso il termine per la conclusione del
procedimento”.
[66]
In ordine al quale si
potrebbero trarre delle conseguenze pro futuro da quanto evidenziato da
LEDDA, Il rifiuto del provvedimento…cit.,
come riportato nella nota 45 e nella nota 48: si potrebbe giungere a configurare
una azione di accertamento in reazione alla violazione del dovere di
provvedere, ed una azione risarcitoria con riguardo alla violazione dell’obbligo
di pronuncia. In giurisprudenza, T.A.R. Lazio I, 30 luglio 1996, n.
1307, menziona la possibilità di agire nella sede propria del giudizio di
ottemperanza.
[67]
Si ammette invero che
il giudice possa sostituirsi all’amministrazione nella valutazione quando
questa è interamente vincolata.
Ma ciò non toglie che il giudice non possa certo sostituirsi all’amministrazione
nell’adozione del provvedimento.
Anche ammettendo la possibilità di sindacare la fondatezza della pretesa
del privato e l’illegittimità del contegno dell’amministrazione, non si
supera quindi il problema di come costringere l’amministrazione ad
adottare il provvedimento dovuto.
[68]
T.A.R. Friuli Venezia
Giulia, Trieste, 13 giugno 1997, n. 480: “… ad ogni singolo atto di
avvio deve corrispondere un provvedimento terminale, il cui destinatario
deve avere fin dall’inizio l’esatta rappresentazione dell’oggetto del
procedimento in corso, per potere interloquire con cognizione di causa.”
Si configura una necessaria relazione speculare e sinallagmatica tra singolo
atto di avvio e singolo provvedimento conclusivo.
[69]
Alla luce della
distinzione elaborata da LEDDA, cit.
tra dovere d’ufficio e obbligo di provvedere, la locuzione “trasformazione”
appare forse approssimativa; essa coglie tuttavia la novità della
disciplina, su cui si è tanto insistito
[70]
Si possono richiamare
le conclusioni sulla possibile doppia tutela, tratte dai rilievi di LEDDA, cit.,
riportati nelle note 45, 48 e 55.
[71]
Cfr. MARONE, L’impugnativa
del silenzio – rifiuto. Ipotesi per colmare una lacuna legislativa, in
Foro amministrativo 1993, pp. 313 e ss. Ritenendo che siano venuti
meno i presupposti che giustificano una posizione di supremazia della P.A.
nei rapporti con i privati, che anzi devono potere controllare l’amministrazione
nella sua crescente pervasività in ogni campo, in questa sede si propone
peraltro uno strumento annullatorio di tutela con termini e modalità
particolarmente veloci. Ma ha ancora senso un rimedio annullatorio, che in
fondo richiama il risalente schema impugnatorio?
[72]
Si tratta invero di un
contenuto di vincolo ad una fattispecie comportamentale; cfr. GUARINO, Potere
giuridico e diritto soggettivo, Napoli, rist. 1990
[73]
Cfr. T.A.R. Lazio II, 6
marzo 1991, n. 456: Il dovere di concludere il procedimento con atto
formale, siccome è espresso dalla norma richiamata che ha portata
di principio generale, non può che essere derogato da norme che
esplicitamente si pongono come eccezione rispetto ad esso; ma questo non è il caso delle norme che qualificano l’inerzia, sicché
ad esse non può essere riconosciuta efficacia derogatoria.